RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA –  CASS., 7 FEBBRAIO 2024, N. 3386 – L’ESTEROVESTIZIONE COME PRINCIPIO GENERALE APPLICABILE ANCHE ALL’IMPOSTA DI REGISTRO?

Di NICOLÒ ZANOTTI -

L’esterovestizione come principio generale applicabile anche all’imposta di registro?(*)

La massima della Suprema Corte

Il contrasto al fenomeno dell’esterovestizione societaria assume valenza di principio generale dell’ordinamento e, perciò, è applicabile non soltanto alle imposte sui redditi, nel cui Testo Unico sono rinvenibili i criteri per la determinazione della residenza fiscale, ma anche alle imposte indirette, trovando il suo fondamento nel diritto tributario europeo, nel dovere costituzionale di partecipare alla spesa pubblica e nelle regole di derivazione UE e OCSE.

Il (tentativo di) dialogo

La sentenza in commento affronta il tema della corretta misura dell’imposta di registro da applicare ad un atto di conferimento di beni immobili siti in Italia, posto in essere da una persona fisica residente, in una società con sede legale in uno Stato (all’epoca) membro dell’UE, allorché il Fisco contesti la fittizia localizzazione della suddetta società. L’art. 4, nota IV, Tariffa, parte I, all. al TUR, introdotto in attuazione dei principi affermati dalla Direttiva 69/335/CEE (c.d. Dir. Capital Duty), poi sostituita dalla Direttiva 2008/7/CE per garantire la libera circolazione dei capitali, prevede, infatti, l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa (200,00 euro), anziché proporzionale, per il caso in cui la società conferitaria abbia «sede legale o amministrativa in altro Stato membro dell’UE».

Ciononostante, nel caso di specie, l’Ufficio aveva applicato l’imposta proporzionale, ritenendo che solo apparentemente la conferitaria operasse all’estero. L’avviso di liquidazione era stato poi annullato dalla CTR, poiché il Fisco non avrebbe dimostrato l’esterovestizione. La Cassazione ha però ritenuto che la CTR sia incorsa in violazione delle norme sul riparto dell’onere probatorio, in quanto avrebbe dovuto operare una più attenta valutazione degli elementi indiziari prodotti, così da accertare se questi fossero sufficienti, pur nel rispetto della libertà di stabilimento, ad integrare una presunzione di esterovestizione. Ed infatti, qualora, indipendentemente dalla formale esistenza di una segreteria nel Regno Unito, i profili addotti fossero risultati idonei a dimostrare la costruzione puramente artificiosa della conferitaria, costituita al solo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale, si sarebbe dovuta applicare l’imposta di registro in misura proporzionale.

In altre parole, la Suprema Corte ha ritenuto di estendere al tributo di registro, nella sua tradizionale natura d’imposta d’atto, le conclusioni già raggiunte dai Giudici di legittimità, sotto la lente dei principi espressi dalla Corte di Giustizia UE in tema di effettività o artificiosità dell’insediamento, con riferimento all’interpretazione dei criteri di collegamento stabiliti dall’art. 73 TUIR, che, fino alla recente riforma intervenuta col D.Lgs. n. 209/2023, definiva come fiscalmente residente la società avente in Italia la sede legale, dell’amministrazione o l’oggetto principale.

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Il profilo di maggior interesse curato dalla sentenza risiede nel fatto di aver ritenuto che la citata norma “armonizzatrice”, di cui all’art. 4, nota IV, a mente della quale, ai fini dell’applicazione dell’entrata in misura fissa, la conferitaria debba avere la sede legale o amministrativa in altro Stato membro, richieda una lettura appropriata dei due requisiti legittimanti, solo in apparenza alternativi fra loro. Questi dovrebbero, infatti, essere interpretati sistematicamente alla luce delle conclusioni già raggiunte con riferimento alla corretta determinazione della residenza fiscale dei soggetti passivi IRES, ai sensi dell’art. 73 TUIR.

La pronuncia statuisce, quindi, che, affinché l’imposta sui conferimenti possa dirsi applicata in armonia con le regole sulla concorrenza europee, sia necessario che la determinazione della sede della conferitaria rispetti le indicazioni provenienti dall’art. 10, della Direttiva 2008/7/CE e, dunque, che all’estero sia presente la sua “direzione effettiva”. Ai fini della corretta interpretazione della disposizione nazionale sarebbe, perciò, errato fare riferimento a formule astratte che prescindano totalmente dal contesto di riferimento e non siano espressive dell’esistenza di un collegamento preferenziale della società con lo Stato estero; essendo necessario definire, al di là delle risultanze formali, in quale luogo concretamente si esprime la gestione dei rapporti giuridici connessi all’attività svolta dalla conferitaria, così da stabilire l’ordinamento giuridico con cui essa presenta una substantial connexion.

La Suprema Corte ha, quindi, elevato a principio generale, applicabile anche all’imposta di registro, quanto già stabilito dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia con riferimento alla disciplina delle CFC (cfr. CGCE, C-196/04, Cadbury Schweppes), laddove ha ritenuto ammissibile una misura restrittiva della libertà di stabilimento solo se rivolta alle costruzioni di puro artifizio, prive di effettività economica, finalizzate esclusivamente a disapplicare la normativa dello Stato membro interessato.

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Le conclusioni della Cassazione sembrano apprezzabili laddove ritengono che, per poter applicare l’imposta fissa, occorra il radicamento all’estero della conferitaria da accertare mediante una valutazione complessiva del ruolo attribuito al suo insediamento, che non può consistere in una creazione meramente artificiosa a cui non corrisponde alcuna realtà economica. Ciò che non è del tutto condivisibile è il percorso motivazionale, che tende ad applicare de plano, anche all’imposta sui trasferimenti, i criteri di determinazione della residenza fiscale previsti per l’IRES, senza i dovuti correttivi.

L’imposta di registro richiede, infatti, di individuare il presupposto impositivo nel complessivo assetto d’interessi desumibile dall’atto presentato per la registrazione. Deve, perciò, aversi riguardo agli elementi che emergono dal documento da registrare “al momento” del conferimento, rilevando esclusivamente il suo contenuto giuridico e non anche potenziali condotte abusive, che potranno, semmai, essere contestate ai sensi dell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente.

In conclusione, anche nell’imposta di registro, il riferimento alla “sede di direzione effettiva” appare utile ad interpretare correttamente il succitato art. 4, nota IV, non potendo il Fisco limitarsi all’osservazione della singola realtà estera, riguardata sotto l’ottica distorta delle sole informazioni rinvenute presso il conferente, ma occorrendo una valutazione complessiva dell’operazione. Ne consegue che l’applicazione dell’imposta fissa deve ritenersi giustificabile tutte le volte in cui sussiste il radicamento all’estero della conferitaria; radicamento che deve essere verificato non tanto attraverso la diretta applicazione dei criteri di collegamento stabiliti dall’art. 73 TUIR, ma più correttamente richiamando, con gli opportuni adattamenti, le conclusioni già raggiunte dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia con riferimento all’abuso della libertà di stabilimento.

(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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