L’Agenzia delle Dogane deve provare gli elementi alla base della diversa classificazione doganale delle merci
Di Diego Zucal
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(commento a/notes to Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia, sez. IX, n. 487/2023)
Abstract
A seguito della recente riforma del processo tributario (L. n. 130/2022) si è acceso un ampio dibattito sulla perdurante applicabilità, in campo fiscale, dell’art. 2697 c.c. Gli esiti di tale discussione sono destinati a esplicare i propri effetti anche nel settore del contenzioso doganale relativo alla classificazione delle merci. La pronuncia della Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia, sez. IX, n. 487/2023, si inserisce in tale contesto, dando all’interprete l’occasione di approfondire il rapporto fra le regole doganali concernenti la classificazione dei prodotti e la neo-introdotta disposizione sul riparto dell’onere della prova.
The Customs office must provide the evidence for the reclassification of the goods. – Following the recent reform of the tax process (Law No. 130/2022), a debate has been raised on the applicability of Article 2697 of the Civil Code to tax dispute. The outcome of this debate will produce its effects also in the field of customs litigation concerning the classification of goods. A recent decision issued by the Lombardy fiscal Judge (n. 487/2023), gives the opportunity to examine the relationship between the rules regarding the classification of goods and the new procedural provision on the allocation of evidence.
Sommario: 1. Il caso – 2. L’accertamento doganale e la nozione di classificazione delle merci. – 3. Cenni sulla procedura di classificazione delle merci. – 4. L’onere della prova nel processo tributario. – 5. Considerazioni conclusive.
1. Nella sentenza in commento la Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia, sez. IX 9, n. 487/2023, ha stabilito che grava sull’Amministrazione doganale l’onere di provare le caratteristiche oggettive del bene riclassificato.
La vicenda sottoposta all’attenzione del Collegio concerne l’importazione di pannelli classificati, dal dichiarante, alla voce doganale 8531 2020 (“Pannelli indicatori che incorporano dispositivi a cristalli liquidi …”), con applicazione di dazio zero. In sede di controllo, tuttavia, l’Agenzia delle Dogane, sulla base di una diversa prospettazione circa il possibile “utilizzo” pratico del bene sdoganato, ha riclassificato lo stesso alla voce 8529 9092, con applicazione di dazio pari al 5%.
Ne è sorto un contenzioso dove il contribuente, fra i motivi di impugnazione, ha eccepito il difetto di prova dell’Ufficio, risultando l’atto impugnato privo di elementi oggettivi idonei a suffragare la pretesa dell’Agenzia delle Dogane.
Il ricorso è stato accolto. La Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia ha affermato, in particolare, che l’ente impositore nella fattispecie, non avrebbe, dimostrato le “proprietà oggettive” del bene sulla cui base operare la diversa classificazione doganale.
Si tratta di motivazione che consente di approfondire il tema della prova nel settore delle rettifiche doganali riconnesse alla classificazione della merce, anche alla luce del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 (inserito dalla L. n. 130/2022), il quale ha introdotto nel processo tributario una regola probatoria ad hoc, prima assente. La citata disposizione, nello specifico, prevede che «L’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni […]» [sottolineatura nostra].
La disposizione de qua impone al giudice di annullare l’atto impositivo laddove le ragioni oggettive della pretesa non siano suffragate da elementi di prova circostanziati e puntuali. Per essere tali, come recita il testo di legge, le ragioni oggettive devono essere coerenti con le disposizioni tributarie sostanziali di riferimento.
Siffatta regola processuale vale, naturalmente, anche in campo doganale. Appare quindi opportuno, ai fini che qui rilevano, ossia per una più accurata comprensione della decisione in commento, soffermarsi brevemente sulle principali regole doganali di classificazione dei prodotti. Sarà più agevole, poi, verificare in che modo la decisione della Corte di Giustizia si intersechi, a livello teorico, con la nuova regola sul riparto della prova in ambito processual-tributario.
2. Il movimento delle merci in entrata e in uscita dal territorio doganale unionale determina, come noto, l’instaurazione di un rapporto tra l’Autorità amministrativa e il detentore della merce. Caratteristica di tale rapporto è l’assoggettamento del detentore al potere di vigilanza e di controllo che l’Autorità doganale può esercitare «per assicurare l’osservanza delle disposizioni stabilite dalle leggi in materia doganale e dalle altre leggi la cui applicazione è demandata alle dogane» (artt. 19 e 20 D.P.R. n. 43/1973, c.d. TULD). L’esercizio di siffatti poteri si svolge mediante un’attività procedimentalizzata definita “accertamento doganale” i cui elementi costitutivi sono rappresentanti dalla quantità, qualità, origine e valore dei prodotti dichiarati in bolletta (art. 8, comma 3, D.Lgs. n. 374/1990). Tali elementi (quantità, qualità, origine, valore) sono accomunati dal dato della classificazione doganale, la cui funzione consiste nell’individuare i singoli prodotti mediante l’utilizzo di un linguaggio doganale comune (per considerazioni sistematiche cfr. Bellante P., Il sistema doganale, Torino, 2020, 523 ss.; si veda anche Marella F. – Marotta P. a cura di, Codice doganale dell’Unione europea commentato, Milano, 2019, 158 ss.).
La classificazione doganale, in linea generale, si determina tramite la sussunzione di un prodotto all’interno di un codice costituito da una sequenza numerica articolata in più livelli. Il compito di assegnare alle merci un codice di classifica è demandato al dichiarante (importatore o rappresentante dell’importatore), che lo deve indicare all’interno della dichiarazione di importazione o di esportazione.
Entrando più nel dettaglio, le voci doganali si basano su un sistema di codifica internazionale sviluppato in seno al World Custom Organization (c.d. WCO) ed espresso all’interno della Convenzione internazionale sul Sistema Armonizzato di designazione e di codificazione delle merci (c.d. Sistema Armonizzato o SA). A tale convenzione, siglata a Bruxelles il 14 giugno 1983, ha aderito con decisione del Consiglio 87/369/CEE l’allora Comunità europea. Il sistema di classificazione SA risulta oggi adottato da oltre 200 Paesi come base della tariffa doganale. Si tratta, dunque, di un sistema che ha reso possibile la creazione di un linguaggio doganale condiviso a livello globale che, certamente, ha contribuito allo sviluppo del commercio internazionale.
La classificazione SA prevede, nello specifico, un codice di sei cifre tramite il quale è possibile identificare la quasi totalità dei prodotti presenti sul mercato (si stima che sia oggetto di nomenclatura oltre il 98% delle merci attualmente in commercio: si veda https://eur-lex.europa.eu/IT/legal-content/summary/international-convention-on-the-harmonized-commodity-description-and-coding-system.html). Il Sistema Armonizzato a sei cifre è organizzato secondo una struttura gerarchica, così riassumibile: 21 sezioni; 97 capitoli (identificati dalla prime 2 cifre); voci (4 cifre); sottovoci (ultime due cifre). Di seguito un esempio pratico per chiarire quanto esposto. All’interno della Sezione IV, relativa ai “Prodotti delle industrie alimentari; bevande, liquidi alcolici …”, il capitolo 22 riguarda le “Bevande, liquidi alcolici ed aceti”. Alla voce 2208 sono classificati i prodotti “Alcole etilico non denaturato con titolo alcolometrico volumico inferiore a 80% vol. …”. La sottovoce 2208 30 individua il bene “Whisky”.
L’Unione Europea, considerato l’elevato grado di complessità merceologica dei Paesi industrializzati, ha affiancato al sistema di codifica SA quello, ulteriore, della nomenclatura combinata (c.d. sistema NC). Esso risulta costituito da ulteriori due cifre oltre alle sei già previste dal Sistema Armonizzato. Tale nomenclatura rappresenta pertanto un elenco più dettagliato di quello adottato in sede WCO, sebbene ne ricalchi la struttura (Armella S., Diritto doganale dell’Unione europea, Milano, 2017, 212 ss.). Sempre a livello unionale è stata, altresì, istituita una tariffa doganale d’uso integrata (c.d. Taric), espressa mediante l’applicazione di ulteriori due cifre (nona e decima) al codice NC. Tali cifre hanno lo scopo di specificare eventuali ulteriori misure commerciali (ad esempio, dazi antidumping), restrizioni all’importazione o all’esportazione (embarghi, autorizzazioni dual use, licenze di importazione), contingenti tariffari, nonché misure di diverso tipo, quali, ad esempio, misure di sorveglianze e barriere fitosanitarie.
Ciò premesso, va rimarcato che il procedimento di classificazione doganale, che si concretizza nell’inquadramento di uno specifico bene all’interno di una delle 13.000 voci doganali oggi esistenti, rappresenta, come forse intuibile, un’operazione alquanto complessa. La complessità della procedura è dimostrata dalla circostanza che non è infrequente che uno stesso prodotto possa essere, prima facie, classificato in voci distinte. L’esito dell’operazione di classificazione, non a caso, è sovente oggetto di contestazioni da parte dell’Agenzia delle Dogane. Un primo fattore di confusione può essere rappresentato, ad esempio, dalla denominazione commerciale attribuita a un bene, la quale può differire rispetto a quella prevista ai fini tecnici (Bellante P. – Poggi Z., Gli scambi commerciali internazionali: aspetti doganali e sicurezza dei prodotti – La pianificazione del movimento delle merci: aspetti doganali e controlli per la tutela dei consumatori, Verona, 2008, 110 ss.). Non esistono automatismi di sorta: per essere classificato ogni prodotto deve essere esaminato nei suoi componenti essenziali. L’analisi deve, peraltro, estendersi anche alle funzioni del bene, ossia al suo precipuo utilizzo finale (Corte di Giustizia, 17 luglio 2014, C-472/12, Panasonic; Corte di Giustizia, 23 aprile 2015, C-635/13, SC Alka co srl).
Stante quanto appena esposto, si ritiene che la c.d. classification analysis rappresenti uno degli aspetti più complessi della disciplina doganale, dal momento che impone all’interprete un’analisi scientifico/ingegneristica del bene, da corredare a una imprescindibile esegesi dei principi regolatori contenuti nella legislazione unionale e internazionale di riferimento (Fabio M., Manuale di diritto e pratica doganale, Milano, 2022, 62).
3. Le fonti sulla classificazione doganale sono multilivello. L’interprete deve, in primo luogo, fare riferimento alla “Convenzione internazionale sul Sistema Armonizzato” (SA, vd. sopra); in secondo luogo, al Reg. CEE 2658/87 (istitutivo del sistema NC, vd. sopra), relativo alla nomenclatura tariffaria e statistica ed alla tariffa doganale comune; infine, a eventuali regolamenti di classifica concernenti determinati prodotti. Ricoprono, inoltre, grande importanza i principi enucleati dalla Corte di Giustizia in subiecta materia (Fraternali E., Classificazione doganale delle merci: rilevano le caratteristiche oggettive, in L’IVA, 2019, 4, 47-48).
In tale contesto sia il sistema SA che quello NC sono preceduti da “Regole generali”, specificatamente predisposte per l’interpretazione della nomenclatura combinata. Tali regole generali sono sovrapponibili nelle prime sei cifre per effetto della derivazione necessaria della NC dalla SA. A ulteriore supporto nell’attività di classificazione entrambe le nomenclature (SA e NC) prevedono delle “Note complementari di sezioni o di capitoli” a carattere vincolante. Vanno, infine, menzionate le c.d. “Note esplicative”, che rappresentano strumenti di prassi emessi dagli enti di gestione del Sistema armonizzato e della Nomenclatura combinata: rispettivamente il Comitato del sistema armonizzato (istituito in seno al Consiglio di cooperazione doganale del WCO) e il Comitato del codice doganale (istituto in seno alla Commissione europea). Sebbene le citate note esplicative non siano vincolati per l’interprete, essendo contenute in atti amministrativi, nondimeno le stesse forniscono un «rilevante contributo all’interpretazione della portata delle varie voci doganali» (Corte di Giustizia, 27 aprile 2006, C-15/05, Kawasaki Motors, pto 37).
Ciò premesso, va rimarcato che in sede di classifica l’elemento decisivo di individuazione della voce doganale deve essere ricercato nelle caratteristiche e proprietà oggettive del bene, quali definite nel testo della voce della NC e nelle note complementari premesse alle sezioni o ai capitoli (Corte di Giustizia, 25 febbraio 2016, C-143/15, G.E. Security BV). Il giudice unionale, sul punto, ha invero stabilito che «criterio determinante ai fini della classificazione doganale» è costituito dalle «caratteristiche e proprietà obiettive» del bene (Corte di Giustizia, 17 giugno 19978, C-164/95, Fabrica de Queijo Eru Portuguesa Lda, pto 13), da valutarsi unitamente alla destinazione d’uso del prodotto, laddove questa sia inerente al medesimo (Corte di Giustizia, 26 aprile 2017, C-51/16, Stryker EMEA Supply Chain Services BV, pto 40).
4. Dopo questo veloce excursus sulle fonti e sulle procedure di classificazione dei beni, torniamo alla pronuncia oggetto del presente contributo. La sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di II grado della Lombardia, ad avviso di chi scrive, fa corretta applicazione della normativa tributaria sostanziale sopra tratteggiata. La Corte milanese, infatti, ha stabilito che l’Agenzia delle Dogane, per dare fondamento alla propria pretesa, non può limitarsi a ipotizzare il diverso uso possibile del prodotto riclassificato. Occorre, invece, che sia fornita la prova dell’uso del bene «per esso precipuamente previsto», da determinare sulla base delle sue caratteristiche e proprietà oggettive. Nella fattispecie sottoposta al Collegio, al contrario, l’Amministrazione non avrebbe dimostrato, per usare le parole del decisore, le «specifiche caratteristiche tecniche che […] hanno determinato […] una diversa classificazione doganale” del bene.
Ciò esposto, ci si chiede se il Giudice di seconde cure abbia, quantomeno implicitamente, fatto applicazione del principio processuale racchiuso nel nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992.
Il punto merita una preliminare annotazione.
In ambito fiscale, fino all’entrata in vigore del citato comma 5-bis, risultava pacifica l’applicabilità dell’art. 2697 c.c. in tema di riparto processuale dell’onere della prova. L’Amministrazione finanziaria doveva, in tale contesto, provare i fatti costitutivi della pretesa, mentre spettava al contribuente l’onere di allegare i fatti impeditivi, modificativi o estintivi della ripresa a tassazione (art. 2697, comma 2, c.c.). Sennonché, dopo la riforma del processo tributario (L. n. 130/2022), si è acceso un ampio dibattito sulla perdurante applicabilità al processo tributario del citato art. 2697 c.c., nonché sul suo rapporto con il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992.
I termini della discussione appaiono riassumibili nel seguente modo. Secondo parte della dottrina, il comma 5-bis sarebbe sostanzialmente confermativo del previgente art. 2697 c.c., così da lasciare immutato il panorama dei principi e delle regole sino ad oggi maturati nel settore della prova all’interno del processo tributario. Secondo un diverso indirizzo, invece, la sostanza precettiva del nuovo comma sarebbe espressiva di un’innovativa dinamica in tema di riparto dell’onere della prova fra Amministrazione e contribuente (per una panoramica generale, si veda Melis G., Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporti con l’art. 2697c.c. ed estensione del profilo di vicinanza della prova, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 211 ss.).
Si tratta di dibattito il cui esito appare foriero di notevoli impatti pratici. Ed invero, laddove si accolga la tesi “confermativa” (che si fonda, in ultimo, sul binomio fatto costitutivo e fatto impeditivo, dove il primo deve essere dimostrato dal Fisco, il secondo dal contribuente), sarà il ricorrente, anche nel solco del principio giurisprudenziale di vicinanza alla prova, a dover dimostrate l’effettività e l’inerenza del costo, la congruità dei prezzi di trasferimento, ecc. Prospettiva, questa, come giustamente rilevato in dottrina, produttiva di «una divisione nella distribuzione dell’onere dimostrativo a seconda del componente di reddito oggetto di rettifica» (l’Autore della testé menzionata affermazione ritiene, nondimeno, il comma 5-bis ricognitivo del preesiste panorama in materia di prova, con conseguente persistente dovere da parte del contribuente di allegare in giudizio i fatti impeditivi della ripresa a tassazione; Della Valle E., La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in il fisco, 2022, 40, 3807).
Diversamente, ossia a volere dare seguito, come peraltro sembra preferibile, all’indirizzo interpretativo opposto (inapplicabilità al processo tributario dell’art. 2697 c.c.), sarà l’Ufficio a dover fornire «la prova di tutti gli elementi della pretesa impositiva, in conformità alla normativa sostanziale alla quale tale pretesa è correlata» (Lovisolo A., Sull’onere della prova e sulla prova testimoniale nel processo tributario: prime osservazioni in merito alle recenti modifiche ed integrazioni apportate all’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, in Dir. prat. trib., 2023, 1, I 43 ss.). L’onus probandi graverebbe quindi interamente sull’Amministrazione finanziaria, la quale non potrebbe più “appellarsi” al principio di vicinanza alla prova, questo concretizzandosi nel dovere, ora contra legem, di allegazione di fatti da parte del contribuente.
5. Appare quindi legittimo interrogarsi se nella pronuncia in commento la Corte abbia, finanche implicitamente, aderito a uno dei citati indirizzi nel momento in cui ha annullato la pretesa dell’Agenzia delle Dogane a causa del rilevato insufficiente corredo di prove a sostegno della pretesa fiscale.
A parere di chi scrive la risposta alla menzionata questione è negativa. Ed infatti a tale conclusione, ossia all’annullamento dell’atto, si sarebbe potuti giungere anche mediante la sola applicazione dell’art. 2697 c.c. Ciò in quanto nella fattispecie decisa dal Collegio il binomio fatti costitutivi – fatti impeditivi appare ininfluente ai fini della decisione. Se, infatti, la classificazione di un prodotto presuppone, a livello di regola generale, la preventiva corretta comprensione del suo uso precipuo, da dovere sondare alla luce delle caratteristiche oggettive del medesimo, allora significa che tale aspetto necessariamente acquista, in sede contenziosa, forza costitutiva della pretesa: sarà, quindi, sempre l’Ufficio a dover dare dimostrazione degli elementi a supporto della riclassifica della merce da cui scaturisce la maggiore pretesa. Questo, quantomeno, quando la controversia, come nel caso deciso dal Giudice milanese, sia incentrata sui caratteri, sulla natura e sulla composizione della merce da riclassificare. In siffatte ipotesi, infatti, non vi è alcuna necessità, per il contribuente, di dare evidenza di eventuali fatti impeditivi/estintivi/modificativi della pretesa. Né a diversa conclusione si sarebbe potuti giungere attraverso un’applicazione, nella fattispecie, del principio di vicinanza alla prova, nel senso di sostenere che il contribuente avrebbe dovuto allegare gli elementi tecnici del bene da esso commercializzato o prodotto, onde disinnescare la pretesa del Fisco.
Tale conclusione non sarebbe sostenibile se sol si riflette sulla circostanza che, in sede di verifica doganale, i funzionari hanno il potere di richiedere al contribuente la produzione di tutti i documenti tecnici relativi a qualsiasi prodotto importato. L’Agenzia delle Dogane può, inoltre, effettuare prelievi di campioni da sottoporre all’analisi del laboratorio chimico (art. 61 D.P.R n. 43/1973), per il cui tramite individuare le specifiche caratteristiche del bene da riclassificare. Contribuente e Amministrazione doganale, sotto questo profilo, sono quindi equidistanti alla prova sottesa alla riclassifica della merce. Cosicché il richiamo al principio di vicinanza alla prova non potrebbe avere cittadinanza all’interno del processo tributario in cui si discutesse di classificazione della merce, quantomeno laddove la controversia fosse incentrata sulla natura e sulle proprietà oggettive del prodotto riclassificato.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Armella S., Diritto doganale dell’Unione europea, Milano, 2017
Bellante P., Il sistema doganale, Torino, 2020
Bellante P. – Poggi Z., Gli scambi commerciali internazionali: aspetti doganali e sicurezza dei prodotti – La pianificazione del movimento delle merci: aspetti doganali e controlli per la tutela dei consumatori, Verona, 2008
Della Valle E., La “nuova” disciplina dell’onere della prova nel rito tributario, in il fisco, 2022, 40, 3807 ss.
Fabio M., Manuale di diritto e pratica doganale, Milano, 2022
Fraternali E., Classificazione doganale delle merci: rilevano le caratteristiche oggettive, in L’IVA, 2019, 4, 47 ss.
Glendi C., Applicabilità ai giudizi pendenti della nuova norma sull’onus probandi nel processo tributario – Primi esperimenti applicativi delle Corti di merito sulla regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT – Riv. giur. trib., 2023, 3, 247 ss.
Lovisolo A., Sull’onere della prova e sulla prova testimoniale nel processo tributario: prime osservazioni in merito alle recenti modifiche ed integrazioni apportate all’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, in Dir. prat. trib., 2023, 1, I, 43 ss.
Marella F. – Marotta P. (a cura di), Codice doganale dell’Unione europea commentato, Milano, 2019
Melis G., Su di un trittico di questioni di carattere generale relative al nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: profili temporali, rapporti con l’art. 2697c.c. ed estensione del profilo di vicinanza della prova, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, V, 211 ss.).
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Diritti degli interessati
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1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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