L’enigma del concordato preventivo biennale: un istituto che rischia di risolversi, nuovamente, in un fallimento

Di Ludovico Nicotina -

Abstract

Il Concordato preventivo biennale (Cpb) si presenta, se non come una novità assoluta, come un’evoluzione nel panorama delle metodologie impositive, resa possibile dalla crescente implementazione e affidabilità dei flussi dati telematici fruibili da parte dell’Amministrazione finanziaria. Manifesta, tuttavia, il problema di un prelievo fondato sulla predeterminazione dei redditi per categorie omogenee di contribuenti, che ha imposto al legislatore di cercare un difficile equilibrio. Equilibrio che non è certo sia stato raggiunto e che, richiamando in dubbio la reale attrattiva del concordato, rischia di fallire l’obiettivo e non consentire all’Erario d’incassare i 760,5 milioni di euro ipotizzati. In quest’ottica, per esigenze di sintesi, si accenna solo ad alcuni aspetti d’interesse, quali il problema dell’esiguità dei termini, cui si connette anche la mancata attuazione del contraddittorio semplificato preliminare; se ne analizzano, concisamente, le potenzialità antievasive e, per concludere, si segnala l’eccezionalità delle ipotesi di cessazione e decadenza dal concordato una volta prestata acquiescenza alla proposta.

The two-year arrangement (or biennial pre-arranged compromise aka Bpc) enigma is at risk of turning, once again, into an unsuccessful resolution – The Bpc, while not entirely novel, represents an evolution in the landscape of tax methodologies, made possible by the increasing implementation and reliability of telematic data flows, now accessible to the Financial Administration. However, it highlights the challenge of conducting a tax assessment based on predetermined incomes for homogeneous categories of taxpayers, compelling the lawmaker to strive for a delicate balance. It remains uncertain whether this balance has been achieved, and by questioning the actual attractiveness of the arrangement, there is a risk of failing its objective and hindering the Treasury from collecting the hypothesized €760.5 million. In this perspective, for the sake of brevity, only certain aspects of interest are addressed, such as the issue of tight deadlines, linked to the non-implementation of a preliminary simplified hearing. The potential for anti-evasion is briefly analyzed, and finally, the exceptional nature of the scenarios leading to termination and forfeiture of the arrangement once acceptance of the proposal is granted is emphasized.

Sommario: 1. Progresso tecnologico e superamento della necessità di standardizzazione. – 2. I destinatari del concordato. – 3. L’esiguità dei termini concessi per l’adesione. – 4. Il concordato non concordato, la mancata attuazione del contraddittorio sia pur semplificato. – 5. La potenzialità antievasiva del concordato preventivo e gli obblighi dichiarativi. – 6. L’efficacia vincolante del concordato preventivo. – 7. La conseguente e plausibile scarsa attrattiva del nuovo concordato preventivo.

1. La Legge delega 9 agosto 2022, n. 111, all’art. 17, comma 1, lett. g), punto 2), richiedeva «per i soggetti di minore dimensione, l’introduzione del concordato preventivo biennale, a cui possono accedere i contribuenti titolari di reddito di impresa e di lavoro autonomo». Lo schema di decreto legislativo in materia di procedimento accertativo, approvato dal Cdm il 3 novembre 2023, dedica al nuovo concordato preventivo biennale l’intero Titolo II (artt. 6 – 37), prevedendo che l’istituto abbia effetto sin dal prossimo periodo d’imposta, cioè già dal 2024.

Non si tratta di un’assoluta novità. A più riprese il legislatore ha tentato di introdurre, con scarso successo, forme di concordato preventivo destinate alle partite IVA (titolari di redditi d’impresa e di lavoro autonomo). È rimasto inattuato il concordato triennale, di cui alla Legge delega n. 289/2002; l’ambiziosa delega n. 80/2003, che lo riproponeva, con l’art. 33 D.L. n. 269/2003 ha esitato un concordato preventivo biennale sperimentale valido per il biennio 2003/2004, che ha avuto solo 250.000 adesioni, peraltro a fronte di condizioni, forse, più favorevoli di quelle in atto proposte dal nuovo Cpb, poiché offriva la sospensione degli obblighi di emissione dello scontrino e ricevuta fiscale oltre alla limitazione dei poteri di accertamento. La “pianificazione fiscale concordata”, di cui all’art. 1, commi 387-398, L. n. 311/2004 era abrogata prima di poter realmente dar prova di sé (con L. n. 266/2005).

Tremonti, promotore della riforma fiscale che già vent’anni fa si proponeva, dunque, d’istituire un concordato preventivo, ha affermato che questa nuova delega «legge la realtà e la realtà è che siamo passati dal mondo dominato dalla grande impresa a un sistema fondato su una rete di medie e piccole imprese e partite IVA diffuse» (su Il Sole 24 Ore del maggio scorso, come ci ha rammentato Mastroiacovo V., Procedimenti accertativi e nuovo rapporto tra fisco e contribuente nella legge delega di riforma tributaria, in Rass. trib., 2023, 3, 479 ss.). Non concordo pienamente con quest’analisi e, da quanto recentemente dichiarato dalla Presidenza del Consiglio, neppure questo Governo sembra concordare. Nel 2003, forse, poteva ancora ritenersi che l’economia, per lo meno in questo Paese, fosse dominata da imprese medio piccole; nel 2023, al contrario, l’economia è ormai digitale, nel senso più esteso del termine, cioè, in larga misura, nelle mani di pochi e grandi gruppi economici, sostanzialmente apolidi o comunque capaci di delocalizzazioni efficienti ed elusive. È vero che assistiamo, tuttora, ad una parcellizzazione dell’iniziativa economica in realtà di dimensioni piccole se non addirittura individuali, se pensiamo alla rilevanza economica assunta dagli influencer, ma in atto il problema fiscale di maggior rilievo consiste, palesemente, nel confronto con i colossi dell’economia globalizzata, capaci di dettare agli Stati le loro regole e, comunque, di sottrarsi ai metodi d’imposizione e accertamento tradizionali.

Nondimeno, nell’ottica della delega attuale, l’istituto si propone come attuale non solo in quanto costituisce una naturale evoluzione dei modelli di standardizzazione preventiva dei redditi, già da tempo in uso nei confronti delle partite IVA, in un’ideale prospettiva di cooperative compliance ma, in vero, poiché rappresenta un’innovazione resa possibile dalla recente evoluzione tecnologica, dall’implementazione e crescente fiducia riposta nell’affidabilità dei flussi telematici, dall’accresciuta capacità di elaborare i dati con una rapidità e precisione ritenute sufficienti a renderne plausibile l’utilizzo anche a scopo predittivo. Il Cpb si pone, pertanto, nell’ottica dell’uso e interrelazione delle banche dati (art. 9, comma 2) e della crescente rilevanza che si assegna alle analisi del rischio fiscale. Analisi che assume un ruolo determinante in relazione a quest’istituto, considerato che gli indici sintetici di affidabilità fiscale, che ne costituiscono un rilevante riferimento, traggono autorevolezza da queste analisi, alle quali, tuttavia, sono “esortati” gli stessi contribuenti. Al punto che l’adozione di un adeguato sistema di controllo, monitoraggio ed autovalutazione del proprio rischio fiscale determina la possibilità di fruire dell’adempimento collaborativo di cui all’art. 7 D.Lgs. n. 128/2015, potenziato per effetto dell’art. 1, comma 1, lett. d), n. 2 del decreto attuativo della medesima Legge delega n. 111/2023.

Il nuovo concordato dà seguito, anche, al recupero di una “centralità propositiva” del Fisco che, in relazione ad altre categorie di contribuenti, ha già consentito razionalizzazioni e semplificazioni, come accaduto con la predisposizione delle dichiarazioni precompilate. Precompilate che, non a caso, a decorrere dal 2024, ex art. 19 dello schema di decreto attuativo (A.G., Atto governativo, oggetto del dossier del 27 novembre 2023) relativo proprio alla razionalizzazione e semplificazione degli adempimenti, saranno estese, in via sperimentale, anche alle persone fisiche titolari di redditi diversi da quelli di lavoro dipendente/pensione, compresi i titolari di partita IVA.

Nel caso del Cpb, tuttavia, la ridefinizione di ruoli e procedimenti, orientandosi verso forme di predeterminazione dei redditi per categorie omogenee, rischia di entrare in collisione, addirittura, con i princìpi cardinali del diritto tributario, elevando a sistema l’ineffettività della capacità contributiva. E questo anche perché l’accordo preventivo priva il contribuente delle “difese” faticosamente “conquistate” nel procedimento e, addirittura, della possibilità di difesa giurisdizionale, mirando ovviamente ad evitare l’uno e l’altro.

È altrettanto vero che non dovrebbero ammettersi imposizioni presuntive, specie se dotate di un crisma di assolutezza che, una volta prestata acquiescenza alla proposta stessa, solo eccezionalmente consente di farne cessare o prevede che ne decadano gli effetti.

Peraltro, come è già stato osservato (Deotto D. – Lovecchio L., Si anticipa il reddito e si dimentica la capacità contributiva, su Il Sole 24Ore, 7 novembre 2023), se il Fisco ha ormai in tempo utile i dati per rimediare alla propria inferiorità conoscitiva nei confronti della situazione economica dei contribuenti e, aggiungerei, se le occasioni di evasione di questi, compresi i titolari di partita IVA, sono già state ridotte da nuovi adempimenti obbligatori, quali la fatturazione elettronica, tanto che vi è dottrina che ritiene l’evasione fiscale sia ormai un fenomeno riguardante maggiormente la fase della riscossione, allora potrebbe non esservi affatto il bisogno di ricorrere a queste forme di definizione standardizzata anticipata. Sembra, in tal senso, destinata a maggior successo e persino più corretta l’evoluzione che, grazie alla stessa implementazione informatica, programma l’estensione delle dichiarazioni precompilate alle partite IVA, poiché elaborata su dati reali e già acquisiti. Appare, cioè, plausibile utilizzare i flussi dati informatici ritenuti affidabili per rimuovere dal sistema qualsivoglia forma di presunzione, piuttosto che assegnargli valore predittivo ed utilizzarli per “concordare” nuove presunzioni.

Fermo restando quanto ancora si osserverà in merito a quest’aspetto “concordatario”, la circostanza che al Cpb si acceda, comunque, su base volontaria, piuttosto che neutralizzare il rischio insito nella standardizzazione preventiva dei redditi, sembra destinare il Cpb al fallimento, poiché non appare molto allettante per i contribuenti cui è stato destinato.

2. In vero, i potenziali destinatari delle proposte non sarebbero certo pochi. Anzi in questo senso è il caso di notare che sebbene l’art. 6 dello schema di decreto attuativo riproduca la formulazione della delega, in ordine alla destinazione ai “soggetti di minori dimensioni”, dalle norme attuative a seguire, che al momento non prevedono alcuna delimitazione quantitativa rispetto al volume dei redditi/valore della produzione, si ricava che il Cpb potrebbe essere proposto a tutti i titolari di redditi d’impresa e lavoro autonomo, residenti, che applicano gli indici sintetici di affidabilità fiscale (come stabiliscono le norme del Capo II, artt. 10-22) oppure che aderiscano al regime forfetario (di cui al Capo III, artt. 23-33), questi ultimi purché non abbiano iniziato l’attività nel periodo precedente alla proposta.

In termini economici bruti non si può affermare, dunque, che si tratti solo di contribuenti di piccole dimensioni. Sono tenute all’applicazione degli ISA, infatti, le partite IVA che svolgano come attività prevalente un’attività per la quale sia stato approvato un ISA e realizzino un fatturato annuo che non superi i 5.164.569 euro, che non sono certo pochi (si tratta, peraltro, di ca. 2,16 milioni di contribuenti).

È vero, tuttavia, che tra questi, in atto, solo il 46% circa presentano l’alto indice di affidabilità richiesto, pari ad 8, e, presumibilmente, si tratta proprio dei contribuenti di “maggiori dimensioni”, avendo questi minore facilità ad evadere le imposte. Si consideri, inoltre, che i contribuenti altamente affidabili cui il concordato è destinato dichiarano, in media, redditi annui per 80.000 euro, laddove gli inaffidabili, in media, ne dichiarano circa 26.000 euro. Circostanza, questa, che rende improbabile il pur possibile adeguamento dei ricavi concesso ai contribuenti al fine di far aumentare il proprio indice di affidabilità e, di conseguenza, poter accedere al Cpb.

Per quanto attiene ai forfetari, in regime di flat tax, si tratta, certo, di contribuenti di minori dimensioni, trattandosi di soggetti che nell’anno precedente devono aver conseguito ricavi/compensi non superiori a 85.000 euro e, contemporaneamente, sostenuto spese per un importo complessivo non superiore a 20.000 euro lordi per lavoro accessorio, dipendente, compensi a collaboratori, comprese le somme erogate sotto forma di utili da partecipazione agli associati. A costoro, inoltre, non è richiesto un elevato indice di affidabilità, non essendo soggetti agli ISA, ma fruendo già di un regime impositivo con aliquota fissa al 15%, non pare probabile che possano ritenere l’adesione al Cpb particolarmente conveniente.

Ad ampliare il novero dei possibili soggetti interessati occorre, inoltre, considerare soci e associati, in quanto “indirettamente obbligati”, in caso di adesione al Cpb da parte di società di persone (semplici, Snc e Sas) o società di capitali in regime di trasparenza, in virtù del vincolo di cui all’art. 12, comma 1 del decreto attuativo in commento. Circostanza comprensibile ma problematica, determinando come conseguenza che soci e associati si vedranno iscrivere a ruolo gli importi dovuti in base al concordato stesso, previa semplice comunicazione.

Sembrerebbe, di conseguenza, che nell’attuazione il target effettivo non coincida perfettamente con quello prestabilito e, per di più, che malgrado un potenziale bacino di destinazione ampio, anche a causa delle altre disposizioni attuative cui sinteticamente si farà cenno, l’attrattiva del Cpb sia sensibilmente limitata. Come anticipato, sorge, dunque, il dubbio che il concordato preventivo possa rivelarsi all’atto pratico nuovamente un fallimento, ben lungi dal consentire all’Erario d’incassare i 760,5 o addirittura 780 milioni di euro ipotizzati, considerati gli evidenti rischi cui sottopone gli aderenti e i relativi vantaggi che, invece, l’adesione concederebbe loro.

3. Un primo problema pratico è quello della limitazione delle tempistiche e, nell’immediato, ha già provocato l’“insurrezione” degli intermediari ai quali il viceministro Leo, ha dovuto assicurare un intervento al riguardo.

La proposta, infatti, una volta resa disponibile, entro i cinque giorni antecedenti la scadenza del termine di versamento del saldo relativamente alle imposte sui redditi e IRAP (ex art. 9, comma 2 e, dunque, entro il 30 giugno, salvo, per il 2024, il posticipo al 30/31 luglio), prima della scadenza stessa deve essere accettata dai contribuenti. Questi ultimi, dunque, avranno solo cinque giorni per decidere.

I contribuenti, peraltro, dovranno anche decidere con molto anticipo, rispetto a quanto accaduto sinora, se adeguare ricavi e compensi, al fine di poter raggiungere il già menzionato alto indice di affidabilità richiesto per poter aderire alla proposta, in quanto dovranno farlo, ovviamente, prima dell’invio dei modelli ISA ed anche questa scadenza è stata giocoforza anticipata, andando, peraltro, a pesare su un calendario di scadenze fiscali già fitto. Trattandosi di parametri che andranno ad incidere sulla valutazione preventiva e probabilistica che l’Amministrazione finanziaria eseguirà sui redditi futuribili, però, questa “anticipazione” non è certo positiva in termini di attendibilità dei dati di partenza utilizzati per la formulazione della proposta di concordato.

4. Il breve termine concesso ai contribuenti per accettare la proposta ha, probabilmente, dissuaso il legislatore delegato dal dare attuazione alla delega, laddove prevedeva che «l’impegno ad accettare» del contribuente fosse preceduto da «un contraddittorio con modalità semplificate».

Il contraddittorio, pur semplificato, avrebbe manifestato la natura partecipativa dell’istituto, ed è di assoluto rilievo nella legittimazione di qualunque forma di standardizzazione del prelievo.

La circostanza che il concordato tragga fondamento “anche” da dati trasmessi dal contribuente stesso e la volontarietà dell’adesione paiono, in tal senso, insufficienti. La trasmissione dei dati dichiarati dal contribuente, peraltro solo parzialmente al fondamento della proposta, non dimostra alcuna significativa partecipazione alla sua elaborazione. La volontarietà dell’adesione non è di alcuna garanzia con riferimento a redditi e valore di produzione netta futuri, se non coordinata con “strategie d’uscita” altrettanto volontarie o, almeno, agevoli.

Tralasciando, solo per il momento, il punto relativo ai mezzi a disposizione del contribuente per porre fine al concordato che si riveli insostenibilmente oneroso rispetto ai redditi effettivi, argomento che merita separata considerazione, la mancata attuazione del contraddittorio semplificato sembra rispondere ad una ragione pratica, ma potrebbe rivelare anche l’esistenza di una motivazione giuridica.

In effetti, a parte l’esiguità del termine che, in pratica, non avrebbe consentito un contraddittorio efficace, si potrebbe ritenere che il legislatore delegato abbia considerato inopportuno il contraddittorio, perché avrebbe rischiato di tramutarsi in una contrattazione sulla determinazione dei tributi futuri, cioè sulla misura del prelievo nel biennio concordato.

In vero, se è necessario che il concordato in esame non sancisca in termini assoluti una forma d’imposizione presuntiva alla quale, una volta prestata acquiescenza, solo eccezionalmente sia consentito sottrarsi, come premesso e come ancora si osserva a seguire, pure occorreva assicurarsi che il Cpb non si traducesse in una sorta di dissimulato condono che, istituzionalizzando forme di evasione per quanto tradizionali non per questo tollerabili, le consolidasse in una sorta di rinuncia al gettito pattizia e preventiva.

Le consuete forme di contraddittorio, in vero, sono funzionali a concordare su un accertamento post dichiarativo o, comunque, successivo all’avverarsi del presupposto impositivo. Mirano a far emergere, grazie alla partecipazione del contribuente, dati reali rispetto a quelli accertati dal Fisco che, specie nei confronti delle partite IVA, spesso ricorre a presunzioni e standardizzazioni. Il contraddittorio in simili casi ha, cioè, lo scopo di superare le presunzioni in nome dell’effettività della capacità contributiva. Nel caso del Cpb, invece, si sarebbe potuto risolvere nella “pattuizione” di una presunzione.

In termini ancor più chiari, se persino la semplice e mera accettazione volontaria della proposta può essere e sarà, ovviamente, determinata da «calcoli di convenienza» potenzialmente «in contrasto con il principio di uguaglianza sostanziale e con quello di solidarietà, che non possono tollerare un onere impositivo a là carte» (come scrive e titola il suo editoriale Giovannini A., L’onere impositivo “a là carte” e il concordato biennale, su Riv. tel. dir. trib., 24 ottobre 2023), tanto più avrebbe potuto apparire inappropriata una contrattazione sul contenuto dell’accordo.

Nondimeno, concordare sul concordato, in termini più estesi di una mera acquiescenza, sarebbe stato, per lo meno, coerente con la denominazione stessa dell’istituto e, di certo, avrebbe giovato alla verifica di attendibilità ed alla condivisibilità della proposta elaborata dal Fisco e, di conseguenza, avrebbe potuto incentivare le adesioni, che, dunque, anche da questo punto di vista, non sembrano incoraggiate.

5. Tornando ai contribuenti cui si applicano gli ISA, l’art. 10, comma 2, lett. a), come rammentato, dispone che possano accedere al Cpb solo quelli che, con riferimento al periodo d’imposta precedente al biennio di eventuale concordato, abbiano ottenuto un punteggio di affidabilità pari ad almeno 8.

È comprensibile che il legislatore, prevedendo di utilizzare gli ISA tra gli elementi in base ai quali predisporre le proposte di concordato, abbia limitato l’accesso ai soli contribuenti virtuosi, cioè appunto altamente affidabili.

Questo approccio, tagliando fuori i contribuenti meno affidabili, dovrebbe attestare la natura e scopo non condonistico dell’istituto, ma aggrava il pericolo di “punire”, involontariamente, contribuenti, peraltro, già affidabili, nei confronti dei quali non dovrebbe ritenersi opportuno rischiare di “affibbiare” capacità contributive ineffettive e che, con ogni probabilità, non serviva neppure “allettare” con il “miraggio” di un nuovo, ma assai ipotetico, regime premiale. Circostanze che, ancora una volta, non sembrano incoraggiare l’adesione al Cpb.

Per certi versi, dunque, questa condizione potrebbe far dubitare delle potenzialità antievasive del Cpb. In effetti, salve le ipotesi di adeguamento volontario dei contribuenti per migliorare il punteggio ISA (ipotesi che, peraltro, possono benissimo non essere collegate ad alcuna evasione effettiva), l’adesione al Cpb potrebbe non far emergere redditi che fossero, altrimenti, a rischio di non essere dichiarati. Il concordato preventivo, pertanto, si rivelerebbe uno strumento efficace di contrasto all’evasione fiscale solo indirettamente, agevolando il Fisco, ove vi fossero numerose adesioni, a restringere il campo degli accertamenti sui contribuenti non aderenti o decaduti, come di fatti promette l’art. 34, comma 2.

Nondimeno, sul versante del contrasto all’evasione fiscale, il Cpb, ove riuscisse ad avere successo, sembra poter assumere una rilevanza ulteriore e meno indiretta.

Sia l’evasione pregressa, rispetto all’adesione al concordato, non necessariamente esclusa dall’elevato indice di affidabilità fiscale richiesto, che quella nel biennio di vigenza del concordato, dovrebbero, infatti, risultare decisamente scoraggiate.

L’art. 19, comma 1, infatti, riconoscendo agli aderenti l’irrilevanza – ai fini della determinazione di imposte sui redditi, IRAP e contributi previdenziali obbligatori – degli eventuali maggiori redditi effettivamente conseguiti rispetto a quelli previsti ed oggetto del concordato, dovrebbe, non scoraggiarne l’esposizione in dichiarazione. Se, poi, lo si interpreta sistematicamente, unitamente alla minaccia di decadenza di cui all’art. 22, comma 1, lett. a), la dichiarazione di tali importi ulteriori ed effettivi appare addirittura incentivata. L’art. 22, infatti, prevede quale prima causa di decadenza dal Cpb l’accertamento, nei periodi oggetto del concordato o nel precedente, dell’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza/indeducibilità di passività dichiarate in misura superiore al 30% dei ricavi dichiarati oppure di altre “violazioni di non lieve entità” che risultino commesse dal contribuente aderente. In altri termini, la regolare dichiarazione degli importi più elevati di reddito effettivamente realizzati non solo non rileverà sulla determinazione dell’ammontare del tributo da versare, ma eviterà anche il rischio d’incorrere nella decadenza dal Cpb ove tali importi non fossero dichiarati e, però, dovessero essere accertati. Se è vero, infatti, che il Fisco si impegna a non “perseguitare” i contribuenti che aderiscano al concordato, il legislatore, avvertendo l’esigenza di un difficile bilanciamento, non garantisce loro alcuna esenzione dagli accertamenti e, questa circostanza, conferisce all’istituto potenzialità antievasive, sebbene, per altro verso, sia certamente destinata a non incoraggiare l’adesione dei contribuenti.

Del resto, l’art. 13 prevede espressamente che i contribuenti aderenti siano, comunque, tenuti a adempiere ai propri obblighi contabili e dichiarativi nei periodi d’imposta oggetto del concordato (ed è necessario ritenere che intenda regolarmente).

In tal senso è bene precisare, altresì, che l’art. 25, comma 1 andrebbe interpretato nel senso che l’accettazione del Cpb obbliga il contribuente a versare gli importi discendenti da quanto concordato ed è, dunque, errata la trasposizione letterale di tale concetto, laddove nella disposizione si trova, invece, scritto che il contribuente è obbligato «a dichiarare gli importi concordati». Questo, peraltro, si evince dalla rubrica che titola “Effetti dell’accettazione della proposta” e dal comma 2 che riguarda, infatti, l’eventuale iscrizione a ruolo delle somme non versate e si coordina con quanto dispone l’art. 20 in relazione agli acconti, ovviamente anche questi determinati, in vigenza del concordato, «sulla base dei redditi e del valore della produzione netta concordati». Anche questo aspetto, cioè la circostanza che gli aderenti non siano sollevati da questi rilevanti obblighi accessori (compresa, come osservato, la compilazione e trasmissione dei modelli ISA, per i quali i termini sono anche abbreviati), potrebbe risultare poco incoraggiante per i contribuenti.

Occorre rilevare, inoltre, che i dati regolarmente dichiarati in vigenza del Cpb saranno, ovviamente, considerati al fine delle proposte di rinnovo del concordato medesimo per il biennio successivo e, dunque, in prospettiva, i maggiori redditi dichiarati ma non previsti dal concordato, sfuggiranno al prelievo solo nel biennio, ma saranno, successivamente, al fondamento della nuova proposta per il biennio avvenire. Aspetto, anche questo, che potrebbe non incontrare il gradimento dei contribuenti, ma che, riguardo agli aderenti, bilancerebbe il mancato gettito percepito nel biennio trascorso, manifestando, nuovamente, una forma di contrasto all’evasione fiscale.

Nonostante tali cautele, la strumentalizzazione dell’istituto, da parte di evasori particolarmente avveduti e privi di scrupoli, resta possibile, poiché, come osservato, il legislatore, per rendere appetibile il concordato, ha “impegnato” l’Agenzia delle Entrate, quanto meno, all’«impiego di maggiore capacità operativa per intensificare l’attività di controllo nei confronti dei soggetti che non aderiscono al concordato preventivo biennale o ne decadono» (art. 34, comma 2). Di conseguenza, se nei periodi antecedenti all’adesione vi fosse stata un’evasione abilmente occultata che continuasse ad esserlo anche durante il biennio concordato, potrebbe risultare più difficile da scoprire e, di conseguenza, venire in un certo senso istituzionalizzata, come anticipato.

Sembra, tuttavia, che nel concordato avrebbero potuto avere maggiore interesse contribuenti che, invece, il legislatore esclude in virtù dell’esigenza di evitare l’abuso dell’istituto. Contribuenti che, proprio per la situazione in cui si trovano avrebbero potuto essere maggiormente indotti a correre i rischi di una forfettizzazione preventiva ma che gli consentisse di rientrare nella legalità.

In questo senso, al di là dell’esclusione dei contribuenti con indice di affidabilità più basso, che è potenzialmente rimediabile sebbene improbabile come osservato, potrebbero essere rimodulate almeno alcune delle altre ipotesi di radicale esclusione.

In atto, per esempio, sono esclusi i contribuenti che abbiano violato l’obbligo di presentazione della dichiarazione dei redditi, in relazione ad almeno uno dei tre periodi d’imposta antecedenti al biennio in cui dovrebbe applicarsi il concordato, come previsto dall’art. 11, comma 1, lett. a).

L’esclusione è sancita anche per contribuenti che siano “solo” evasori da riscossione ed anche se in misura modesta. L’art. 10, comma 2, lett. b), infatti, esclude dal concordato sia i soggetti ad ISA che i forfetari (l’art. 24, comma 2, rinvia agli artt. 10 e 11) che abbiano debiti tributari con l’Erario o contributivi, peraltro, pari o superiori ad appena 5.000 euro, comprese sanzioni e interessi, seppure unicamente se accertati con atti impositivi definitivi oppure con sentenza “irrevocabile”. L’estromissione di questi contribuenti, però, non convince appieno considerata l’esiguità dell’ammontare del debito bastante a determinarla, non necessariamente dimostrativa di una rilevante inaffidabilità del contribuente, e che non sembra sufficientemente neutralizzata dalla, prevista e doverosa, clausola di salvaguardia, relativamente ai debiti oggetto di provvedimenti sospensivi o di rateazione (di cui alla stessa lett. b dell’art. 10, comma 2).

6. Il problema probabilmente di maggior rilievo del nuovo Cpb, anche riguardo alla legittimità della standardizzazione preventiva dei redditi su cui si basa, sembra essere che la normativa non garantisce a sufficienza, ai contribuenti che aderiscano, la possibilità di sottrarsi all’obbligo di versare le imposte sui redditi e l’IRAP in funzione degli importi proposti (ex art. 12), anche nel caso in cui i redditi/valore della produzione netta risultassero, in concreto ed alla prova dei fatti, inferiori a quelli preventivati. In altri termini, una volta aderito al Cpb quest’ultimo, per il biennio (salvo un rinnovo che comunque è volontario), è vincolante e non derogabile.

Per esimersi dal relativo obbligo di versamento al contribuente aderente, infatti, non resta che sperare che le circostanze, in forza delle quali si sono registrati minori redditi/valori della produzione rispetto a quelli previsti, rientrino tra quelle “eccezionali” che dovranno essere stabilite, per decreto, dal MEF. Anche se questo accadesse, peraltro, il Cpb cesserebbe di avere effetto, dal periodo d’imposta in cui tale differenza si verifica, solo se lo scostamento sfavorevole al contribuente eccedesse la misura del 60% rispetto al concordato (art. 19, comma 2).

Di conseguenza, la cessazione dell’accordo, in caso di scostamento dei valori effettivi rispetto al concordato, rivelatosi alla prova dei fatti sfavorevole al contribuente, costituisce, letteralmente, una circostanza eccezionale, che impedisce di dismettere l’accordo in caso di scostamenti fisiologici, pur sempre possibili, rispetto agli standard di settore preventivati.

Non consola né risolve il problema la circostanza che anche la decadenza dal concordato, in caso di scostamento dai valori in sfavore del Fisco, appare costituire una congiuntura, per molti versi, eccezionale. La decadenza, infatti, non si produce a fronte del semplice scostamento in vantaggio del contribuente, neppure se questo supera la soglia del 30% prevista. Si richiede, invero, che le attività non siano state dichiarate e le passività dichiarate siano inesistenti o indeducibili. In altri termini, si richiede che sussistano infedeltà dichiarative e, inoltre, che queste siano state accertate dall’Amministrazione finanziaria. Orbene, poiché i controlli ex art. 39 D.P.R. n. 600/1973 non possono essere svolti nei confronti degli aderenti al Cpb, l’accertamento su costoro, consentito onde rilevare non si verifichino le cause di decadenza previste dagli artt. 22 e 33 (che rinvia all’art. 22 in relazione ai contribuenti forfetari), ai sensi dell’art. 34, comma 2, dovrebbe intervenire solo raramente e, dunque, eccezionalmente, come rammentato.

Se, per certi versi questa eccezionalità è positiva e potrebbe incoraggiare i contribuenti all’adesione, per altri, invece, conferma che il problema della carenza di efficaci strategie d’uscita rispetto al concordato preventivo non riguarda solo i contribuenti ma coinvolge persino il Fisco.

È vero, tuttavia, che non vi è perfetta simmetria tra la posizione dell’Amministrazione finanziaria e quella dei contribuenti. Per questi ultimi è il MEF, con decreto, a stabilire ed elencare i casi eccezionali al ricorrere dei quali è possibile la cessazione degli effetti del Cpb; riguardo all’Amministrazione finanziaria, invece, l’eccezionalità dei controlli e, dunque, dell’accertamento, resta una scelta programmatica interna all’Amministrazione stessa.

Tale sbilanciamento in favore del Fisco si rivela, ictu oculi, laddove per far decadere l’accordo, in caso di scostamenti rispetto al preventivato e concordato, in favore dell’Amministrazione finanziaria si richiede una percentuale di scarto pari alla metà esatta di quella che serve al contribuente per ottenerne la cessazione ove la differenza fosse, invece, a proprio svantaggio.

Si osserva, nondimeno, che mentre per il contribuente la cessazione per scostamento dovrebbe discendere da circostanze oggettive non imputabili al Fisco, per l’Amministrazione finanziaria presuppone una dichiarazione infedele da parte del contribuente, circostanza che potrebbe, in qualche misura, giustificare le due divergenti percentuali. Se non fosse che, ove si volesse giustificare il differente trattamento in funzione della “imputabilità” al contribuente del vizio dichiarativo, non appare corretto che la decadenza stessa operi automaticamente in seguito al solo accertamento, prescindendo dall’eventuale contestazione dello stesso da parte del contribuente e, dunque, dall’esito della potenziale impugnazione per annullamento dell’atto accertativo.

In considerazione di quanto sin qui rilevato occorre affrontare, in estrema sintesi, anche l’ipotesi di decadenza di cui all’art. 22, comma 1, lett. b).

Questa norma considera come ipotesi decadenziale quella in cui i contribuenti presentino dichiarazioni integrative o modificative che determinino «una quantificazione diversa dei redditi o della produzione netta rispetto a quelli in base ai quali è avvenuta l’accettazione della proposta di concordato». Anche questa disposizione non appare concedere al contribuente una valida strategia d’uscita dal Cpb, poiché l’unica esegesi sistematica plausibile non sembra consentirne un utilizzo funzionale alla dismissione del concordato.

Essendo collocata nel corpo di una norma rubricata “decadenza del concordato”, che enumera una serie di ipotesi non certo volte a tutelare quanto piuttosto a “sanzionare” i contribuenti, dovrebbe, infatti, interpretarsi restrittivamente. Malgrado il rinvio che essa opera sia del tutto neutro, cioè indifferentemente riferibile a variazioni dei dati dichiarativi in aumento o in diminuzione, e, dunque, in astratto consentirebbe di considerare suscettibili di determinare la decadenza sia le modifiche/integrazioni della dichiarazione in bonam partem che quelle in malam partem, pare, in vero, che solo queste ultime possano determinarla.

Alla luce del principio di cui all’art. 53 Cost., a mio avviso, avrebbe avuto senso, al contrario, dar rilievo anche alle variazioni favorevoli al contribuente, rispettando il principio della tassazione in relazione all’effettività della capacità contributiva manifestata dal soggetto. Non a caso l’entità dei redditi cui si fa riferimento ai fini della formulazione della proposta di concordato emerge dalla dichiarazione del periodo d’imposta antecedente all’adesione e, quindi, anche una variazione in diminuzione rispetto a quanto dichiarato dovrebbe determinare la decadenza dal Cpb.

Occorre, infatti, ritenere altresì che il riferimento, in vero non chiarissimo, alla quantificazione diversa rispetto a redditi/valore in base ai quali è avvenuta l’accettazione della proposta di concordato, limiti l’effetto decadenziale alle ipotesi in cui modifica o integrazione si riferiscano alla dichiarazione antecedente al Cpb e dalla quale questo prende le mosse e non si riferiscano, invece, anche a quelle presentate nel biennio oggetto di concordato, cui pure si è osservato il contribuente è obbligato. Questo perché una volta precisato che, ai sensi dell’art. 19, comma 1, in vigenza del Cpb, «gli eventuali maggiori o minori redditi effettivi /valori della produzione netta, rispetto a quelli oggetto del concordato, non rilevano ai fini della determinazione delle imposte sui redditi e IRAP nonché dei contributi previdenziali obbligatori», sarebbe incoerente che tali variazioni assumessero, invece, valore decadenziale se fossero oggetto di una dichiarazione integrativa o modificativa, fosse pure in malam partem per il contribuente.

Laddove, se si trattasse di modifiche/integrazioni in bonam partem, cioè favorevoli al contribuente, la decadenza contrasterebbe anche con il dettato dell’art. 19, comma 2, traducendosi, come osservato, in una via di fuga per i contribuenti apprezzabile, ma ulteriore e non limitata, né in termini quantitativi né dalla condizione di eccezionalità della causa, rispetto a quella prevista e concessa loro dalla norma sulla cessazione degli effetti del Cpb.

Riguardo alle ipotesi di decadenza del Cpb, peraltro, sarà interessante osservarne le conseguenze in termini di effetti sugli obblighi di versamento. S’immagina che le imposte eventualmente già versate in base al concordato preventivo dovranno essere, comunque, scomputate da quanto dovuto in seguito alla rideterminazione del debito d’imposta riferito alla capacità contributiva effettiva. Nel caso, improbabile, in cui, anche nelle ipotesi d’integrazione a favore del contribuente, la decadenza si ritenesse o rendesse possibile (con opportuna modifica normativa) si porrebbe, invece, il problema di riconoscere il diritto al rimborso rispetto a quanto versato in eccesso per effetto dell’adesione al concordato decaduto.

7. Nel concludere queste brevi e assai parziali riflessioni su una riforma che, tutto sommato, dovrà essere posta alla prova prima che si possano esprimere giudizi più meditati, gli spunti esaminati paiono potersi riassumere in un novero di vantaggi assai relativi per i contribuenti cui l’istituto si rivolge.

Sfruttare il concordato per godere di redditi o di un valore della produzione netta più alti, dichiarati e tuttavia resi irrilevanti ai fini della determinazione delle imposte oggetto del Cpb in conseguenza dell’adesione allo stesso, costituisce “la carota” che il Fisco agita davanti a contribuenti che, tuttavia, richiede si qualifichino già come altamente affidabili. E, dunque, a fronte di preventivi giudicati assolutamente attendibili non sembra un’evenienza molto probabile e, come rilevato, porterebbe vantaggi, giocoforza, solo di breve termine. Circostanza che dovrebbe garantire al Fisco che del Cpb non si abusi, ma che sembra neutralizzare quasi del tutto anche la più rilevante e specifica tra le potenzialità “premiali” fruibili dai contribuenti aderenti.

L’ulteriore “promessa” di esimere gli aderenti al Cpb dai controlli, di cui all’art. 34, è anch’essa depotenziata, poiché, in via prudenziale, la stessa disposizione salva l’attività istruttoria funzionale ad accertare le cause di decadenza di cui all’art. 22 e, dunque, prevede espressamente gli accertamenti, sia in relazione ai periodi d’imposta oggetto del concordato che a quelli precedenti. Implicando, come rilevato, la continuità di tutti gli obblighi dichiarativi e contabili anche in vigenza del concordato.

Altri vantaggi, cui fa riferimento l’art. 19 al comma 3, sono già riconosciuti ai contribuenti con elevato indice di affidabilità fiscale, alla cui disciplina si fa espresso riferimento, e, dunque, sono potenzialmente fruibili anche a prescindere dall’adesione al concordato preventivo biennale.

La difficoltà, specie per i contribuenti, di far cessare l’effetto dell’accordo, una volta aderito e se i redditi effettivi non fossero allineati ai valori oggetto del Cpb, sui quali, in vigenza dell’accordo, si devono effettuare i versamenti, sembra eccessiva, specie se valutata a fronte di una standardizzazione preventiva del reddito che non considera l’effettività del presupposto impositivo ed alla determinazione della quale i contribuenti non partecipano, se non in modo assolutamente indiretto e che non possono adeguatamente contestare.

Infine, sul fronte dell’amministrazione digitale, occorrerà valutare come e su quali dati lavoreranno gli algoritmi in base ai quali saranno formulate le proposte dell’Amministrazione finanziaria. Si tratta di elementi di assoluta rilevanza non ancora noti, poiché la metodologia sarà predisposta con decreto del MEF, «tenuto conto degli andamenti economici dei mercati». Ovviamente, per i soggetti ISA il reddito proposto sarà calcolato in base ai dati dichiarati nei modelli ISA stessi oltre che sulle informazioni raccolte o acquisite dalle diverse banche dati della pubblica amministrazione. Per i forfettari, che non sono tenuti alla compilazione degli ISA, l’algoritmo trarrà fondamento dal fatturato, poiché dal 2024 anche i forfetari hanno l’obbligo di fattura elettronica. Resta da vedere, invece, se saranno utilizzate anche altre “informazioni digitali” cui si ricorre ormai per i controlli, come quelle ricavate dal web, monitorando i siti di e-commerce o anche i social. Pure resta a vedersi come verrà garantita la protezione dei dati, prevista dall’art. 9. Dati i cui criteri di trattamento ed elaborazione dovrebbero, per converso, esser trasparenti, in modo tale che sia possibile verificare la correttezza dei processi informatici e degli algoritmi utilizzati al fine di elaborare le proposte stesse, almeno al fine di accettarle o non accettarle con maggiore consapevolezza, considerato che non sarà possibile discuterle.

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