La proporzionalità della sanzione tributaria in una recente sentenza penale. Amnesie applicative circa il principio di specialità e spunti interpretativi nelle more della prossima riforma tributaria

Di Marco Di Siena -

(commento a/notes to Corte di Cassazione, sent. 10 luglio 2023, n. 37312)

Abstract

Nella sentenza in commento la Suprema Corte affronta il concorso applicativo della sanzione amministrativa e di quella penale stabilendo che nell’ipotesi in cui entrambe siano destinate a trovare applicazione è necessario che la seconda tenga conto degli effetti della prima così da evitare una reazione sproporzionata. Una pronunzia interessante su di una vicenda che avrebbe (forse) dovuto comportare l’applicazione dell’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 ma che pone al centro della riflessione la congruità della punizione a fronte degli illeciti tributari. Un tema sempre più oggetto di analisi da parte degli studiosi e su cui si attende un intervento significativo in occasione dell’attuazione della L. n. 111/2023.

The proportionality of the tax penalty in a recent criminal decision. Application amnesias about the principle of specialty and interpretative insights waiting the next tax reform. – In the analysed decision, the Supreme Court makes reference to the simultaneous application of the administrative and criminal penalties, establishing that when both must be applied, it is necessary that the latter takes into account the effects of the former in order to avoid a disproportionate reaction. It is an interesting decision on a case that should (perhaps) have involved the application of Article 21 of Legislative Decree 74/2000 but which identifies as the focus of the analysis the topic of the proportionality of the reaction against the fiscal violations. A topic that is increasingly being analysed by scholars and on which significant action is expected in the context of implementation of L. 111/2023.

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. L’unicità del fenomeno repressivo tributario. – 3. Le incerte prospettive applicative del cosiddetto doppio binario e dell’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000. – 4. La proporzionalità sanzionatoria: una idea chiave nel contesto della riforma tributaria. – 5. Divagazioni sul principio di proporzionalità. – 6. La proporzionalità alla prova dei fatti. – 7. Talune conclusioni (non troppo) pensose.

1. Ad una prima analisi, la sentenza in commento presenta tratti di apparente lateralità rispetto alla materia tipicamente tributaria. Non solo, infatti, si è in presenza di una pronunzia di una delle Sezioni penali della Suprema Corte ma soprattutto si tratta di una decisione che – pur affrontando con estrema acribia i singoli motivi di censura – si diffonde tuttavia in uno sviluppo che può apparire di natura casistica e squisitamente tecnico-penale. Una tale conclusione, tuttavia, rischia di risultare superficiale. Un esame meno trasversale dell’iter argomentativo della sentenza, infatti, lascia emergere chiaramente più direttrici di analisi che possono e debbono suscitare l’attenzione di chi si interessa specificamente della materia tributaria; e ciò anche nella prospettiva delle modifiche che dovrebbero essere a breve introdotte in ambito punitivo nel contesto dell’imminente attuazione della legge delega per la riforma del sistema fiscale (L. n. 111/2023). Se si approfondisce la lettura, infatti, due temi – su tutti – acquisiscono concretezza nell’iter argomentativo elaborato dalla Corte di legittimità: le implicazioni concrete della duplice punizione – da un lato – e – dall’altro lato – la tematica della proporzionalità del trattamento punitivo complessivo laddove il medesimo soggetto risulti destinatario tanto di una sanzione penale quanto di una penalità di carattere amministrativo.

2. Nella pronunzia qui esaminata, infatti, questi due profili (o – se si preferisce – queste due nuances del cosiddetto principio del ne bis in idem) affiorano in modo caratterizzante, sebbene in maniera meno nitida dal punto di vista formale rispetto a quanto avvenuto in altre occasioni nella giurisprudenza di legittimità; e ciò (ragionevolmente) a causa della tecnica redazionale dell’impugnazione che ha imposto una replica parcellizzata ai singoli motivi di censura da parte dei supremi giudici. La fattispecie concreta era, in realtà, abbastanza semplice. Un imprenditore individuale veniva condannato (inter alia) per il delitto di omessa dichiarazione disciplinato dall’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 a cui tuttavia faceva da pendant anche una analoga (e cronologicamente anteriore) vicenda sanzionatoria amministrativa. Ed è proprio la correlazione specifica fra i due apparati punitivi, pertanto, che rappresenta – per quanto d’interesse – il nucleo sostanziale della sentenza. Una pronunzia in cui – prima di tutto – viene ravvisata (dalla Suprema Corte) una carente valutazione da parte del giudice di merito della stretta connessione temporale e sostanziale fra il procedimento sanzionatorio penale e quello amministrativo (e quindi una insufficiente dimostrazione dell’assenza di violazioni del principio del ne bis in idem come elaborato dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale; su tale evoluzione – e pluribus e solo a titolo esemplificativo – cfr. Melis G. – Golisano M., Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nell’ambito del sistema tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 3, 579 ss.; del pari cfr. Calzolari A., La lunga marcia per il riconoscimento del ne bis in idem nell’ordinamento tributario italiano, in Riv. tel. dir. trib., 2020, 2, VI, 743 ss.; Alfano R. – Traversa E., L’impatto del diritto europeo sull’applicazione del divieto di bis in idem in materia tributaria, in Dir. prat. trib. int., 2021, 1, 10 ss.). Ma v’è un secondo importante aspetto che pure traspare in controluce nella pronunzia e si va imponendo nella giurisprudenza lato sensu sanzionatoria tributaria: quello della proporzionalità del trattamento punitivo nel suo complesso. Un criterio che presuppone di considerare tanto le implicazioni più propriamente penalistiche quanto quelle amministrative laddove le stesse convergano sul medesimo soggetto giuridico ma, al tempo stesso, non sia ravvisabile un vulnus del menzionato criterio del ne bis in idem e, quindi, l’applicazione dell’una sanzione non escluda l’altra. In proposito la conclusione cui perviene la Corte di legittimità è sintetica ma netta laddove nella sentenza in rassegna si afferma che «[…] quando tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale per cui le sanzioni siano parte di un unico sistema, non sussiste la violazione del ne bis in idem a condizione che in tal caso sia comunque garantito un meccanismo compensativo che consenta di tenere conto in sede di irrogazione della seconda sanzione degli effetti della prima onde evitare che la sanzione irrogata sia sproporzionata». In breve, quindi, la sentenza correla in modo esplicito la proporzionalità del trattamento punitivo complessivo al principio del ne bis in idem facendone una sorta di corollario, un vero e proprio posterius logico-giuridico. La concorrenza della sanzione penale e di quella amministrativa è infatti considerata concettualmente ammissibile (purché sussista una stretta connessione temporale e sostanziale fra i due procedimenti punitivi secondo i criteri tracciati dalla giurisprudenza in tema di ne bis in idem) ma in ogni caso essa non deve comportare un trattamento sanzionatorio complessivo de-correlato dalla (e sproporzionato rispetto alla) gravità della condotta illecita. Ciò che si impone anche nella trama argomentativa della sentenza in commento perciò (sebbene nel prisma – per così dire – del principio del ne bis in idem) è il tema della proporzionalità della sanzione tributaria (penale ed amministrativa) nel reciproco coordinamento fra i due apparati punitivi. E questo tema – id est la proporzionalità del trattamento punitivo intesa principalmente come derivata del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. – costituisce uno dei punti di attenzione anche di quello che dovrebbe essere il rinnovato sistema sanzionatorio destinato a trovare il proprio assetto in occasione della prossima attuazione dei principi direttivi contenuti nella L. n. 111/2023 (il riferimento è al pur vacuo criterio citato dall’art. 20, comma 1, lett. c), n. 1 del menzionato provvedimento legislativo a cui fa esplicito riferimento Cordeiro Guerra R., Adeguamento delle sanzioni punitive al principio di proporzionalità e coperture finanziarie: un evidente corto circuito giuridico, in Riv. tel. dir. trib., 28 ottobre 2023). Di qui, perciò, l’opportunità di qualche brevissima riflessione sulle implicazioni concrete della proporzionalità che altrimenti rischia di restare relegato alle affermazioni di mero principio (in generale, sulla proporzionalità della sanzione tributaria – ex multis – cfr. Montanari F., La dimensione multilivello delle sanzioni tributarie e le diverse declinazioni del principio di offensività-proporzione, in Riv. dir. trib., 2017, 4, I, 482 ss.; più di recente cfr. Bucicco C., L’applicazione del principio di proporzionalità alle sanzioni tributarie, in Dir. prat. trib. int., 2020, 3, 933; Salvati A., Lineamenti definitori del principio di proporzionalità delle sanzioni, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, VI, 284 ss.; per una analisi puntuale del criterio della proporzionalità nel contesto squisitamente penale, cfr. Viganò F., La proporzionalità della pena. Profili di diritto penale e costituzionale, Torino, 2021).

3. Prima di entrare in medias res, tuttavia, va osservato che la vicenda presenta tratti peculiari che, forse, avrebbero dovuto/potuto imporre uno sviluppo differente alla fattispecie concreta (dei tratti su cui la sentenza presenta – ad onore del vero – opachi lacerti di descrizione fattuale che non aiutano la comprensione complessiva del contesto). Dalla trama dell’iter argomentativo elaborato dalla Suprema Corte, infatti, emerge come nei confronti dell’imprenditore individuale sia stata dapprima irrogata la sanzione amministrativa e poi lo stesso sia stato assoggettato al processo penale (per il delitto di omessa dichiarazione) di cui la sentenza qui analizzata rappresenta in qualche maniera la conclusione. È ragionevole ritenere, pertanto, che l’attività ispettiva che a suo tempo ha dato luogo ai due percorsi punitivi sia stata la medesima o comunque – come avviene di norma – vi sia stata una matrice (anche cronologica) sostanzialmente comune. Il che – visto che l’oggetto delle presenti riflessioni è la proporzionalità del trattamento punitivo complessivo – lascia emergere qualche perplessità su come il caso concreto si sia andato evolvendo ed induce ad ipotizzare che (forse) la proporzionalità avrebbe potuto già essere garantita (per così dire) rebus sic stantibus (vale a dire ove si fosse fatta coerente applicazione della vigente disciplina). Sebbene sia considerato un istituto assai imperfetto (e pluribus cfr. Caraccioli I. – Falsitta G., Il principio di non cumulabilità fra sanzioni penali e sanzioni tributarie e la sua aberrante mutilazione col decreto delegato n. 74/2000, in il fisco, 2000, 31, 9747 ss.; più di recente, cfr. Marello E., Evanescenza del principio di specialità e dissoluzione del doppio binario: le ragioni per una riforma del sistema punitivo penale tributario, in Riv. dir. trib., 2013, 12, III, 269 ss.), infatti, il regime della specialità tracciato dal combinato disposto degli artt. 19 e 21 del vigente D.Lgs. n. 74/2000 avrebbe già dovuto offrire una forma di mitigazione (pur difettosa in astratto ma forse efficace nel caso di specie) alla ruvida duplicazione sanzionatoria oggetto di quelle censure del contribuente che sono state accolte dalla Suprema Corte con la sentenza in esame. Senza diffondersi in maniera eccessiva, infatti, è palese come l’illecito amministrativo di omessa dichiarazione disciplinato dall’art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997 e l’analogo delitto di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 si collochino in rapporto di specialità; una relazione in cui – secondo l’orientamento dei più (in tal senso, ad esempio, cfr. Musco E. – Ardito F., Diritto penale tributario, Bologna, 2021, 409) – il delitto tributario risulta speciale rispetto all’illecito amministrativo (e, sia detto per incidens, risulta abbastanza sorprendente quella pronunzia di legittimità – cfr. Cass., sez. III, sent. 20 gennaio 2022 n. 2245 – secondo cui il contiguo delitto di dichiarazione infedele disciplinato dall’art. 4 D.Lgs. n. 74/2000 avrebbe ad oggetto un fatto materiale diverso da quello oggetto dall’illecito amministrativo regolato dall’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 471/1997). Proprio tale specialità quindi – constatato che il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria e l’autore del reato coincidevano (trattandosi di una vicenda concernente un imprenditore individuale) – avrebbe dovuto porre capo all’applicazione del richiamato art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 secondo cui – in caso di contestuale pendenza del procedimento penale – la sanzione amministrativa viene sì irrogata ma al tempo stesso non è eseguibile, fatto salvo il caso in cui venga disposta un’archiviazione o sia pronunziata una sentenza irrevocabile di assoluzione o di proscioglimento con formula che escluda la rilevanza penale del fatto. In breve, se nella fattispecie concreta il meccanismo fissato dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 avesse trovato applicazione, la (assai congrua) sanzione amministrativa pecuniaria irrogata – nelle more del processo penale – non avrebbe dovuto essere eseguita nei confronti dell’imprenditore individuale e, tenuto conto dell’esito del processo medesimo, sarebbe rimasta meramente teorica senza alcuna effettiva duplicazione punitiva. In tale prospettiva, quindi, il coordinamento sanzionatorio avrebbe già dovuto trovare una propria soluzione ispirata a proporzionalità con conseguente ineseguibilità della sanzione amministrativa ed applicazione della sola pena di natura criminale. Il fatto che – al contrario – nella vicenda oggetto della sentenza, l’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 risulti del tutto disintermediato e la Corte di legittimità abbia dovuto affrontare una concreta duplicazione punitiva rappresenta in qualche modo il lato oscuro della pronunzia (recte della fattispecie concreta). La Suprema Corte, infatti, si è trovata a giudicare di una situazione in cui dell’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 non v’è alcuna traccia e questo – in qualche modo – l’ha costretta ad intervenire (meritoriamente) sul trattamento punitivo complessivo ancorando le proprie considerazioni in tema di proporzionalità al principio del ne bis in idem.

 

4. E sono proprio queste considerazioni su cui occorre brevemente riflettere. Per quello che si dirà, infatti, le specifiche conclusioni tracciate dalla Suprema Corte non presentano più i tratti della assoluta novità ma concorrono a tracciare un fil rouge che è ragionevolmente destinato ad essere sviluppato anche in sede di attuazione dei criteri delineati dalla L. n. 111/2023 (come auspicato da Cordeiro Guerra R., Sanzioni tributarie draconiane e principio di proporzionalità, in Corr. trib., 2023, 8/9, 754). Quello che traspare dalla trama argomentativa elaborata dalla Suprema Corte nella sentenza qui commentata infatti – se non costituisce l’epicedio di quel principio di rigida autonomia procedimentale e processuale che si è soliti designare con l’espressione doppio binario (su tale istituto, senza volontà di completezza, ex multis, cfr. Di Siena M., Rapporti tra processo tributario e procedimento penale, in Il Libro dell’anno del diritto, Treccani, 2016, 447 ss.) – senza meno rappresenta il prodromo di una significativa rimeditazione di tale principio; e ciò anche alla luce di una evidente esigenza di riconsiderare l’intensità complessiva della reazione ordinamentale a fronte degli illeciti fiscali (un milieu – quello tributario – che costituisce un settore elettivo di quel diritto penale totale analizzato da Sgubbi F., Diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa, Bologna, 2019 e comunque è da sempre oggetto di interventi legislativi umorali ed asistematici come posto in luce da Di Siena M., La Corte Costituzionale e la criminalizzazione dell’omesso versamento di ritenute, in Giur. cost., 2022, 5, 2363). Gli elementi qualificanti del ragionamento condotto dalla Suprema Corte, infatti, sono così riassumibili: i) è inequivoco che (al di là della qualificazione formale delle stesse) le sanzioni penali e quelle amministrative di natura tributaria costituiscano, se non un sistema unitario tout court, quanto meno un complesso di previsioni suscettibile di essere ricondotto ad unità in termini di finalità di prevenzione (generale e speciale) e di retribuzione; ii) la reazione dell’ordinamento a fronte della condotta trasgressiva in materia fiscale, pertanto, non può essere strutturalmente duplicativa (salvo incorrere in una violazione del divieto di ne bis in idem) e – anche quando vi sia spazio interpretativo per una duplice sanzione in base alla giurisprudenza unionale e della CEDU (sostanzialmente recepita a livello nazionale) – è necessario evitare risposte parcellizzate e connotate da totale autonomia così da escludere una vera e propria over-reaction punitiva; iii) il criterio interpretativo che deve guidare l’eventuale trattamento sanzionatorio complessivo è la proporzionalità sicché, in caso di irrogazione di una duplice penalità, la seconda che dovesse essere irrogata deve tenere conto in via compensativa dell’entità e degli effetti della prima. Ciò che viene in rilievo nella riflessione della Corte di legittimità, pertanto, è l’affermazione dell’esigenza di garantire proporzionalità della risposta punitiva nel suo complesso e – (quasi) quale corollario applicativo – la necessità di assicurare un coordinamento de facto dei due ambiti sanzionatori (o meglio degli esiti dei due contesti intesi come un unicum afflittivo).

5. La proporzionalità (sulle cui generali implicazioni in ambito sanzionatorio amministrativo tributario si rinvia alle considerazioni di Cordeiro Guerra R., Il principio di proporzionalità, in Giovannini A., diretto da, Trattato di diritto sanzionatorio tributario, Tomo 2, Milano, 2016, 1454) rappresenta dunque il fulcro attorno a cui ruota la più recente riflessione giurisprudenziale in materia fiscale (anche di quella di matrice penale) ed è a tale criterio, pertanto, che si intendono dedicare le riflessioni conclusive di questo breve intervento. Ma – per non incorrere in improvvide semplificazioni – è prima di tutto doveroso rispondere a due quesiti di natura preliminare, vale a dire: i) quale sia in realtà il contenuto del principio di proporzionalità; e ii) perché lo stesso stia assumendo un rilievo così significativo nella più recente elaborazione ermeneutica. Circa il contenuto della specifica nozione si può affermare che la proporzionalità si risolve nell’esigenza di un nesso relazionale fra l’offensività della condotta sanzionata e l’entità della reazione apprestata dall’ordinamento. Più chiaramente, proporzionalità è sinonimo di congruità tra la reazione punitiva e la gravità della condotta illecita intesa come lesione (attuale o potenziale) del bene giuridico tutelato dalla disposizione violata; una relazione che, a livello costituzionale, discende direttamente dal principio di eguaglianza fissato dall’art. 3 che va valorizzato in combinato disposto con le singole previsioni della carta fondamentale che tutelano i diritti sui quali la sanzione irrogata viene in concreto ad incidere. Circa il secondo quesito – vale a dire l’individuazione del perché della incrementale attenzione dedicata (tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza) al tema della proporzionalità in ambito sanzionatorio fiscale – è opportuna senza meno una riflessione diacronica. L’attuale enfasi su tale argomento, infatti, può essere vista come una sorta di reazione. Una reazione a quella che è legittimo definire come una vera e propria costituency dell’apparato sanzionatorio tributario nel suo complesso; l’assetto punitivo fiscale, infatti, risulta contraddistinto (da tempo) da una congenita iper-afflittività tanto a livello sostanziale quanto procedurale (basti rammentare il carattere poliennale della resistenza del principio di cosiddetta ultrattività delle disposizioni sanzionatorie tributarie già sancito dall’art. 20 L. 7 gennaio 1929, n. 4 ed oggetto di abrogazione soltanto alla fine del secolo scorso nel più generale contesto della riforma della disciplina dell’illecito amministrativo tributario di cui al D.Lgs. n. 472/1997 a cui fece seguito poi l’intervento di riforma in materia penale). Una impostazione iper-retributiva che concerne tanto il coté di natura criminale (per riflessioni critiche sulla filosofia sottesa all’ultimo intervento legislativo di un certo spessore in ambito penale tributario si rinvia a Di Siena M., Il recente intervento in materia penale tributaria. Davvero tutto ciò che è reale è razionale? In Riv. tel. dir. trib., 2020, 1, VII, 285 ss.) quanto quello amministrativo e che è stata temperata solo marginalmente (rispetto ad un passato ancora più aggressivo) dalle ormai non recentissime modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 158/2015 (come osservato da Melis G., Le sanzioni amministrative tributarie nella legge delega: questioni aperte e possibili soluzioni, in Rass. trib., 2023, 3, 502 ss.). In breve, il milieu impositivo (ed invero neanche la legislazione pre-repubblicana era esente da tale atteggiamento) è da sempre il contesto in cui l’ordinamento italiano mostra il proprio volto (per così dire) bellicista (non è casuale che l’espressione lotta rappresenti un vero e proprio topos del lessico impiegato dalla comunicazione politica allorquando si affronta l’argomento degli illeciti fiscali); è cioè il comparto in cui la sanzione è considerata inevitabilmente come il principale strumento per condurre le (sempre evocate) battaglie contro il fenomeno evasivo, alla ricerca di un (sovente compiaciuto) effetto di deterrenza che, all’atto pratico, tuttavia stenta a concretizzarsi e lascia spazio ad un’endemica sottrazione di risorse al prelievo fiscale. Ed è proprio perché si assiste da tempo ad una vera e propria escalation del livello di afflittività del sistema sanzionatorio tributario nel suo complesso (rispetto al quale, come evidenziato, le innovazioni introdotte a suo tempo dal D.Lgs. n. 158/2015 si sono dimostrate ben poca cosa) che la riflessione sulla proporzionalità ha ormai assunto una dimensione centrale nella riflessione interpretativa degli studiosi e della giurisprudenza più accorta (per una riflessione sulla deriva dell’apparato penale tributario nelle interazioni con la comunicazione politica e la sensibilità dell’opinione pubblica cfr. Ingrassia A., L’intrepido e il parassita. Oggettivismo e soggettivismo nella recente evoluzione del diritto penale tributario, in Mannozzi G. – Perini C. – Scoletta M.M. – Sotis C. – Taverriti S.B., a cura di, Studi in onore di Enrico Paliero, Milano, 2022).

6. Detto ciò, è chiaro come, sotto molti profili, il caso oggetto della sentenza in rassegna costituisca un esempio paradigmatico della dimensione del problema posto dalla proporzionalità del trattamento punitivo degli illeciti tributari. È sufficiente ripercorrere i fatti. In ragione della ipotizzata (dai giudici di secondo grado) compatibilità fra la sanzione amministrativa e quella penale secondo i principi in tema di ne bis in idem, il contribuente si è trovato ad essere (dapprima) destinatario di una sanzione amministrativa pecuniaria di oltre 1,8 milioni di euro) e (poi) ad essere condannato dalla Corte d’Appello ad otto mesi di reclusione. Il tutto sostanzialmente in relazione al medesimo fatto storico (senza che – come detto abbastanza inspiegabilmente – abbia trovato applicazione il correttivo naturale rappresentato dall’art. 21 D.Lgs. n. 74/2000) nonché in presenza di una correlazione, sostanziale ed anche cronologica, fra i due procedimenti giudicata così serrata da non integrare una lesione del menzionato principio del ne bis in idem. La sproporzione punitiva risultava, perciò, così evidente che la reazione della Suprema Corte adottata nella pronunzia in commento rappresenta, per così dire, un gesto di buon senso. I supremi giudici, infatti, hanno individuato (inter alia) nella carenza di proporzionalità un vulnus della decisione di appello invitando quindi la Corte del rinvio a dosare meglio la (seconda) sanzione detentiva di natura criminale (essendo la prima, quella pecuniaria di matrice amministrativa, ormai intangibile). E ciò nel presupposto che entrambe le sanzioni, quella formalmente amministrativa e quella penale, fossero nel caso di specie le componenti di un unico spazio punitivo, destinate come tali ad interagire al fine di assicurare un trattamento afflittivo complessivamente congruo rispetto all’offensività della condotta tenuta dall’autore dell’illecito ed al grado di intensità della lesione recata dallo stesso agli interessi erariali. Il che è senz’altro una soluzione – se si vuole assai pragmatica – che va salutata con soddisfazione ma che – pur dando conto di una sensibilità anche giurisprudenziale ormai molto elevata circa la tematica della congruità del complessivo trattamento punitivo a fronte dell’illecito fiscale – non risolve il problema, anzi – sotto taluni profili – lo opacizza. Infatti, l’invito (che è il fulcro della decisione in parte qua della Suprema Corte) a garantire «[…] un meccanismo compensativo che consenta di tenere conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima onde evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata» non dice poi molto in concreto. Si tratta di un tentativo quasi ortopedico di correggere un sistema che, in realtà, è patologicamente orientato sin dalla sua genesi; e lo è (patologicamente orientato) perché legittima (a determinate condizioni) una duplicità sanzionatoria che, ad onore del vero, appare sprovvista di una propria ragionevolezza (il che richiama la giurisprudenza costituzionale in tema di art. 3 Cost.). A bene considerare la soluzione adottata dalla Corte di Cassazione nella decisione in commento – in termini di spirito – non è distante da quella patrocinata dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 46/2023 (su cui si rinvia alle pertinenti considerazioni critiche di Coppa D., I principi di proporzionalità e di offensività nell’interpretazione [poco] costituzionalmente orientata della Consulta, in Rass. trib., 2023, 3, 614 ss.). In tale occasione, infatti, i giudici delle leggi hanno fatto ricorso (metaforicamente) ad una soluzione quasi di compromesso; l’assetto punitivo che veniva in rilievo nel caso di specie (palesemente dis-proporzionale alla luce della evidente inoffensività della condotta del contribuente rispetto agli interessi patrimoniali dell’Erario) è stato comunque considerato esente da vulnerazioni costituzionali; e ciò in ragione dell’individuazione dell’istituto del dimezzamento della sanzione amministrativa previsto dall’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997 quale potenziale elemento di mitigazione della carenza di proporzionalità delle sanzioni edittali (un suggerimento – quello adottato dalla Consulta – che in qualche modo fa da pendant al meccanismo compensativo menzionato dalla Suprema Corte nella sentenza in rassegna). Anche nella soluzione prescelta dalla Corte costituzionale, quindi, tutto si risolve in un problema di misura della sanzione irrogata in concreto e di congruità della stessa rispetto alla gravità dell’illecito. Il che – si potrebbe dire – è esattamente l’essenza del richiamato principio di proporzionalità che impone una siffatta relazione fra i due poli di questa specie di binomio concettuale (la gravità della condotta illecita in correlazione con l’intensità della reazione punitiva nel complesso). V’è un però, tuttavia, in entrambe le sentenze (pur nella evidente disomogeneità dei percorsi argomentativi tracciate dalle stesse); ed è un però che le accomuna e finisce per identificare una sorta di fil rouge che ispira anche le presenti riflessioni. Non v’è dubbio che in entrambi i casi la proporzionalità rappresenti senza meno la causa prima della soluzione individuata dalle due Corti; in entrambe le situazioni, infatti, il problema che si è posto è l’esigenza di individuare una mitigazione all’iper-afflittività della reazione dell’ordinamento. Ma in entrambe le fattispecie la soluzione individuata appare affidata (e almeno per la sentenza in commento difficilmente avrebbe potuto accadere altrimenti a meno di dare corso all’applicazione del menzionato art. 21 D.Lgs. n. 74/2000 che rappresenta invece il non detto della sentenza qui analizzata) alle contingenze ed alla sensibilità in primis dell’Amministrazione finanziaria e poi dei giudici (la prima chiamata a fare applicazione spontanea della propria discrezionalità punitiva ed i secondi destinati a correggere, se del caso, un erroneo esercizio di tale discrezionalità). Una siffatta (per così dire) esternazionalizzazione metanormativa dell’applicazione del principio di proporzionalità previa allocazione dello stesso in una sede di natura squisitamente applicativa, tuttavia, costituisce di per sé una soluzione ipo-efficiente; e ciò senza volere affatto negare i profili positivi rappresentati dalla recente incrementata sensibilità giurisprudenziale per la congruità della sanzione tributaria nel suo complesso. Si tratta di un minus che emerge con chiarezza se solo si considera come in tal modo la dosimetria della reazione dell’ordinamento rispetto all’illecito fiscale finisca per essere attribuita in larga parte alla sfera di responsabilità dell’Amministrazione finanziaria (oltre che all’operato del giudice penale). E l’esperienza dimostra che rispetto ad un esercizio ampio di una siffatta discrezionalità, la parte pubblica del rapporto impositivo si è sempre dimostrata non particolarmente a suo agio, preferendo attuare percorsi punitivi caratterizzati da un sostanziale automatismo (avvertito come una cautela idonea a garantire una sfera di incensurabilità al proprio agire decisionale). Se v’è, infatti, una porzione del D.Lgs. n. 472/1997 che risulta poco praticata in fase di irrogazione della sanzione è proprio quella relativa ai criteri di determinazione della penalità; e quando accade in concreto che venga fatto ricorso a tali criteri, ciò avviene di norma per aggravare il trattamento punitivo piuttosto che per smussarne l’afflittività. Del resto, la stessa carsicità nella prassi applicativa di ogni valutazione in tema di elemento psicologico della violazione tributaria (con conseguente sostanziale elisione implicita degli artt. 5 e 6 D.Lgs. n. 472/1997) sta a testimoniare – nella ormai più che venticinquennale operatività della nuova disciplina dell’illecito amministrativo tributario – una indubbia difficoltà nell’attribuire effettivo corpo ad una discrezionalità punitiva che ha sempre stentato a trovare un proprio spazio. Ciò sta a significare, quindi, che il suggerimento implicito della Consulta (contenuto nella richiamata sentenza n. 46/2023) a fare impiego dell’istituto delineato dall’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997 per ricondurre ad equità la sanzione a fronte di condotte in concreto inoffensive (per gli interessi patrimoniali erariali) resta quello che è: vale a dire, un argomento senz’altro utile per escludere una declaratoria di illegittimità della disposizione impugnata ma che, al tempo stesso, lascia intatto il problema concreto posto dalla tradizionale ritrosia all’impiego di tale norma in occasione dell’irrogazione della penalità (una ritrosia, peraltro, ampiamente in linea con il passato tenuto conto della scarsissima applicazione che nel vigore della disciplina sanzionatoria tracciata dalla L. n. 4/1929 si faceva delle cosiddette circostanze attenuanti previste dal D.M. 1 settembre 1931 poi abrogato – come noto – dall’art. 29 D.Lgs. n. 472/1997). E – se è consentita l’espressione – ugualmente tattico (ancorché apprezzabile e di fatto necessitato dato il contesto processuale) appare il suggerimento formulato dalla Suprema Corte nella sentenza in rassegna: un invito indirizzato alla Corte del rinvio a rivedere la seconda sanzione (nel caso di specie quella di natura criminale) per compensare la indubbia afflittività della prima (id est quella di ordine amministrativo) già irrogata. Un’indicazione senza meno apprezzabile (perché riconosce la sostanziale unitarietà dell’apparato punitivo tributario la quale ha conquistato viepiù spazi anche nell’ordinamento nazionale alla luce della giurisprudenza CEDU circa l’irrilevanza della qualificazione formale della sanzione) ma che lascia il principio confinato alla giustizia del caso concreto; vale a dire attribuisce al singolo giudice penale (che nella fattispecie concreta interviene quale secondo attore sulla scena punitiva dopo l’Agenzia delle Entrate) il compito di dosare in concreto la pena alla luce della sanzione amministrativa già irrogata.

7. Tutto ciò sta a significare che in tal modo la congruità del complessivo trattamento sanzionatorio finisce per divenire un quid affidato integralmente ad una logica applicativa da post factum; un principio da declinare in concreto secondo una metrica di natura subiettiva ed attuando correttivi sulla cui frequenza applicativa le statistiche non sono generose e che, all’atto pratico, si dimostrano spesso connotati da una certa farraginosità. Si traccia così un sistema ortopedico che tuttavia non risolve il problema di fondo del sistema sanzionatorio tributario nel suo complesso; un sistema che tanto nella componente amministrativa quanto in quella penale (almeno in materia di imposte dirette ed IVA ma considerazioni non molto differenti possono essere formulate anche in tema di accise o di tributi doganali) è contraddistinto da penalità edittali oggettivamente disproporzionali rispetto alla natura patrimoniale dell’offesa. Delle penalità le quali, ove applicate in maniera congiunta come ammesso (a talune condizioni) dai canoni della giurisprudenza in materia di ne bis in idem, finiscono comunque per essere difficilmente riducibili ad equità in sede applicativa (tenuto altresì conto delle menzionate vischiosità e soggettività dei correttivi esperibili). Tutto ciò per dire cosa in conclusione? Per significare che indicazioni come quella formulate dalla sentenza in rassegna sono senz’altro condivisibili e rappresentano una sicura evoluzione concettuale rispetto ad un non lontanissimo passato (basti pensare alla circostanza che il cumulo giuridico ha trovato il proprio riconoscimento in ambito sanzionatorio amministrativo solo in occasione dell’emanazione del D.Lgs. n. 472/1997). Esse testimoniano, infatti, l’esistenza di una crescente sensibilità generale (anche a livello giurisprudenziale) per il fenomeno della congruità della reazione apprestata dall’ordinamento a fronte dell’illecito fiscale e ciò nel presupposto (tutt’altro che scontato almeno nell’interpretazione più datata) che le due tipologie di sanzioni (quella penale e quella amministrativa) non siano indifferenti l’una all’altra. Con la conseguenza che: i) per un verso, il principio del doppio binario non equivale necessariamente a doppia sanzione; ii) per altro verso, è necessario che i due comparti punitivi siano opportunamente coordinati anche in termini di quantum di afflizione. Questa consapevolezza di ordine generale sulla sopravvenuta importanza sistematica della proporzionalità, tuttavia, incontra nell’attuale contesto un limite intrinseco che è il dato normativo. Imporre l’applicazione in concreto della proporzionalità, infatti, non esclude (anzi sostanzialmente presuppone) che – almeno rebus sic stantibus – il sistema sanzionatorio tributario sia strutturalmente dis-proporzionale. Un assetto che risulta connotato da sanzioni edittali troppo elevate le quali, da un lato, non incrementano la compliance e, dall’altro lato, costringono il legislatore ad adottare in modo ciclico iniziative di indulgenza che riconducono il sistema (in modo improprio e patologico) ad una certa sostenibilità finanziaria di natura (quasi) spannometrica ma che al tempo stesso sviliscono la credibilità dell’apparato punitivo. Ciò che emerge, pertanto, è l’esigenza di ricondurre l’apparato sanzionatorio a proporzionalità – prima di tutto – da un punto di vista normativo. Una minore retribuzione edittale è senza meno in grado di ingenerare maggiore prevenzione (tanto generale quanto speciale) evitando (o quanto meno rendendo meno giustificabile) il poco commendevole stop and go sanzionatorio rappresentato dai ripetuti provvedimenti di clemenza a cui il legislatore nazionale ci ha abituato nel corso della storia repubblicana. L’attuazione dei criteri direttivi contenuti nella L. n. 111/2023 può (e deve) rappresentare l’occasione per un cambio di passo in tal senso. Ridurre il tutto ad una revisione omeopatica del trattamento punitivo di singole fattispecie sanzionatorie (come avvenuto, ad esempio, in occasione dell’emanazione del D.Lgs. n. 158/2015 che lungi dall’essere un intervento di tax design si è rivelato meno di un intervento di manutenzione ordinaria) significherebbe non cogliere i segnali di malessere e di criticità che caratterizzano il vigente sistema ed impongono azioni decise e non compromessi al ribasso (sulle palesi difficoltà a cui fa fronte il presente sistema si rinvia al complesso di suggestioni formulate, assai di recente, da Giovannini A., Evasione, equità e consenso fra Antigone e Creonte, in Rass. trib., 2023, 3, 464 ss.). Il tempo è compiuto. E’ ora di agire.

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