L’estensione della participation exemption ai soci non residenti tra libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali
Di Alessio Persiani
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Abstract
Con alcune recenti sentenze la Corte di Cassazione ha affermato il contrasto tra le libertà fondamentali previste dall’UE e la mancata applicazione del regime di participation exemption a società ed enti non residenti. Il lavoro analizza dapprima tali arresti giurisprudenziali, esprimendo condivisione per le conclusioni raggiunte e la motivazione sottesa. Successivamente si approfondisce la norma della Legge di Bilancio 2024 intesa ad estendere il regime di participation exemption a società ed enti non residenti, evidenziando le perplessità che suscita la mancata estensione del regime a società ed enti residenti al di fuori dell’UE.
The extension of the participation exemption to non-resident shareholders – between freedom of establishment and free movement of capital. – A few recent judgments of the Italian Supreme Court stated that the non-applicability of the participation exemption regime to non-resident shareholders infringes EU fundamental freedoms. The paper first analyses these judgments, expressing agreement with the conclusions reached and the underlying motivation. It then goes on to examine the provision of the Italian Budget Law 2024 aimed at extending the participation exemption regime to non-resident shareholders, highlighting the concerns raised by the limitation of the extension to EU and EEA shareholders, thus leaving in place a potential infringement of the EU fundamental freedoms with respect to non-EU shareholders.
Sommario:1. Cenni introduttivi. – 2. Il contesto fattuale e i motivi di ricorso proposti dall’Agenzia delle Entrate. – 3. La condivisibilità della conclusione e della motivazione della Corte di Cassazione. – 4. Le modifiche all’art. 68 TUIR recate dalla Legge di Bilancio 2024. – 5.Pex, libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali. – 6. Conclusioni.
1. Con la sentenza n. 21261 del 19 luglio 2023 la Corte di Cassazione ha rilevato il contrasto con le libertà fondamentali garantite dal TFUE della mancata applicazione del regime di participation exemption (“Pex”) di cui all’art. 87 TUIR alle plusvalenze realizzate da società non residenti prive di stabile organizzazione in Italia. La medesima conclusione è stata poi confermata nelle più recenti sentenze della stessa Corte n. 23323 del 1° agosto 2023 e n. 27267 del 25 settembre 2023, con motivazioni largamente ispirate alle posizioni espresse nella prima pronuncia. Nei parr. 2 e 3, dunque, si farà riferimento alla sentenza di luglio 2023, fermo restando che analoghe considerazioni valgono anche per le pronunce successive. Recependo il dictum della giurisprudenza, il legislatore della Legge di Bilancio 2024 ha modificato l’art. 68 TUIR al fine di adeguare il nostro ordinamento alle libertà fondamentali UE. Analizzeremo tale previsione nei parr. 4, 5 e 6.
2. La questione sottoposta alla Corte traeva origine dall’istanza di rimborso presentata da una società francese che deteneva una partecipazione c.d. “importante” in una società italiana, che attribuiva un diritto agli utili di quest’ultima in misura almeno pari al 25%. In tal caso la regola generale di cui all’art. 13, par. 4 della Convenzione contro le doppie imposizioni conclusa tra Italia e Francia (“CDI Italia-Francia”) che attribuisce la potestà impositiva in via esclusiva allo Stato di residenza del socio subisce una deroga: il par. 8 lett. b) del Protocollo annesso alla Convenzione Italia-Francia (“Protocollo Italia-Francia”) stabilisce, infatti, che le plusvalenze derivanti dalla cessione di azioni o quote facenti parte di una partecipazione “importante” siano imponibili nello Stato di residenza della società partecipata in base alla relativa normativa nazionale.
In ragione di ciò, la società francese aveva assoggettato la plusvalenza sulla partecipazione nella società italiana realizzata nel 2013 al regime di parziale esenzione allora previsto dalla disciplina dei redditi diversi: data l’assenza di una stabile organizzazione in Italia, infatti, la società francese aveva determinato il proprio reddito imponibile in base al principio c.d. atomistico di cui all’art. 152, comma 2, TUIR e, dunque, aveva assoggettato ad imposizione la plusvalenza nella misura del 49,72% (art. 68, comma 3, TUIR, nella versione applicabile ratione temporis). La società francese aveva quindi scontato un carico impositivo pari al 13,673% (vale a dire, l’aliquota IRES del 27,5% applicata alla base imponibile del 49,72%) della plusvalenza realizzata, mentre in una situazione analoga una società italiana che, al pari di quella francese, avesse soddisfatto le condizioni del regime Pex avrebbe scontato un carico impositivo pari all’1,375% (27,5% applicato alla base imponibile del 5%).
Di qui la richiesta di rimborso e il susseguente contenzioso instaurato dalla società francese per far valere il contrasto della normativa italiana con le libertà fondamentali sancite dal TFUE, richiamando, peraltro, i principi statuiti dalla CGUE nella ben nota sentenza del 19 novembre 2008, C-540/07, Commissione c. Italia sul regime fiscale dei dividendi distribuiti a società non residenti. Le ragioni della società francese erano state accolte dai giudici di entrambi i gradi di merito.
Il ricorso per cassazione presentato dall’Agenzia delle Entrate si fondava su:
i. la diversità della situazione in cui venivano a trovarsi le società non residenti rispetto a quelle residenti rispetto al regime Pex, con la conseguente impossibilità di estendere alla questione controversa le statuizioni di cui alla sentenza Commissione c. Italia;
ii. la necessità di appurare l’eventuale diversità di trattamento delle plusvalenze realizzate, rispettivamente, da società residenti e non residenti tenendo conto del meccanismo del credito d’imposta per le imposte assolte all’estero di cui all’art. 24 della CDI Italia-Francia; meccanismo che – ad avviso dell’Agenzia ricorrente – sarebbe stato in grado di “ristabilire” la parità di trattamento tra le due fattispecie.
3. La Corte di Cassazione ha respinto entrambe le censure proposte dall’Agenzia delle Entrate.
Quanto all’argomento relativo alla non omogeneità tra le fattispecie, la Corte di Cassazione correttamente ricostruisce la ratio della Pex e mette in luce come tale regime persegua la medesima finalità di quello di esclusione da imposizione dei dividendi, ossia l’eliminazione – o, quantomeno, la mitigazione – della doppia imposizione economica sugli utili societari: sotto il profilo economico, infatti, il plusvalore realizzato in occasione della cessione di una partecipazione è costituito da utili conseguiti o conseguibili dalla società partecipata e, come tali, essi o sono già stati tassati presso di essa o sconteranno le imposte in futuro. Di qui – aggiungono i giudici di legittimità – l’estensione al caso di specie dell’iter logico adottato dalla CGUE nella sentenza Commissione c. Italia: nel momento in cui lo Stato di residenza della società partecipata (l’Italia, nella specie) esercita la propria potestà impositiva sulla plusvalenza, l’esigenza di evitare la doppia imposizione economica degli utili societari si pone allo stesso modo sia per i soci residenti sia per quelli non residenti, non potendosi rintracciare una disomogeneità tra la fattispecie oggetto di causa ed il tertium comparationis che consenta al legislatore di prevedere regimi fiscali tra loro diversi. Né – correttamente puntualizza la Suprema Corte – assume rilievo l’assenza di una stabile organizzazione in Italia della società-socio non residente: l’obiettivo di attenuare la doppia imposizione economica sugli utili societari si pone allo stesso modo per entrambe le categorie di soci alla sola condizione che l’Italia decida di esercitare la propria potestà impositiva sulla plusvalenza, a prescindere dalla presenza di una stabile organizzazione.
Al di là della coerenza delle statuizioni della Corte di Cassazione con la giurisprudenza unionale, la pronuncia di legittimità merita apprezzamento sotto un profilo più generale: la puntuale ricostruzione della ratio della Pex risulta pienamente in linea con i dettami della valutazione di omogeneità delle fattispecie delineati nel contesto dell’applicazione del principio costituzionale di eguaglianza (Paladin L., Corte Costituzionale e principio generale d’eguaglianza. Aprile 1979 – Dicembre 1983, in Aa.Vv., 1956-2006. Cinquant’anni di Corte Costituzionale, Roma, 2006, II, 1097 ss.; Scaccia G., Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, 30 ss.). Al riguardo, va notato che la pronuncia di legittimità in commento risulta persino più apprezzabile rispetto alla giurisprudenza unionale. Se è vero, infatti, che in molte sentenze della CGUE ricorre l’affermazione secondo cui l’omogeneità delle fattispecie deve essere valutata «alla luce dell’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali interessate», l’analisi della giurisprudenza suggerisce come la ratio della disciplina tributaria nazionale non sia stata sempre compiutamente indagata, avendo i giudici unionali in alcune occasioni ravvisato la comparabilità tra fattispecie contraddistinte da profili di diversità rispetto alla ratio sottesa alla disciplina (si pensi a CGUE, C-324/00, Lankhorst-Hohorst relativa alla normativa tedesca anti-thin capitalization che, in quanto volta a prevenire l’arbitraggio tra la tassazione degli interessi attivi in capo a mutuanti non residenti e la deduzione degli interessi passivi da parte di mutuatari tedeschi, trovava la sua ragion d’essere anche nel carattere transnazionale della fattispecie, evidentemente non estendibile al tertium comparationis puramente nazionale).
I giudici di legittimità hanno correttamente rigettato anche la seconda censura invocata dall’Agenzia delle Entrate e relativa alla funzione riequilibratrice del diverso regime fiscale di soci residenti e non residenti in ragione della possibilità per i secondi di fruire nello Stato di residenza del credito d’imposta per le imposte assolte in Italia sulla plusvalenza.
Al di là del fatto – tutt’altro che trascurabile – che nel caso di specie la società francese non avesse goduto di alcun credito per l’imposta italiana essendo la plusvalenza assoggettata in Francia ad un regime di esenzione, la Corte di Cassazione affronta la questione sotto un profilo più generale, tratteggiando le condizioni al ricorrere delle quali il credito d’imposta per l’imposta estera sia effettivamente in grado di assolvere alla suddetta funzione riequilibratrice.
Se è ben vero, infatti, che le norme della CDI conclusa tra i due Stati interessati fanno parte del contesto normativo rilevante ai fini del giudizio sull’esistenza di una discriminazione o restrizione (cfr. CGUE, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, par. 71; C-170/05, Denkavit Internationaal, par. 45, ove la CGUE ha superato il diverso orientamento espresso nella storica sentenza C-270/83, Commissione c. Francia, par. 26) e che gli Stati ben possono utilizzare le norme convenzionali per neutralizzare il diverso trattamento delle fattispecie previsto dalle norme di fonte nazionale (CGUE, C-379/05, Amurta, par. 79: «non può escludersi che uno Stato membro garantisca il rispetto dei suoi obblighi derivanti dal Trattato stipulando una convenzione volta ad evitare la doppia imposizione con un altro Stato membro»), occorre altresì rilevare che la neutralizzazione è effettivamente tale solo allorché essa si verifichi in ogni caso e a prescindere dalla normativa interna dell’altro Stato contraente. Né, in quest’ottica, il diverso trattamento delle fattispecie in uno Stato può essere neutralizzato da regimi interni dell’altro Stato, ossia da norme di carattere unilaterale e non previste a livello convenzionale (CGUE, C-379/05, Amurta, par. 78; CGUE, Cause riunite C-10/14, C-14/14 e C-17/14, Miljoen e altri, parr. 77 e 81): mancherebbe, in tal caso, la volontà del primo Stato di riequilibrare (anche mediante previsioni di fonte convenzionale) il diverso trattamento previsto dalla sua normativa interna (CGUE, C-43/07, Arens-Sikken, par. 65).
Nel caso di specie, quindi, l’Italia sarebbe stata bensì libera di prevedere a livello interno un diverso trattamento della plusvalenza realizzata da un socio non residente e neutralizzare tale diverso trattamento mediante le norme convenzionali (quelle della CDI Italia-Francia, nella specie), ma tale neutralizzazione avrebbe dovuto verificarsi in ogni caso e a prescindere dal regime fiscale previsto per la plusvalenza nell’ordinamento estero. In questo senso, il meccanismo del credito d’imposta per l’imposta estera assolve a tale funzione di neutralizzazione solo allorché sia conformato come un credito d’imposta c.d. integrale, ossia non sottoposto al limite della quota d’imposta nazionale riferita al reddito prodotto all’estero (CGUE, C-487/08, Commissione c. Spagna, par. 60; Cause riunite C-10/14, C-14/14 e C-17/14, Miljoen e altri, par. 80; causa C-572/20, ACC Silicones, par. 47). Scelta, questa, che sarebbe bensì maggiormente in linea con la funzione di eliminazione della doppia imposizione internazionale propria del meccanismo del credito d’imposta (Contrino A., Contributo allo studio del credito per le imposte estere, Torino, 2012, 19 ss.), ma che l’Italia non ha adottato né nella normativa interna, né nelle CDI concluse con i principali Stati esteri, compresa la Francia.
Di qui la conclusione dei giudici di legittimità, che correttamente hanno rigettato tale argomento dell’Agenzia delle Entrate ed hanno confermato la rimborsabilità del 12,298% della plusvalenza realizzata, ossia della differenza tra il 13,673% scontato dalla società francese e quello dell’1,375% che avrebbe scontato una società italiana applicando il regime Pex.
4. Come anticipato, la discriminazione rilevata dalle citate pronunce della Corte di Cassazione ha indotto il legislatore a modificare le previsioni dell’art. 68 TUIR, estendendo l’applicazione del regime Pex anche a società ed enti non residenti privi di stabile organizzazione in Italia a condizione che siano soddisfatti i requisiti dell’art. 87 TUIR.
Con l’art. 1, comma 59, L. n. 213/2023 (Legge di Bilancio 2024) si è previsto, infatti, l’inserimento nel corpo dell’art. 68 TUIR di un nuovo comma 2-bis volto ad estendere il regime di assoggettamento ad imposizione delle plusvalenze nella misura del 5% «alle cessioni di partecipazioni qualificate aventi i requisiti di cui alle lettere a), b), c) e d) del comma 1, dell’articolo 87, effettuate da società ed enti commerciali di cui all’articolo 73, comma 1, lettera d), privi di stabile organizzazione nel territorio dello Stato, residenti in uno Stato appartenente all’Unione europea o allo Spazio economico europeo che consente un adeguato scambio di informazioni e siano ivi soggetti ad una imposta sul reddito delle società». Per effetto di tale modifica e del correlato meccanismo di determinazione di cui al citato art. 68, le plusvalenze su partecipazioni qualificate in società aventi i requisiti della Pex realizzate a partire dal 1° gennaio 2024 dalle società e gli enti esteri dianzi indicati sarebbero imponibili nella misura del 5% del relativo ammontare, al netto di eventuali minusvalenze anch’esse rilevanti nella misura del 5%.
Sotto il profilo soggettivo la modifica è destinata ad applicarsi ai soci esteri residenti in Stati membri dell’UE e del SEE, ossia, Islanda e Norvegia – con cui è da tempo in vigore una CDI che prevede lo scambio di informazioni con l’Italia (cfr. circ. n. 32/E/2011) – e Liechtenstein, che ha concluso con l’Italia un accordo di scambio di informazioni ratificato con la legge n. 210 del 2016 (oltre ad aver sottoscritto con l’Italia una CDI attualmente in corso di ratifica). Tale limitazione all’ambito UE/SEE desta perplessità: come diremo più ampiamente nel prosieguo, il pieno adeguamento della normativa italiana ai principi unionali avrebbe dovuto condurre ad estendere il regime Pex anche ai soci residenti in Stati extra-UE che consentono lo scambio di informazioni con l’Italia.
Quanto all’ambito oggettivo di applicazione, deve condividersi la limitazione alle sole plusvalenze qualificate: le plusvalenze non qualificate, infatti, sono considerate come non prodotte nel territorio dello State se riferite a partecipazioni in società residenti “quotate” (art. 23, comma 1, lett. f), n. 1, TUIR) ed escluse da imposizione in Italia se le azioni non sono quotate e il cedente è residente in uno Stato di white list di cui al D.M. 4 settembre 1996 (art. 5, comma 5, lett. a), D.Lgs. n. 461/1997).
Quanto al meccanismo, talune perplessità suscita l’aliquota applicabile alla quota imponibile (5%) della plusvalenza: mentre nel caso dei soci residenti trova applicazione, come detto, l’ordinaria aliquota IRES del 24%, la suddetta modifica normativa, nell’intervenire sulla disciplina dei redditi diversi, non sembra derogare all’aliquota del 26% dell’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi applicabile a tutte le plusvalenze finanziarie di cui all’art. 67 TUIR (art. 5, comma 2, D.Lgs. n. 461/1997). Di qui una residua diversità nel livello di imposizione gravante sui soci non residenti rispetto a quelli residenti; diversità che, tuttavia, non necessariamente si risolve a sfavore dei soci esteri, atteso che essi – a differenza dei soci residenti – possono dedurre una quota pari al 5% delle minusvalenze realizzate su partecipazioni che soddisfano i requisiti dell’art. 87 TUIR e, tenuto conto di tale deduzione, potrebbero finire per scontare un livello di imposizione inferiore a quello dell’1,2% gravante sulla plusvalenza realizzata dai soci residenti. Di qui anche la dubbia rilevanza di una tale diversità di aliquota nell’ottica della valutazione di coerenza con le libertà fondamentali, giacché, a seconda delle circostanze, i soci non residenti potrebbero ricevere un trattamento migliore rispetto ai soci residenti.
Venendo all’effettivo impatto della modifica normativa, nel contesto degli Stati UE essa incide sui soci residenti in Francia – in ragione dell’illustrata previsione del Protocollo Italia-Francia – e a Cipro, tenuto conto della norma convenzionale (con formulazione, invero, assai peculiare) che attribuisce potestà impositiva allo Stato in cui «l’alienazione dei beni mobili è posta in essere» (art. 13, par. 3, CDI Italia-Cipro).
Una specifica analisi meritano, poi, le conseguenze della modifica sulle plusvalenze realizzate su partecipazioni in società immobiliari. Come noto, giusta l’art. 87, comma 1, lett. d), TUIR, la Pex non si applica alle plusvalenze realizzate in società immobiliari, per esse intendendosi quelle il cui valore patrimoniale è prevalentemente costituito da beni immobili diversi dagli immobili c.d. merce e dagli immobili c.d. strumentali. Con la conseguenza che la Pex può ben trovare applicazione nel caso di plusvalenze su partecipazioni in società il cui valore patrimoniale sia costituito in prevalenza da immobili merce o immobili strumentali. Tale distinzione basata sulla classificazione degli immobili rientranti tra i beni d’impresa non trova corrispondenza a livello internazionale. Le CDI concluse dall’Italia con Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania e Romania e quella sottoscritta (ma non ancora ratificata) con il Liechtenstein attribuiscono, infatti, potestà impositiva allo Stato della fonte nel caso di alienazione di azioni in società immobiliari definendo queste ultime senza avere riguardo alla categoria dei beni d’impresa cui gli immobili appartengono. Di qui la possibile applicazione del regime Pex (e, dunque, della novella in commento) alle plusvalenze realizzate da soci residenti nei citati Stati esteri su partecipazioni in società immobiliari il cui patrimonio sia prevalentemente formato da immobili merce o immobili strumentali.
Sempre con riferimento alle società immobiliari, il rilievo della novella potrebbe essere persino maggiore nel prossimo futuro. Ci riferiamo all’ipotesi in cui l’Italia decidesse di ratificare la Convenzione Multilaterale di recepimento delle modifiche BEPS sottoscritta nel 2017 (c.d. Convenzione Multilaterale) e ritenesse di confermare la posizione espressa in sede di sottoscrizione a favore delle modifiche all’art. 13, par. 4 del Modello OCSE. Nell’attribuire potestà impositiva anche allo Stato di residenza della società partecipata sulle plusvalenze su partecipazioni in società il cui valore, per più della metà, deriva, in qualsiasi momento nel corso dei 365 giorni precedenti la loro cessione, direttamente o indirettamente da beni immobili situati nello stesso Stato di residenza della società partecipata, tali modifiche prescindono dalla classificazione degli immobili quali beni c.d. patrimoniali ovvero quali immobili merce o immobili strumentali. Con la conseguenza che le CDI concluse con tutti gli Stati che hanno espresso una posizione concorde sulle modifiche all’art. 13, par. 4 del Modello OCSE sarebbero automaticamente modificate in tal senso per effetto della ratifica della Convenzione Multilaterale e anche in tali casi si aprirebbe la via alla possibile applicazione del regime Pex (e, dunque, anche della modifica in discorso) nei termini sopra illustrati.
5. Come accennato, uno degli aspetti di maggiore interesse della novella dell’art. 68 TUIR riguarda il suo ambito soggettivo di applicazione.
Seguendo l’impostazione adottata a seguito della sentenza Commissione c. Italia sulla tassazione dei dividendi distribuiti a società non residenti (cfr. art. 27, comma 3-ter, D.P.R. n. 600/1973 introdotto dalla L. n. 244/2007), il legislatore italiano ha limitato l’estensione del regime Pex ai soli enti e società residenti in altri Stati membri dell’UE o del SEE che garantiscono lo scambio di informazioni.
Tale impostazione sottende che la non applicazione del regime Pex ai soci non residenti sia in contrasto con la libertà di stabilimento, quale libertà applicabile nell’ambito territoriale dell’UE e del SEE.
Le sentenze della Corte di Cassazione non contengono, al riguardo, indicazioni decisive. Nella controversia di cui alla sentenza n. 21261 del luglio 2023 la società francese aveva dedotto il contrasto della normativa italiana con riferimento sia alla libertà di stabilimento, sia alla libera circolazione dei capitali e la pronuncia di secondo grado aveva fatto generico riferimento ad entrambe le libertà fondamentali. Nella motivazione della sentenza si rintracciano talora passaggi riferiti alla libertà di stabilimento, in ragione della detenzione da parte della società francese di una partecipazione di controllo nella società italiana, talora passaggi che annettono rilievo alla libera circolazione dei capitali. Anche le motivazioni delle successive sentenze nn. 23323 e 27267 non sono di aiuto.
Al fine di individuare la libertà fondamentale applicabile occorre avere riguardo alla giurisprudenza unionale che si è occupata di tracciare il confine applicativo tra libertà di stabilimento e libera circolazione dei capitali, delineandone un’applicazione mutualmente esclusiva (Bizioli G., Il principio di non discriminazione nell’Unione europea, in Carinci A. – Tassani T., a cura di, I diritti del contribuente, Milano, 2022, 124-126; più in generale Pistone P., Diritto tributario europeo, Torino, 2020, 136).
Per un lungo lasso di tempo la CGUE ha ritenuto che il discrimine tra le libertà fondamentali in parola dovesse tracciarsi sulla scorta di due criteri:
i. la finalità perseguita dalla disciplina oggetto di analisi, verificando se essa fosse o meno indirizzata a fattispecie in cui potesse ravvisarsi un rapporto partecipativo di controllo (rectius, un legame partecipativo tale da consentire al socio «di esercitare una sicura influenza sulle decisioni» della partecipata e di «indirizzarne l’attività»; cfr. CGUE, C-251/98, Baars, par. 22; CGUE, C-196/04, Cadbury Schweppes, par. 31; CGUE, C-524/04, Test Claimants in the Thin CapGLO, par. 27; CGUE, C-492/04, Lasertec, par. 20), e
ii. in via subordinata rispetto al primo criterio, le caratteristiche del caso di specie, ossia se nella specifica fattispecie portata all’attenzione della Corte vi fosse un legame partecipativo di controllo (nel senso sopra specificato) o meno.
L’applicazione di tali criteri aveva condotto ad applicare:
i. la libertà di stabilimento alle discipline nazionali riferite a fattispecie caratterizzate da un rapporto partecipativo di controllo, come, ad esempio, nel caso della disciplina CFC (CGUE, C-196/04, Cadbury Schweppes), delle norme anti-thin capitalization (CGUE, C-524/04, Test Claimants in the Thin CapGLO; CGUE, C-492/04, Lasertec), nonché della normativa svedese sull’imposizione dei dividendi nel caso di società ad azionariato ristretto e nelle quali, quindi, i soci esercitavano un’influenza determinante sulla loro gestione (CGUE, C-102/05, Skatteverket c. A e B);
ii. la libera circolazione dei capitali alle discipline nazionali indirizzate ai cc.dd. portfolio investments, ossia a fattispecie in cui non era dato ravvisare un rapporto partecipativo di controllo nel senso sopra precisato. Proprio sulla base di ciò i giudici unionali hanno applicato la libera circolazione dei capitali, ad esempio, alla disciplina tedesca di contrasto alle manovre di c.d. dividend stripping, ritenendo marginali i casi in cui la stessa disciplina potesse applicarsi a partecipazioni di controllo (CGUE, C-182/08, Glaxo Wellcome, par. 36 e ss.).
Con l’ulteriore conseguenza che solo nel secondo caso la tutela era estesa a fattispecie coinvolgenti soggetti extra-UE, essendo la libera circolazione dei capitali l’unica tra le libertà fondamentali che trova applicazione anche al di fuori del territorio unionale.
Nel caso di normative nazionali “generiche”, ossia applicabili tanto a casi di partecipazioni di controllo quanto ai portfolio investments, trovava applicazione il secondo dei criteri sopra menzionati: in tali casi, infatti, la Corte di Giustizia individuava la libertà fondamentale applicabile in funzione delle caratteristiche del caso di specie. Di qui l’esame alla luce della sola libertà di stabilimento di normative nazionali “generiche” in quanto riferite a fattispecie involgenti partecipazioni di controllo (CGUE, C-284/06, Burda, par. 68-75; CGUE, C-303/07, Aberdeen, par. 30-36). Né sono mancati casi in cui la Corte ha esaminato la disciplina in relazione ad entrambe le libertà fondamentali in quanto le relative fattispecie riguardavano sia partecipazioni di controllo sia partecipazioni di minoranza (CGUE, C-374/04, Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, par. 30-40; CGUE, C-446/04, Test Claimants in the FII Group Litigation, par. 33-38).
Tale approccio, tuttavia, aveva condotto a risultati non pienamente coerenti. In primo luogo, i portfolio investments risultavano maggiormente tutelati rispetto agli investimenti cc.dd. diretti, agli investimenti, cioè, volti ad acquisire il controllo e ad influire sulla gestione della società partecipata: nel primo caso, infatti, trovava applicazione la libera circolazione dei capitali, estesa anche al di fuori dei confini unionali, mentre gli investimenti diretti erano sempre tutelati in base alla sola libertà di stabilimento, anche nel caso di normative nazionali “generiche”. In secondo luogo, la CGUE si era resa conto che, nel caso di normative “generiche”, individuare la libertà applicabile in funzione delle caratteristiche del caso di specie avrebbe condotto ad un’applicazione frammentaria del diritto unionale, con risultati potenzialmente incoerenti.
Di qui il cambio di orientamento nella sentenza Test Claimants in the FII Group Litigation del 2012: ferma restando l’applicazione della libertà di stabilimento alle discipline nazionali riferibili a fattispecie caratterizzate da rapporti partecipativi di controllo (di recente, CGUE, C-707/20, Gallaher, a proposito della disciplina di exit tax) e della libera circolazione dei capitali alle norme nazionali applicabili ai portfolio investments, nel caso di previsioni nazionali “generiche” deve trovare applicazione la libera circolazione dei capitali, a prescindere dalle caratteristiche del caso di specie e, dunque, della detenzione da parte del socio di una partecipazione di controllo o meno (CGUE, C-35/11, Test Claimants in the FII Group Litigation, par. 88-104; in senso conforme anche la successiva CGUE, C-464/14, SECIL; in dottrina Bizioli G., Il principio di non discriminazione nell’Unione europea, cit., 126; Dourado A.P., The EU Free Movement of Capital and Third Countries: Recent Developments, in Intertax, 2017, Vol. 45, No. 3, 192-204). Tutto ciò salva l’ipotesi in cui la normativa nazionale in esame riguardi le condizioni di accesso al mercato; ipotesi che, tuttavia, risulta difficilmente configurabile nel caso di discipline tributarie, come tali destinate ad incidere sulle condizioni di esercizio dell’attività nel mercato.
Se così è e tornando al regime Pex rilevante in questa sede, la sua applicazione generalizzata e indipendente dalla quota partecipativa detenuta porta a ritenere che la sua coerenza con i principi UE debba essere verificata alla luce non già della libertà di stabilimento, bensì della libera circolazione dei capitali, come tale applicabile anche a soggetti extra-UE.
Alla luce di ciò, dunque, risultano chiare le perplessità sollevate dalla norma della Legge di Bilancio 2024, che, come detto, estende il regime Pex ai soli enti e società residenti in Stati UE e SEE, nulla prevedendo per quelli residenti al di fuori dell’UE. Con l’ulteriore precisazione, peraltro, che – tenuto conto del consolidato orientamento della CGUE sull’applicazione della causa di giustificazione relativa all’efficacia dei controlli fiscali nel caso di soggetti residenti al di fuori dell’UE – il regime Pex dovrebbe estendersi solo ai soci extra-UE che risiedano in Stati che acconsentano allo scambio di informazioni con l’Italia, sulla base della relativa norma della CDI o di un accordo appositamente concluso.
6. Il pieno e corretto recepimento dei principi stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità dovrebbe condurre il legislatore ad estendere il regime Pex non solo a società ed enti residenti in Stati UE o SEE, ma anche a quelli residenti in Stati extra-UE che acconsentano allo scambio di informazioni con l’Italia. Ove ciò avvenisse, la novella dell’art. 68 TUIR inciderebbe anche sulle plusvalenze realizzate da società o enti residenti in Stati extra-UE che:
i. abbiano concluso una CDI che preveda l’imponibilità in Italia delle plusvalenze su partecipazioni a prescindere dal tipo di attività svolta dalla società partecipata. Sarebbe questo il caso, ad esempio, di Brasile, Cina, Corea del Sud e Israele;
ii. abbiano concluso una CDI che preveda l’imponibilità in Italia delle plusvalenze su partecipazioni in società immobiliari. In tal caso l’incidenza avverrebbe nei termini illustrati nel precedente par. 4 (vale a dire, con riferimento alle società immobiliari con immobili merce o strumentali) e interesserebbe diversi Stati, tra cui Arabia Saudita, Colombia, Hong Kong, Jamaica, Panama, Uruguay e – soprattutto – gli Stati Uniti d’America;
iii. pur non avendo concluso una CDI con l’Italia, prevedano lo scambio con essa delle informazioni tributarie sulla base di un apposito accordo. In tal caso la plusvalenza sarebbe imponibile in Italia secondo le regole dell’art. 23, comma 1, lett. f), TUIR e riguarderebbe, tra gli altri, i soci residenti nei seguenti Stati: Andorra, Bermuda, Gibilterra, Guernsey, Isola di Man, Isole Cayman, Jersey e Principato di Monaco.
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