La relazione esamina il conflitto tra il sistema di determinazione del reddito di impresa, basato sulle risultanze delle scritture contabili, e le forme di accertamento che si basano su anomalie comportamentali, quali l’antieconomicità delle scelte imprenditoriali.
The determination of business income and the uneconomical nature of taxpayer behavior – The report examines the conflict between the system for determining business income, based on behavioral anomalies, such as the uneconomical nature of entrepreneurial choices.
Sommario: – 1. Rilevazione del reddito e centralità delle scritture contabili. – 2. Effetti in tema di deducibilità ed inerenza dei costi. – 3. La valorizzazione dei canoni di comportamento. – 4. Antieconomicità e sindacato delle scelte imprenditoriali.
1. Come noto, la rilevazione del reddito di impresa sulla base delle scritture contabili costituisce uno dei principi qualificanti della riforma degli anni Settanta e tale indirizzo ha trovato applicazione e integrazione nelle numerose disposizioni contenute nei decreti delegati e nei successivi testi normativi, tra cui l’attuale Testo Unico delle imposte sui redditi. In tale assetto, è centrale il riferimento al bilancio di esercizio, che esplica ai fini fiscali la stessa essenziale funzione, individuata dal legislatore civile, di strumento di conoscenza (e quindi di rilevazione del reddito) e di informazione in merito allo svolgimento dei fatti aziendali nei confronti di chiunque vi abbia interesse. Di qui il principio di derivazione del reddito imponibile dal risultato civilistico, sia pure con le deroghe e gli adattamenti succedutesi nel tempo, anche in ragione dell’adozione dei Principi contabili internazionali.
Stabilendo che il reddito di impresa si determina apportando all’utile o alla perdita, risultante dal conto economico, le variazioni dettate da specifiche norme tributarie, si è fissato un chiaro punto di partenza nella ricostruzione del reddito, individuato appunto nel risultato del conto economico, sia pure riadattato con le variazioni previste dal legislatore tributario.
Il meccanismo consente allora di evitare antinomie nella ricostruzione della fattispecie da rilevare quando la rilevazione contabile comporta effetti diversi da quella tributaria: la composizione delle divergenze è, infatti, attuata dalla rilevazione in bilancio, secondo le regole contabili, e dalla dichiarazione dei redditi conforme alla norma tributaria.
Emerge quindi la centralità nel sistema dei principi e delle regole contabili, cui allude il rinvio contenuto nell’art. 83 TUIR: l’osservanza delle regole contabili assicura che il risultato di esercizio sia rappresentato con verità e correttezza, inteso come il più attendibile segnale della effettiva capacità contributiva connessa all’attività commerciale. La tassazione del c.d. reddito effettivo è stata, quindi, affidata alle tecniche di rilevazione contabile, attraverso le quali è individuato il differenziale delle componenti positive e negative, di modo che la determinazione del reddito di impresa sia il più possibile analitico. E tanto anche se la regolarità della tenuta delle scritture contabili non implica certezza in ordine all’effettività del reddito prodotto, avendo tuttavia la funzione di documentare e serbare memoria di quanto prodottosi nella sfera giuridica del contribuente. In quest’ottica, il ricorso alle presunzioni, nel sistema di accertamento, è tarato in modo diverso in base al grado di correttezza della tenuta delle scritture contabili, parametrando differentemente la valenza induttiva a seconda della correttezza o meno di queste ultime.
2. Le regole che sottendono, poi, la deducibilità dei costi sono improntate a garanzia di certezza e oggettiva determinabilità e valorizzano anch’esse il collegamento con il bilancio di esercizio e la previa imputazione a conto economico, come stabilito dall’art. 109, comma 4, TUIR. E tanto ancora al fine di tutelare l’effettività dei valori dedotti e, in particolare, di quelli espressione di processi valutativi, individuando confini alla traslazione degli stessi dal conto economico alla determinazione del reddito di impresa.
La medesima esigenza di effettività dei valori dedotti può essere connessa anche al requisito di inerenza. La sua ratio è chiara: nel determinare il reddito di impresa occorre tener conto delle spese che afferiscono alla sua produzione, in modo diretto ed indiretto. Vale a dire che occorre valutare se il costo appartiene all’ambito di attività dell’impresa ed è sostenuto in ragione della medesima, indipendentemente dalla vantaggiosità o meno dello stesso. In quest’ottica, il contribuente è tenuto a dimostrare che un determinato costo è riferibile, ovvero funzionale, alla realizzazione dell’attività imprenditoriale nel suo complesso, senza che risulti necessaria una correlazione tra il costo sostenuto e il ricavo conseguito o conseguibile (Cass. civ., sent. n. 6368/2021). Di tal guisa, il principio di inerenza, in conformità a quanto previsto dall’art. 109, comma quinto, TUIR, che trova la propria ratio nella correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili, valorizza un concetto di natura finalistica di mezzo attraverso il quale perseguire l’obiettivo dell’attività, tenuto conto del mercato di riferimento, e tanto con una chiara matrice ascendente in quanto volto a manifestare le potenzialità dell’impresa nella sua totalità di interessenza.
In tal senso sono chiari gli elementi individuati dalla giurisprudenza di riferimento, quali, appunto, quello della strumentalità (Cass. civ., sent. n. 20945/2019), secondo il quale la valutazione va effettuata in relazione alla capacità del bene e/o del servizio acquistato di concorrere in concreto ad attuare lo scopo imprenditoriale, nonché quello del legame esistente tra l’acquisto e l’attività esercitata (Cass. civ., sent. n. 19157/2019 e, di recente, Cass. civ., sent. n. 2606/2022), in forza del quale il costo deve essere espressione della congiunzione che si instaura tra lo stesso e l’attività dell’impresa, senza il quale quest’ultima non potrebbe concretizzarsi ovvero produrre o incrementare, utili.
Ecco, allora, che la verifica del requisito esula dal giudizio sulla fruttuosità del costo, sul suo esito, di modo che la connessione tra costo e attività di impresa va valutata ex ante a prescindere dal risultato. Allo stesso modo, esula dalla verifica di sussistenza del requisito la valutazione c.d. quantitativa attinente cioè alla congruità del costo rispetto al volume d’affari, atteso che l’unica condizione per ravvisarsi inerenza è la riferibilità del costo all’attività.
Il principio di inerenza esprime, quindi, una correlazione tra costi e attività d’impresa in concreto esercitata e si traduce in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni circa il risultato del sostenimento della spesa.
3. In un assetto di determinazione del reddito di impresa che si affida all’analitica rappresentazione delle sue componenti nelle scritture contabili e a forme di accertamento induttivo comunque centrate sulla logica inferenziale, le forme di accertamento che si concentrano sulla valorizzazione del comportamento del contribuente per destrutturare il risultato della contabilità sono chiaramente paradossali.
Si contrappone, infatti, un sistema empirico ad uno razionalistico: i dati di esperienza rappresentati nelle scritture contabili ci consentono di acquisire la conoscenza degli oggetti esterni, mentre la consapevolezza delle operazioni mentali è responsabile dell’acquisizione della conoscenza.
La rettifica dei dati empiricamente determinati operata sulla base della comprensione del comportamento umano, della sua normalità o delle sue anomalie, inevitabilmente genera una crepa nell’impianto complessivamente delineato dal legislatore e non comporta di per sé un’inferenza induttiva idonea a dimostrare che vi sia una differenza tra quanto dichiarato e accertato.
Le inferenze induttive, cui il legislatore ha rinviato per la determinazione del reddito di impresa, sono modulate in ragione della correttezza o meno della tenuta delle scritture contabili, di modo che tali inferenze saranno più semplici quanto meno saranno precise le rilevazioni contabili. Sennonché la rilevazione delle anomalie comportamentali chiaramente non configura alcuna inferenza induttiva, neanche semplicissima, e questo perché si tratta di operazioni valutative senza lineamenti definitori chiari, sicché dovrebbe costituire un tassello residuale e da valutare esclusivamente alla luce di una serie di elementi che depongono nel senso di disconoscere le risultanze contabili.
Ed infatti l’introduzione del concetto di antieconomicità all’interno del procedimento di accertamento come sintomo di evasione, in origine, si è riscontrata all’interno di un contesto conoscitivo più complesso, ove, in uno ad altri elementi, essa consentiva di dimostrare la mendacità dei dati dichiarati. La valutazione del comportamento era assunta come mero elemento indiziario da utilizzare a suffragio di altre prove a sostegno della rettifica: si ricorda ex plurimis la nota pronuncia di Cass. civ., 9 febbraio 2001, n. 1821, che valorizzava l’antieconomicità come argomento a supporto della falsità documentale aliunde emersa.
Estrapolata dal contesto originario la valutazione sul comportamento del contribuente è divenuta, invece, fondamento delle rettifiche amministrative sia pure nei limiti poi individuati dalla giurisprudenza di macroscopicità dell’anomalia o della sua totale irrazionalità (così già Cass. civ., 9 settembre 2008, n. 22698): aperti gli argini della struttura della determinazione del reddito alla valutazione dei comportamenti è stato necessario contenere la piena del probabilismo induttivo, individuando dei paletti che hanno confinato la valenza dell’inferenza induttiva ai casi più vistosi di assoluta contrarietà del comportamento ai canoni normali dell’economia.
Ebbene la scienza del comportamento non conosce paletti certi in merito all’individuazione del c.d. buon senso e, soprattutto in campo economico, l’individuazione dei parametri di contenimento delle scelte imprenditoriali è affidata a criteri peculiari quali i fattori di background, l’attitudine soggettiva, l’intenzione e il contesto imprenditoriali. In quest’ottica, non ha rilevanza il valore dell’acquisto, ma quanto preventivamente stimato opportuno dall’imprenditore e tanto al fine ultimo di garantire l’esistenza e/o la continuità aziendale, oltre alla capacità di interagire con il mercato e la propria compagine interna.
Considerate le numerose interpretazioni possibili delle scelte in concreto operate, che potrebbero essere suffragate da ragioni diverse dall’ottimizzazione del profitto nell’immediato, o dall’immediato conseguimento di proventi a copertura di costi rilevanti, è evidente che tali forme di accertamento esulano dal novero delle inferenze induttive e prefigurano ambiti di apprezzamento così vasti da poter facilmente sconfinare nell’arbitrio.
4. Sul versante specifico dell’inerenza, il contrasto tra le “rettifiche comportamentali” e le regole di deducibilità dei costi emerge in modo ancora più netto: la possibilità di sindacare, nel corso di un controllo, le scelte imprenditoriali adottate dal contribuente asseritamente antieconomiche e di verificare la sussistenza del collegamento funzionale fra il costo e l’oggetto e/o l’attività esercitata dall’impresa sono attività che viaggiano su binari paralleli che non possono intersecarsi. Ed infatti è possibile sostenere un costo eccessivo, antieconomico, e ciò non di meno è altrettanto possibile che lo stesso sia inerente all’attività di impresa e questo perché la nozione di inerenza non richiede la suscettibilità, anche solo potenziale, di arrecare, direttamente o indirettamente, una utilità all’attività d’impresa (in senso contrario Cass. civ., 27 maggio 2015 n. 10914; 26 maggio 2017 n. 13300; nonché, con riguardo al concetto di utilità, 11 agosto 2017 n. 20049).
Va ribadito, quindi, che la valutazione operata dal legislatore e sottesa al principio di inerenza non è di tipo quantitativo.
Sulla questione, invero, la giurisprudenza ha riconosciuto, nel tempo, la scissione dei piani accertativi, riallineando la nozione fiscale di inerenza all’esercizio dell’attività d’impresa e affermando che il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità (Cass. civ., 11 gennaio 2018, n. 450; 9 febbraio 2018 n. 3170).
In quest’ottica, la Cassazione ha confermato che esula, ai fini del giudizio qualitativo di inerenza, un apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa. L’utilità del costo non ha spazio nella verifica dell’inerenza, non trovando un riscontro in dati normativi positivi e, comunque, non sempre bene si attaglia ad una varietà di sopravvenienze negative (Cass. civ., 22 gennaio 2019, n. 1610; 11 novembre 2020, n. 25350).
Ancor più di recente, la Suprema Corte, con sentenza 1° giugno 2023, n. 15530 ha affermato che la deducibilità di costi e oneri richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea a essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità – anche solo potenziale e indiretta – secondo una valutazione qualitativa e non quantitativa.
Ecco allora che la relazione tra costo ed attività è univoca tanto per le imposte dirette quanto per l’IVA, e tanto in armonia con la disciplina unionale e le decisioni della Corte di Giustizia: il costo attiene o non attiene all’attività d’impresa a prescindere dalla sua entità e vanno riconosciuti tutti quei costi sostenuti nell’ambito della strategia d’impresa intrapresa, non solo quelli direttamente afferenti ai ricavi.
In materia di IVA, infatti, la Corte di Giustizia non consente di disconoscere la detrazione dei costi per salvaguardare il principio di neutralità dell’IVA, quando si controverta dell’antieconomicità e, quindi, dell’opportunità degli stessi: il contribuente che intende esercitare legittimamente la detrazione IVA, deve limitarsi a verificare l’inerenza dei costi sostenuti e la strumentalità in concreto del bene acquistato rispetto alla specifica attività imprenditoriale; altre verifiche non possono né devono essere effettuate perché finirebbero per alterare la neutralità dell’IVA (Corte di Giustizia UE, 25 novembre 2021, Causa C-334/20 Amper Metal).
L’accertata sproporzione del costo può assumere allora un mero valore sintomatico del fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è estraneo all’attività d’impresa: esso può essere valutato all’interno di un più complesso impianto probatorio che dimostri la mancanza di inerenza, con la conseguenza che, a fronte di prova contraria, comprovante la ragione imprenditoriale, l’effettiva esistenza del costo, e la destinazione all’attività produttiva, il costo dovrà ritenersi deducibile (Cass. civ., sent. nn. 36391/21, 6368/2021, 14193/2019). Diversamente ragionando, infatti, si perverrebbe ad un duplice paradosso, ossia di legittimare un’ingerenza dell’Amministrazione nelle scelte imprenditoriali, sfera peraltro avulsa anche al giudice del merito, e di disattendere la voluntaslegis che non ha inteso escludere la deducibilità di un costo in ragione del valore dello stesso o dell’eventuale perdita generata (Cass. civ., sent. n. 18218/2021).
In assenza di diversi elementi, dall’antieconomicità non è possibile, di per sé, dedurre alcunché.
(*) Testo della relazione, opportunamente rielaborata, tenuta in occasione del convegno su “L’antieconomicità negli accertamenti tributari e l’accertamento induttivo”, organizzato dalla Commissione scientifica tributaria dell’Ordine degli Avvocati di Torino il 20 novembre 2023.
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