LA FARMACIA DEI SANI – SPECIAL EDITION RIFORMA FISCALE – La decisione semplificata nella riforma fiscale: panacea o virus letale? – parte prima
Di Alberto Marcheselli
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Abstract
L’intervento espone alcune riflessinoi critiche sulla nuova decisione semplificata nel processo tributario.
Some critical notes on the tax reform about the so called “simplified decision”
Sommario: 1. La decisione semplificata. – 2. Non è semplificata la decisione, ma è semplificata la motivazione: la differenza rispetto al vincolo del giudicato o il valore del precedente. – 3. La semplicità della decisione. – 4. La motivazione semplificata: tecniche operative, tra copia e incolla e “intelligenza” artificiale.
1. Come strenna delle Feste, ecco una serie speciale della Farmacia dei Sani dedicata alla Riforma Fiscale.
Essa contiene alcune cose molto buone, specie del decreto attuativo della riforma dello Statuto del Contribuente, e alcune cose meno buone.
Come una Befana Maligna, mi occuperò solo delle cose cattive.
Scherzi, a parte, delle cose migliorabili o su cui occorre un approfondimento, sperando di portare un contributo alla riflessione.
Vista la complessità e importanza del tema, verosimilmente finirà per risultare una consegna di … carbone al malaugurato lettore.
Uno degli interventi più interessanti, perché tocca temi assolutamente cardinali quali l’oggetto delle decisioni, la motivazione, il giudicato e i diritti delle parti è la innovativa sentenza semplificata.
Essa è particolarmente interessante perché è uno strumento sperimentale che credo, sia destinato a diffondersi.
La riforma, infatti, all’evidente scopo di accelerare la definizione dei giudizi – pur in assenza di indicazioni su una particolare lentezza dei giudizi tributari, che, per vero, appaiono invece celeri – prevede un ulteriore istituto, la decisione in forma semplificata.
Ciò introducendo, innanzitutto, all’art. 47 ter d. lgs. 546/1992, un comma 1 con la possibilità di decisione di merito semplificata e accelerata in sede di decisione della istanza cautelare.
Escluso, infatti, il caso di pronuncia su reclamo (su cui si dovrà tornare), è previsto che, in sede di decisione della domanda cautelare, trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, si possa direttamente definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata, salvo che una delle parti dichiari di voler proporre motivi aggiunti ovvero regolamento di giurisdizione. Ove ne ricorrano i presupposti, il collegio dispone l’integrazione del contraddittorio o il rinvio per consentire la proposizione di motivi aggiunti ovvero del regolamento di giurisdizione, fissando contestualmente la data per il prosieguo della trattazione.
Qualora il giudice intenda procedere in tal senso, dalla dizione della disposizione pare emergere che gli unici limiti e regole da rispettare siano: a) la non applicabilità nelle decisioni di reclamo; b) siano decorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione; c) la non necessità di istruttoria; d) l’integrità del contraddittorio (e quindi la regolarità delle notifiche e la insussistenza di contraddittori necessari pretermessi); e) che le parti costituite siano sentite; f) che non intendano presentare motivi aggiunti o regolamento di giurisdizione, o in tal caso, che sia disposto un rinvio per consentirlo; g) che il ricorso sia manifestamente fondato, infondato, inammissibile o improcedibile.
La decisione avviene in camera di consiglio. Non è esplicitamente chiarito se la decisione debba avvenire in camera di consiglio con la presenza delle parti, come nella ordinaria sospensione, come parrebbe naturale. Attira l’attenzione in proposito la parte della disposizione che prevede che siano “sentite sul punto le parti costituite”. La interpretazione più plausibile è che il giudice debba preannunciare l’intenzione, nella udienza cautelare, di procedere alla decisione semplificata. A rigore, tuttavia, ci si aspetterebbe che egli senta le parti “comparse in udienza”. Alla lettera parrebbe dovuto sentire anche la parte costituita e non comparsa.[1] L’alternativa, in logica astratta, sarebbe che il riferimento alla camera di consiglio sia da intendersi a una camera di consiglio ex art. 33 (senza presenza delle parti), il che spiegherebbe perché si sia precisato che debbono essere sentite le parti costituite, ma aprirebbe un vulnus inaccettabile rispetto alle parti non costituite che potrebbero subire una decisione semplificata senza esserne informati (considerato anche che la decisione semplificata potrebbe avvenire anche 21 giorni dopo la notifica del ricorso, a parti non ancora costituite). Sotto altro profilo, si aprirebbe poi il problema di come sentire le parti fuori udienza… consentendo il deposito di una memoria?
2. Rispettate tali condizioni, si può procedere con motivazione semplificata, che può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, a un precedente conforme.
Per comprendere il senso della disciplina è opportuno distinguere, innanzitutto, nettamente tre profili, due giuridici e uno fattuale, onde evitare di dare alla disciplina una portata impropria.
Il primo profilo, a monte, è quanto sia ampia l’area delle questioni che il giudice può e deve decidere autonomamente (l’area della decisione).
Il secondo profilo, a valle, è quanto e come si debba giustificare la decisione (la motivazione).
Il terzo profilo, di fatto, è quanto sia difficile la decisione (la complessità della decisione) e, quindi, quanto sia semplice decidere, a monte, e, a valle, motivare.
La prima cosa da avere ben presente è che la disciplina in commento non prescrive nulla quanto all’area della decisione. È ben vero che c’è il riferimento al precedente giurisprudenziale, ma non perché se ne voglia stabilire un effetto vincolante, tale da sollevare il giudice dal dovere di decidere. Tale effetto vincolante, infatti, consegue soltanto al giudicato, le cui regole non sono oggetto dell’intervento normativo.[2]
Né tale regola ha come fine, propriamente, un comando giuridico volto a semplificare la decisione.[3] Anche qui è vero che c’è il riferimento, che potrebbe trarre in inganno, al precedente giurisprudenziale, ma non perché questo renda più semplice decidere, in assoluto. Sicuramente un effetto di tal genere vi può essere, ma in generale e non per effetto di questa disposizione, quanto al giudizio di diritto, alla interpretazione delle norme.[4]
Tale effetto giuridico, invece, non vi è, né vi può essere, quanto alla decisione sul fatto: un precedente giudizio su un fatto, anche simile o identico, non può vincolare, né giuridicamente, né epistemologicamente.[5]
Ne risulta confermato quanto già emerge dalla chiara lettura della disposizione: la disposizione, in generale, e il riferimento al precedente giurisprudenziale, in particolare, concerne solo la semplificazione della tecnica motivazionale.
3. Si tratta allora di stabilire quali ne siano i casi e i modi.
Quanto ai casi, sono quelli di manifesta fondatezza o infondatezza, o inammissibilità o improcedibilità del ricorso. Essi sussistono quando la soluzione corretta è evidente ed elementare, perché riposa su circostanze pacifiche tra le parti o, se controverse, di prova e scioglimento comunque evidente. Si tratta di una situazione di fatto da valutare caso per caso: immaginificamente essa sussiste quando, messi gli argomenti contrapposti nei due piatti della bilancia, essa pende immediatamente e velocemente da un lato.
In proposito può segnalarsi come, assai opportunamente, la possibilità di decisione semplificata sia prevista in direzione bilaterale, cioè concerna sia il possibile rigetto (o inammissibilità o improcedibilità), sia il possibile accoglimento del ricorso. Ciò evita il pericolo che la possibilità di una scorciatoia motivazionale unilaterale, che solleva il giudice dal pesante onere di motivare, produca un inconscio, ma pernicioso bias verso la soluzione, unilaterale, che consente al giudice di motivare meno. Pericolo che, invece, esiste nel rito semplificato di cassazione: ove la proposta del relatore (che conduce alla possibilità di omettere la onerosa motivazione nel caso di mancata insistenza del ricorrente) è prevista, dall’art. 380 bis c.p.c., solo per i casi di esito infausto del ricorso, che si trovano, quindi, ad essere la decisione più comoda.
4. Quanto ai modi, la disciplina prevede che la motivazione possa ridursi al richiamo a un precedente giurisprudenziale o un sintetico riferimento al punto decisivo.
Sembra pertanto possibile, in buona sostanza, l’utilizzazione di una motivazione per relationem (agli atti di parte o a un altro provvedimento, anche di altro processo). Soprattutto la possibilità di motivare richiamando un altro provvedimento appare una parziale novità, se la si intende, come pare possibile, come richiamo anche alla decisione in fatto.[6]
Anche in questo caso. la motivazione deve rispettare le condizioni necessarie in generale per una valida motivazione perrelationem.
Quindi:
a) la motivazione deve indicare la fonte esterna, cioè constare in un riferimento che consenta di individuare gli enunciati a fondamento della decisione, ancorché esterni al provvedimento;
b) la fonte esterna deve essere conosciuta o agevolmente conoscibile;
c) la motivazione deve far risultare che la fonte esterna è stata autonomamente valutata (altrimenti non sarebbe una motivazione con rinvio ma una omessa decisione o una decisione acritica o automatica, che è consentita solo nel caso di giudicato) e
d) la motivazione deve far risultare le ragioni i motivi richiamati sono convincenti.
Quanto al primo profilo, l’indicazione della fonte, pare sufficiente il riferimento “topografico” al luogo (atto processuale o precedente) richiamato.
Il secondo profilo, la conoscibilità della fonte, è più delicato, perché, se non si tratta di un atto del processo, può sorgere l’interrogativo se sia sufficiente che il provvedimento richiamato possa essere recuperato in una banca dati (cosa che si è sempre ritenuta per i precedenti in diritto, ma che, diffondendosi tale tecnica motivazionale eventualmente anche alla decisione sul punto di fatto, dovrebbe dubitarsi).
Il terzo profilo, la dimostrazione di autonoma valutazione della fonte, potrebbe essere soddisfatto da un “riassunto” anche estremamente conciso dell’argomento (riassumere presuppone la autonoma comprensione del testo di riferimento. Pare invece decisamente controindicata la tecnica, pur comoda e diffusissima, del “copia e incolla”, per il semplice fatto che copiare con messi informatici non dimostra affatto di aver compreso ciò che si richiama.[7]
Quanto al quarto profilo, le ragioni della ritenuta plausibilità delle ragioni richiamate, il problema dovrebbe essere meno complesso che non nella generalità delle motivazioni per relationem, atteso che qui si tratta della motivazione semplice per casi semplici. Quindi, per definizione, si deve trattare di casi in cui il fondamento della decisione è elementare e manifesto, cioè rilevabile immediatamente, ictu oculi: si tratta di casi in cui la correttezza della decisione, essendo autoevidente, non necessità di una diffusa argomentazione.
[1] È interessante rilevare che la decisione in forma semplificata potrebbe avvenire anche molto presto, basta che siano decorsi venti giorni dall’ultima notifica del ricorso, quando la costituzione potrebbe non essere avvenuta, il che ha di fatto un effetto acceleratorio sulla costituzione in giudizio, una volta ricevuto l’avviso della udienza cautelare (ammesso che esso sia dovuto, come si vedrà oltre).
[2] Il giudicato, in effetti, solleva il giudice dall’obbligo – e dalla facoltà, visto che lo vincola – di decidere autonomamente. Esso, tuttavia, concerne, di regola, solo le parti e il fatto oggetto della decisione. Quindi, sempre di regola, esso non può concernere altri fatti, anche se identici, e neppure lo stesso fatto, se rispetto ad altre parti. Questa ultima affermazione soffre la eccezione dei soggetti che, pur non coinvolti nel precedente giudizio, subentrino nella posizione giuridica, a titolo universale (erede) o particolare (avente causa), ai sensi dell’art. 2909 c.c. Eccezione comprensibile e giustificata, perché il diritto di azione in giudizio dell’avente causa non è leso dal giudicato cui non ha partecipato, per la evidente ragione che egli acquista il diritto (a titolo universale o particolare) nelle condizioni in cui è (eventualmente per effetto di giudicato a carico del dante causa). Il rilievo della pregnanza del diritto di azione in giudizio, spettante a ciascun soggetto, corollario della sua libertà (C. Cost. 22 maro 1971, n. 55), serve a sottolineare che non sembra esservi spazio, al di fuori di tali situazioni (derivate) per altri casi in cui un giudicato su un fatto possa estendere i suoi effetti anche a soggetti diversi e non coinvolti nel precedente processo. Ciò comporta che va stigmatizzata la tendenza della giurisprudenza a costruire ipotesi, nebulose e sistematicamente discutibili per le ragioni appena dette, di situazioni giuridiche dipendenti, nelle quali un soggetto estraneo al giudizio e non titolare in via derivativa della posizione giuridica controversa, sarebbe pregiudicato dal diritto altrui (Cass. 25 febbraio 2019, n. 5411; Cass. 28 agosto 2018, n. 21240). La non sostenibilità sistematica di tali impostazioni, oltre che dalle ragioni di principio appena esposte è, del resto, confermata da indici normativi, quali la disciplina delle obbligazioni solidali (dove vi è un unico fatto generatore comune a più soggetti), dove il giudicato non si comunica agli estranei al giudizio, salvo che sia favorevole, ma ciò per effetto di una disposizione espressa e speciale (art. 1306 c.c.), evidentemente necessaria per derogare alla regola per cui il giudicato riguarda solo le parti o successori e aventi causa.
[3] Ciò che viene semplificato è, come si è già sottolineato e si ribadirà, è solo la motivazione delle decisioni semplici.
[4] Il fatto che una questione di interpretazione sia stata già decisa molte volte, o, a maggior ragione, dalla Suprema Corte, semplifica l’opera dell’interprete, che anzi, nel caso di precedente nomofilattico, ha anche un blando vincolo ad attenervisi, ancorché possa, essendo soggetto ex art. 101 Cost. soltanto alla legge, opinare diversamente.
[5] L’unica funzione simile è quella nomofilattica che, riservata alla sola Corte di Cassazione, concerne le norme e non i fatti: che dieci persone siano state condannate fondandosi sulle impronte digitali lasciate sulla loro scena del delitto non rende certo più plausibile – né tantomeno vincola – la condanna della undicesima, quanto al suo delitto e alle sue impronte digitali. Il diritto non è una scienza sperimentale e i giudizi sulle prove non sono esperimenti in senso proprio, la cui reiterazione e misurazione oggettiva dei risultati li rafforza. I giudizi in base a prove sono, al contrario, interpretazioni di fatti in cui manca il riscontro obiettivo e obiettivamente misurabile. Sono, insomma, risultati ritenuti plausibili ma privi di riscontro obiettivo. Una cosa è lanciare dieci volte un grave e misurare l’accelerazione in caduta (fatto obiettivo rilevabile e misurabile), un’altra, completamente opposta, domandarsi in dieci processi per omicidio se l’imputato abbia ucciso in base alle prove disponibili: il risultato dell’”esperimento giudiziale” è, all’inverso, ciò che si vuol provare e si cerca, non è il punto di partenza obiettivo e obiettivamente rilevato per desumerne una legge fisica, neppure quando si valuti lo stesso tipo di prova. L’unico effetto è mentale/argomentativo: il fatto che un ragionamento simile sia già stato fatto da altri lo rende più agevole psicologicamente, lo rende più suggestivo e argomentabile sul piano retorico, e rende assai più comodo spiegarlo, rinviando al precedente, ma non lo rende più solido, né tantomeno vincolante. Percorrere una strada già illuminata da altri è più facile, ma non aggiunge nulla al fatto che quella strada sia quella giusta per arrivare alla verità.
[6] Se la norma consentisse il solo richiamo di precedenti sulla interpretazione della legge, non si tratterebbe, invece, di novità significativa.
[7] Quanto espresso nel testa viene però messo in grave crisi per effetto della possibile utilizzazione della c.d. intelligenza artificiale, che può efficacemente simulare l’opera di riassunto, da parte del giudice umano, e quindi nascondere una decisione acritica.
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