Il cram down fiscale e previdenziale alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali

Di Giulia Rugolo -

Abstract
Muovendo da una ricognizione delle più recenti decisioni giurisprudenziali rese in materia di cram down fiscale e previdenziale nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo, si tracciano gli ideali punti di maturazione dei profili applicativi dell’istituto, anche nella prospettiva dell’utilizzabilità del cram down fiscale e previdenziale per realizzare la condizione della ristrutturazione trasversale prevista dall’art. l12, comma 2, lett. d), c.c.i.

The tax and social security cram down in light of the most recent jurisprudential guidelines. – Starting from a reconnaissance of the most recent case law decisions rendered on tax and social security cram downs in the context of debt restructuring agreements and composition with creditors, the ideal maturation points of the application profiles of the institution are traced, also with a view to the usability of the tax and social security cram down to realise the condition of cross-sectional restructuring provided for by Article 112(2)(d) of the Business Crisis and Insolvency Code.

Sommario: 1. Premessa. – 2. La recente giurisprudenza dei tribunali nazionali. Il cram down fiscale e previdenziale negli accordi di ristrutturazione dei debiti… – 3. (Segue). … e nel concordato preventivo. – 4. Il potere del tribunale di sindacare la scelta del creditore pubblico. – 5. (Segue). La convenienza del trattamento proposto rispetto all’alternativa liquidatoria. – 6. Il termine dilatatorio di cui all’art. 63, comma 2, ultima parte, c.c.i. – 7. L’utilizzabilità del cram down per realizzare la condizione della ristrutturazione trasversale prevista dall’art. 112, comma 2, lett. d), c.c.i.

1. Fra i tanti temi ampiamente dibattuti negli ultimi anni in seno ai tribunali nazionali merita un particolare richiamo quello del c.d. cram down fiscale e previdenziale nell’ambito delle fattispecie degli accordi di ristrutturazione dei debiti e del concordato preventivo. Si tratta, come noto, dell’istituto attraverso il quale il tribunale può omologare forzosamente la proposta concorsuale senza l’adesione determinante del creditore pubblico, allorquando sussistano le condizioni previste dalla legge (per un quadro, cfr., Andreani G., Transazione Fiscale: come cambia a seguito del Codice della Crisi e della Direttiva Insolvency, in Dirittodellacrisi.it, 6 febbraio 2023, 16 ss.), tra cui, in specie, la convenienza economica della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria e, negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in seguito al D.Lgs. n. 69/2023, convertito nella L. n. 103/2023, la soddisfazione dei creditori pubblici in misura non inferiore al 30% dell’ammontare dei crediti (o al 40% qualora i crediti vantati dagli altri creditori aderenti siano inferiori al 25% dell’importo complessivo dei crediti e la dilazione di pagamento non ecceda il periodo di dieci anni).
Plurimi sono i dubbi interpretativi che la disciplina dell’istituto in esame solleva e che sono stati affrontati funditus dagli interpreti. Nell’ambito della recente giurisprudenza dei tribunali nazionali, spiccano, per le argomentazioni rese, tutte quelle pronunce che si sono interrogate, in particolare, sull’esistenza del potere del tribunale di sindacare la scelta del creditore erariale; sulla portata del giudizio di convenienza della proposta di transazione rispetto all’alternativa liquidatoria; sul termine dilatatorio di cui all’art. 63, comma 2, ultima parte, c.c.i., nonché, da ultimo, sulla applicabilità del meccanismo del cram down fiscale e previdenziale nel concordato in continuità aziendale.
In questo articolo, ci si propone di svolgere un’indagine volta a rilevare ed evidenziare le linee principali delle tesi interpretative che sembrano schiudersi in seno alla giurisprudenza nazionale in materia di cram down fiscale e previdenziale negli accordi di ristrutturazione dei debiti e nel concordato preventivo, anche alla luce delle ultime novità legislative, senza però maturare un pensiero comune e comunque non scevro da critiche dottrinali. D’appresso verranno quindi riportati i principi fondamentali espressi dai più recenti provvedimenti giurisdizionali; e poi avanzate, in maniera trasversale, alcune considerazioni in ordine all’assetto interpretativo che la giurisprudenza nazionale va così adottando, nonché in relazione agli sviluppi che le ultime novità legislative paiono idonee a delineare. Al riguardo, si impone una duplice precisazione. La prima è che le sentenze analizzate, per quanto, in alcuni casi, facciano applicazione delle norme contenute nella legge fallimentare applicabile ratione temporis, esprimono principi di diritto che appaiono pienamente adattabili al cram down fiscale e previdenziale disciplinato dal codice della crisi di impresa e dell’insolvenza; la seconda è che si procederà a sviluppare un ragionamento unico, evidenziando le differenze esistenti in parte qua tra gli accordi di ristrutturazione dei debiti e il concordato preventivo.

2. Seguitando nella direzione annunciata, le prime pronunce su cui ci si intende soffermare sono quelle rese, in fattispecie aventi ad oggetto l’omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti, dal Tribunale di Catania in data 31 marzo 2022 (in Ilcaso.it), dal Tribunale di Reggio Calabria il 9 giugno 2023 (in questa Rivista, con nota di Mercuri G., Il cram down fiscale alla ricerca di nuovi limiti: vaghezza dei presupposti e varietà di soluzioni, in questa Rivista, 14 ottobre 2023) e dal Tribunale di Roma, in data 14 luglio 2023 (in Dirittodellacrisi.it).
La prima questione che viene in considerazione riguarda il potere del tribunale di sindacare la scelta del creditore erariale.
Innanzitutto, il Tribunale di Catania precisa che, prima di soffermarsi sull’interpretazione da assegnare al sintagma “anche in mancanza di adesione”, è opportuno verificare, a monte, se detto potere giudiziario violi il principio di separazione dei poteri, potendo ipotizzarsi la sussistenza di un potere surrogatorio giurisdizionale di valutazione di una scelta discrezionale ascrivibile ad un organo amministrativo, espressione del potere esecutivo, nella sua veste precipua di parte privata che partecipa ad una procedura in concorso con altri creditori.
La risposa del giudice catanese è negativa: la legge è chiara nell’attribuire al potere giurisdizionale – piuttosto che all’amministrazione dello Stato – la valutazione circa la convenienza economica dei concordati preventivi e degli accordi di ristrutturazione rispetto alla alternativa fallimentare, in modo del tutto coerente e collegato con i principi della par condicio creditorum e della ponderazione comparativa e complessiva tra le possibili alternative di soluzione della crisi di impresa, nonché di cui agli artt. 97 e 98 Cost.
Ciò posto, il Tribunale di Catania – conforme quello di Reggio Calabria – ritiene che al giudice spetti il potere di sindacare la proposta transattiva, non solo in caso di silenzio, ma anche in presenza di un eventuale voto negativo espresso. E ciò in quanto, fra l’altro, da un punto di vista letterale, la “mancanza di adesione” può essere intesa anche come mancanza di adesione derivante da una risposta negativa; e, dall’altro lato, l’art. 20 D.L. n. 118/2021 conv., ha ricondotto ad unità la dicotomia, in precedenza esistente, tra la medesima situazione del voto determinante nella procedura di concordato e di accordo di ristrutturazione: ove per il concordato, l’art. 180 comma 4, L. fall. precedeva l’espressione “anche in mancanza di voto”; e, per l’art. 182-bis, comma 4, L. fall., in caso di accordo di ristrutturazione, invece, già si prevedeva la diversa formulazione, poi rimasta immutata “anche in mancanza di adesione”.
Sul punto, il Tribunale di Reggio Calabria chiarisce però che il cram down non opera in presenza di qualsivoglia rigetto, ma solo quando il rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria alla proposta formulata dal ricorrente appaia ingiustificato e irragionevole; sicché, spetta al giudice valutare in modo prudente e rigoroso i motivi che hanno spinto l’Amministrazione a definire non conveniente la proposta.
È necessario, prosegue il Tribunale reggino, che la Pubblica Amministrazione illustri, attraverso la motivazione del proprio diniego, il percorso logico seguito dimostrando di aver compiuto un equo contemperamento degli interessi in gioco al fine di adottare soluzioni che tutelino, sia pur in misura minore, l’interesse erariale, che con tutta evidenza non sarebbe in toto soddisfacibile in considerazione dello stato di crisi del contribuente. Pertanto, quando il diniego è del tutto scollato da un vaglio di convenienza, il rigetto dell’omologa operato dal tribunale sulla base di motivi di carattere meramente formale non farebbe altro che riportare ai nastri di partenza una procedura dall’esito finale già scritto.
Circa la valutazione del merito della scelta negativa effettuata dall’ente impositore, il Tribunale di Catania specifica poi che oggetto del giudizio di convenienza della proposta transattiva rispetto all’alternativa fallimentare, non è l’esiguità della soddisfazione rispetto all’ammontare complessivo del credito (che, nel caso concreto, era orientativamente il 20%): infatti, questo giudizio non è rapportato all’ammontare del debito ma, piuttosto, all’alternativa fallimentare ovvero alla somma che l’Erario potrebbe ricavare – come profitto o minor costo – dal fallimento del proponente rispetto alla somma offerta, sebbene sempre in termini presuntivi, in un determinato arco temporale.
Condivide questa linea interpretativa anche il Tribunale di Reggio Calabria, il quale ritiene precipuamente, che non è preclusiva all’omologazione la circostanza, da un lato, che i creditori, che avevano sottoscritto accordi di ristrutturazione del debito, costituiscono soltanto l’1,13% del totale dei creditori della società proponente, a fronte di un debito verso gli enti fiscali e previdenziali complessivamente pari al 68,79% del totale dell’esposizione debiti; e, dall’altro, che la percentuale riconosciuta all’Agenzia delle Entrate, INPS e INAIL è pari al 5% di quanto ad essi spettante. Invero, qualora, ai fini del cram down si pretendessero la non esiguità della proposta transattiva e la sussistenza di una ristrutturazione complessiva dei debiti non riguardante solo quelli nei confronti dell’Amministrazione, ma anche, per un importo non meramente simbolico e irrisorio, dei debiti verso gli altri creditori, si precluderebbe a monte l’esame di proposte comunque idonee a consentire all’Amministrazione di ottenere una qualche utilità.
Il Tribunale di Roma tratta, invece, approfonditamente la questione circa il termine dilatatorio di cui all’art. 63, comma 2, ultima parte, c.c.i. Sul punto, il giudice romano osserva come il giudizio di cram down del tribunale non può essere effettuato quando è ancora pendente il termine entro il quale l’Amministrazione fiscale e gli enti previdenziali devono esprimere la loro adesione o il loro diniego alla proposta, potendo verificarsi in tal caso un conflitto non risolubile tra antinomiche determinazioni: come avverrebbe nel caso in cui il tribunale ritenesse non conveniente la proposta transattiva e successivamente, ma nel termine di cui all’art. 63 comma 2, ultimo periodo, c.c.i., gli Uffici competenti aderissero invece alla proposta transattiva. Alla data di deposito della domanda di omologa, quindi, tale termine deve essere interamente decorso, non potendo ipotizzarsi che si adisca il tribunale per ottenere una pronuncia che sostituisca un atto non ancora compiuto e che potrebbe ancora compiersi.
Fa una peculiare applicazione di tale istituto, il Tribunale di Reggio Calabria, nella pronuncia già in parte analizzata, chiedendosi se possa configurarsi una sorta di sanatoria ex tunc del vizio procedurale rappresentato dal mancato rispetto di detto termine, nel caso in cui prima della declaratoria di inammissibilità da parte del tribunale intervenga il rigetto da parte degli enti destinatari della proposta.
La risposta è positiva. Il giudice calabrese ritiene infatti che il rigetto della proposta da parte degli enti fiscali e previdenziali sani il vizio procedurale connesso al mancato decorso del termine de quo prima del deposito della domanda di omologazione, sempre purché il rigetto pervenga prima dell’emanazione della declaratoria di inammissibilità.

3. Passando ad analizzare le sentenze emesse nell’ambito di fattispecie di concordato preventivo, appare opportuno segnalare, in primo luogo, quella del Tribunale di Verona del 14 luglio 2023 (in Ilcaso.it). In questa pronuncia, il giudice, chiamato a pronunciarsi in un caso di concordato preventivo in continuità c.d. Diretta, afferma che l’art. 180, comma 4, L. fall. consente di operare il cram down in mancanza di adesione da parte degli enti fiscali e/o tributari ovvero sia in caso di voto negativo espresso sia in mancanza di voto in quanto, non operando il meccanismo del silenzio assenso, il voto non espresso è equiparabile al voto contrario ed implica, pertanto, la mancata adesione del creditore alla proposta concordataria. Per contro, prosegue il Tribunale, la diversa conclusione per cui il credito dell’Amministrazione finanziaria e degli enti previdenziali dovrebbe essere totalmente sterilizzato e quindi non dovrebbe essere considerato né nel computo dei votanti, né nel computo dei voti contrari e, inoltre, non si dovrebbe neppure tenere conto delle classi costituite esclusivamente da creditori fiscali e/o tributari, oltre ad essere in contrasto con il chiaro dettato di legge, non può neppure ritenersi imposta al fine di evitare un possibile contrasto con l’art. 11 della c.d. Direttiva Insolvency, posto che per effetto della conversione da parte del tribunale il voto degli enti va considerato a tutti gli effetti come positivo e, quindi, si perviene senz’altro all’omologa in presenza dell’approvazione della proposta da parte di almeno una classe.
Questo assunto viene confermato, in un provvedimento del 17 novembre 2022, dal Tribunale di Roma (in Dirittodellacrisi.it), il quale statuisce che il giudizio di convenienza si risolve essenzialmente in una comparazione tra il trattamento riservato all’Amministrazione finanziaria con la proposta ex art. 182-ter L. fall. e il trattamento che la stessa riceverebbe, in via prognostica, nell’alternativa liquidatoria. Nell’effettuare tale giudizio, si deve avere riguardo, chiarisce il giudice romano, non solo ai dati quantitativi e alle percentuali di soddisfacimento del credito, ma anche a tutta un’altra serie di profili, quali ad esempio la tempistica di pagamento del creditore e l’esistenza di eventuali garanzie; e si deve inoltre svolgere una valutazione prognostica, dovendosi simulare un riparto finale in sede fallimentare tenuto conto del grado dei singoli privilegi erariali, e, successivamente, procedere al confronto dei relativi esiti, in termini di entità e tempi di realizzo, con le condizioni economiche previste nell’ambito della proposta di trattamento.
Tratta invece un profilo del tutto nuovo nel panorama giurisprudenziale, la sentenza del Tribunale di Lucca del 18 luglio 2023 (in Ilcaso.it e in Dirittodellacrisi.it, con nota di Andreani G., Il cram down fiscale nel concordato preventivo in continuità, in Dirittodellacrisi.it, 3 ottobre 2023, 1 ss.), la quale affronta, a quanto consta per la prima volta, il problema dell’applicabilità della disciplina del cram down fiscale e previdenziale nel caso in cui la proposta di concordato in continuità aziendale implichi una ristrutturazione trasversale dei debiti, regolata dall’art. 112, comma 2, c.c.i., ovvero della possibilità di utilizzare il cram down per realizzare la condizione della ristrutturazione trasversale prevista dall’art. l12, comma 2, lett. d), c.c.i.
Il Tribunale esclude la possibilità di interpretare estensivamente l’art. 88, comma 2-bis, c.c.i. per inverare la condizione di cui all’art. 112, comma 2, lett. d), c.c.i. per più ragioni.
La prima ragione, di ordine letterale, è che il cram down fiscale e previdenziale è stato pensato nel nostro ordinamento in un contesto in cui non esisteva la regola della relative priority rule, ma solo quella della absolute priority rule. La seconda, di rilievo sistematico, è che, anche negli accordi di ristrutturazione, ove il cram down è pure previsto, questo viene in considerazione soltanto quando l’adesione dei creditori pubblici è necessaria per raggiungere le maggioranze richieste dagli artt. 57, comma 1 e 60, comma 1 ma non anche quando vengano in rilievo le maggioranze dell’art. 61, comma 2, lett. c), c.c.i. per gli accordi ad efficacia estesa. La terza, di natura logica, è che comunque la c.d. Direttiva Insolvency – nel dettare le condizioni per la ristrutturazione trasversale dei debiti – non fa mai riferimento alla possibilità di considerare un voto non espresso da un creditore o da una classe come un voto di adesione alla proposta per effetto di una fictio iuris, ma richiede che la proposta sia espressamente approvata.

4. Come già in parte evidenziato nel richiamare i provvedimenti in analisi, le prime tre sentenze menzionate (quelle, cioè, dei Tribunali di Catania, di Reggio Calabria e di Roma) affrontano profili delicati e particolarmente dibattuti della disciplina dettata dal legislatore in materia di cram down fiscale e previdenziale. Nell’alveo della ricostruzione tracciata da questi provvedimenti possono poi ricondursi, per quanto riguarda l’impostazione di fondo, anche le successive due sentenze di cui si è data notizia (ovvero quelle dei Tribunali di Verona e di Roma). Senz’altro meritevole di una sua autonoma considerazione è, invece, l’ultimo provvedimento menzionato, quello del Tribunale di Lucca, in quanto analizza il problema dell’utilizzabilità del cram down fiscale e previdenziale per realizzare la condizione della ristrutturazione trasversale prevista dall’art. l12, comma 2, lett. d), c.c.i. Infatti, i due fronti interpretativi richiamati prospettano una serie di riflessioni che paiono proporsi come ideali punti di maturazione degli orientamenti giurisprudenziali in materia di cram down fiscale e previdenziale; del tutto nuovo nel panorama giurisprudenziale appare invece il provvedimento del Tribunale di Lucca, che viceversa pare porsi quale punto di partenza del dibattito che probabilmente andrà a svilupparsi da qui a venire sul rapporto tra l’art. 88 c.c.i. e l’art. l12, comma 2, lett. d), c.c.i.
Orbene, nella sistematica della legge fallimentare, come poi ripresa dal codice della crisi di impresa, il cram down fiscale e previdenziale può essere attuato, come noto, al ricorrere di due presupposti.
Il primo è il carattere determinante della mancanza di adesione da parte degli Uffici fiscali o degli enti previdenziali alla proposta presentata dal debitore. In entrambe le procedure concorsuali in esame, infatti, il cram down richiede che il voto dei creditori pubblici sia determinante per il raggiungimento delle maggioranze necessarie per procedere all’omologa, che sono, pari, nell’accordo di ristrutturazione, al 60% dei crediti dell’esposizione debitoria complessiva (artt. 63 e 50 c.c.i.; ridotta alla metà nell’ipotesi di accordo di ristrutturazione dei debiti agevolato ex art. 60 c.c.i.) e, nel concordato preventivo, alla maggioranza dei crediti ammessi al voto (ex artt. 88 e 109 c.c.i.).
Sul punto, la dottrina che si è interrogata sul significato da attribuire al carattere determinante dell’adesione (o della mancata adesione) del creditore pubblico non individua un criterio univoco (per un quadro sulle diverse opinioni espresse, cfr., ad esempio, Giuffrida D. – Turchi A., Diniego di transazione fiscale e cram down tra dottrina e giurisprudenza, in Dirittodellacrisi.it, 20 maggio 2021, 1 ss.). La tesi preferibile ritiene che la mancata adesione abbia carattere determinante quando, di per sé o congiuntamente a quella di altri creditori, precluda irrimediabilmente il raggiungimento della maggioranza richiesta dalla legge per procedere all’omologazione; conseguentemente, detta adesione (o mancata adesione) non è determinante quando non impedisce agli altri creditori di raggiungere, da soli, le predette maggioranze (così, cfr., ad esempio, Andreani G. – Tubelli A., La transazione fiscale dopo il Codice della crisi e la Direttiva Insolvency negli accordi di ristrutturazione dei debiti, in Il Fallimentarista, 14 luglio 2022, 6 s., anche per i riferimenti alla tesi per cui il termine “determinante” possa essere interpretato nel senso che l’adesione del Fisco potrebbe considerarsi tale quando risulti essenziale per la fattibilità giuridica ed economica dell’intero piano di risanamento, in quanto solo lo stralcio dei crediti tributari previsto dalla proposta di transazione potrebbe liberare le risorse necessarie per dar corso al risanamento).
Nel caso in cui la mancata adesione dell’Amministrazione finanziaria risulti determinante nell’approvazione (o meno) della proposta di transazione fiscale e previdenziale, viene in rilievo il problema – affrontato dettagliatamente dal Tribunale di Catania e da quello di Reggio Calabria –, di stabilire, specie nel vigore della legge fallimentare prima della novella del 2020/2021, oltre che la portata (minima o massima) del potere del giudice di sindacare la scelta del creditore erariale, il significato da attribuire alla locuzione “anche in mancanza di adesione”.
Le conclusioni cui giungono i giudici nei provvedimenti citati e prima richiamati paiono avallare – in modo del tutto condivisibile – la tesi dottrinale c.d. estensiva (cfr., fra gli altri, Andreani G., Le nuove norme della legge fallimentare sulla transazione fiscale, in Il Fallimentarista, 5 gennaio 2021, 1 ss.; Gambi L., Questioni aperte sul cram down nella transazione fiscale, in Il Fallimentarista, 25 gennaio 2021, 1 ss.; Calò L., La transazione fiscale e contributiva in mancanza di adesione da parte dell’Agenzia delle entrate e degli istituti previdenziali, in Il Fallimentarista, 5 gennaio 2021, 1 ss. In giurisprudenza, Trib. La Spezia, 14 gennaio 2021; Trib. Forlì, 15 marzo 2021; Trib. Teramo, 19 aprile 2021; Trib. Roma, 31 maggio 2021; Trib. Roma, 30 giugno 2021, tutte in Dejure.it), secondo la quale la locuzione “in mancanza di adesione” da parte dell’Amministrazione finanziaria o previdenziale ricomprende, oltre che la mancata risposta (stante l’operatività della regola del silenzio-dissenso di cui all’art. 178 L. fall.), anche la risposta negativa, poiché pure in essa è riscontrabile la mancanza di assenso. In questa direzione, si colloca anche il Tribunale di Verona, il quale precisa pure che, non operando il meccanismo del silenzio assenso, il voto non espresso è equiparabile al voto contrario ed implica, pertanto, la mancata adesione del creditore alla proposta concordataria.
Non pare per contro essere stata condivisa la c.d. tesi restrittiva, avallata dalla dottrina minoritaria (Monteleone M. – Pacchi S., Il nuovo “cram down” del tribunale nella transazione fiscale, in www.ilcaso.it, 9 febbraio 2021; De Bernardin L., Brevi note a prima lettura sull’omologa dei piani di ristrutturazione con trattamento dei crediti tributari o contributivi, in www.ilcaso.it, 2 gennaio 2021; Sgrò R., I crediti tributari e contributivi nel concordato preventivo e negli accordi di ristrutturazione, in Danovi A. – Acciaro G., a cura di, Nuova transazione fiscale, Milano, 2021, 23 ss. In giurisprudenza, v., ad esempio, Trib. Bari, 18 gennaio 2021, in Dejure.it), per cui l’omologazione forzosa può essere disposta solo quando l’Amministrazione finanziaria e gli enti previdenziali non si pronuncino sulla proposta formulata dal debitore/contribuente restando in silenzio, ma non anche nell’ipotesi di diniego espresso da parte dei creditori pubblici.
Ad uno sguardo di insieme, l’interpretazione estensiva del sintagma “in mancanza di adesione” merita di essere condivisa; e anzi sembra una conclusione sostanzialmente dovuta alla luce della novella alla legge fallimentare del 2020/2021 e del codice della crisi di impresa, stante la sostituzione dell’espressione “in mancanza di voto” con quella “in mancanza di adesione”. Fra l’altro, e per l’appunto, nel parere reso dalla Commissione Giustizia della Camera sul disegno di legge di conversione del D.L. n. 125/2020 si legge che la modifica in esame «consente ai tribunali di omologare il concordato preventivo o gli accordi di ristrutturazione dei debiti anche se la mancata adesione da parte dell’amministrazione finanziaria o degli enti previdenziali o assistenziali determini il mancato raggiungimento delle relative percentuali minime».
D’altronde, le ragioni alla base di siffatta interpretazione sono plurime, ma alla base chiare; e attengono, in sintesi, oltre che alla finalità della normativa in esame, ricavabile dalla Relazione illustrativa al codice della crisi di impresa (in Ilfallimento.it; dalla quale emerge che l’istituto della transazione fiscale è stato introdotto con un duplice obiettivo di evitare che i creditori pubblici continuino ad impiegare tempi irragionevoli ed incompatibili con il percorso risanatorio del debitore per pronunciarsi sulle proposte di transazione; e di impedire che alcune di queste vengano rigettate sebbene convenienti per l’Erario), al fatto che l’interpretazione estensiva del sintagma in esame non contrasta né con le esigenze di tutela del ceto creditorio, che può comunque esperire, per tutelare i propri interessi asseritamente lesi, lo strumento dell’opposizione al decreto di omologazione, da promuovere dinnanzi al giudice ordinario della sezione concorsuale e non tributario (sul dibattito relativo al profilo della giurisdizione nel giudizio di omologazione del concordato, cfr., per una sintesi, Mauro M., Transazione fiscale e “cram down” del giudice fallimentare, in Dirittodellacrisi.it, 29 settembre 2022, 5 s.; e, in giurisprudenza, per tutti, v. Cass., S.U., n. 8504/2021), né con la direttiva n. 1023/20219, c.d. Direttiva Insolvency (sul punto, per un quadro, cfr., Acciaro G. – Turchi A., Il cram down fiscale dopo il d.l. 118 2021 e le prime pronunce di merito, in Dirittodellacrisi.it, 16 dicembre 2021, 4 ss., ove pure riferimenti alle argomentazioni spesa a sostegno della tesi contraria).
Discorso diverso va fatto viceversa con riferimento alla possibilità di far operare il cram down, non in presenza di un qualsiasi rigetto, ma solo – come ritenuto dal Tribunale di Reggio Calabria – quando il rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria alla proposta formulata dal ricorrente appaia ingiustificato e irragionevole. Infatti, fermo restando che, come visto, la ratio dell’istituto in esame è quella di superare una inerzia ingiustificata e irragionevole da parte dell’Amministrazione e non di comprimere i diritti del creditore pubblico (così, per tutti, Andreani G., Il cram down fiscale nel concordato preventivo in continuità, cit., 3; e, in giurisprudenza, Trib. Lucca, 17 gennaio 2022, in Dejure.it), una tale impostazione, se applicata nella massima portata, potrebbe precludere l’omologazione forzosa di proposte di transazione rigettate con argomentazioni corpose ma comunque non giustificate da un punto di vista sostanziale: ovvero solo formalmente motivato.
Si ritiene, per contro, che il giudice, senza sostituirsi all’Amministrazione, debba comunque omologare forzosamente la proposta di transazione quando il rigetto dell’ente impositore, per quanto ampiamente motivato, non risulti, ad un controllo di legalità sostanziale, in ogni caso ragionevole e giustificato. Si pensi, ad esempio, al caso in cui l’Amministrazione motivi il rigetto assumendo che l’esperimento di un’azione di responsabilità nei confronti dei membri degli organi sociali possa ingenerare introiti da distribuire tra la massa dei creditori, senza però aver in concreto valutato tutti i profili di rischio e aleatorietà insiti in un tale giudizio risarcitorio e la convenienza economica ad esso sottesa in termini di effettiva possibilità di soddisfarsi sui patrimoni dei potenziali convenuti, magari già gravati da formalità pregiudizievoli.
Detto altrimenti: il sindacato giudiziario dovrebbe estendersi sino a valutare il merito (e non solo la corrispondenza formale) della motivazione sottesa al rigetto della proposta da parte del creditore pubblico per verificare se effettivamente la transazione fiscale risulti più o meno conveniente per l’ente impositore rispetto all’alternativa liquidatoria. Del resto, l’Amministrazione, nella valutazione della proposta di transazione, dispone di una discrezionalità “vincolata” al maggior soddisfacimento e convenienza tra il pagamento offerto dal debitore e l’alternativa liquidatoria (v. Mauro M., Transazione fiscale e “cram down” del giudice fallimentare, cit., 6).

5. Appurato che, secondo il dettato del codice della crisi di impresa, come interpretato dalla recente giurisprudenza di merito, il tribunale può omologare forzosamente gli accordi di ristrutturazione e il concordato preventivo sia in caso di mancanza di voto sia in caso di diniego espresso da parte del creditore pubblico, quando l’adesione del creditore pubblico è determinante, è possibile passare ad analizzare il secondo presupposto applicativo del cram down fiscale e previdenziale: vale a dire, la convenienza (e, nel concordato preventivo, anche la non deteriorità) della proposta di transazione fiscale rispetto all’alternativa liquidatoria.
Si tratta cioè di verificare quando il soddisfacimento dei crediti fiscali offerto dall’impresa debitrice si riveli, anche alla luce delle risultanze dell’attestazione resa da un professionista indipendente o della relazione del commissario giudiziario, più conveniente (e non deteriore) rispetto a quello ottenibile in sede di liquidazione giudiziale. Il giudizio di convenienza che il tribunale è chiamato a svolgere è rapportato quindi, non all’ammontare del debito, ma all’alternativa liquidatoria ovvero alla somma che il creditore pubblico potrebbe ricavare, in termini di profitto o di minor costo, dalla liquidazione giudiziale del debitore-proponente rispetto alla somma offerta con la proposta concorsuale, sebbene sempre in termini presuntivi, in un determinato arco temporale. Inoltre, nel concordato preventivo, il tribunale è chiamato a verificare che la proposta del debitore preveda un trattamento del creditore pubblico non deteriore rispetto a quello ottenibile in sede di liquidazione, inteso come il criterio in base al quale il trattamento proposto al creditore dissenziente è quello che, in termini satisfattivi, è almeno pari (id est, equivalente) al trattamento che spetterebbe al creditore pubblico in caso di liquidazione giudiziale (per questa conclusione e, più in generale, sulla differenza fra un trattamento dei crediti tributari e contributivi «conveniente rispetto alla liquidazione giudiziale» e un trattamento «non deteriore rispetto alla liquidazione giudiziale», cfr. Andreani G., Transazione Fiscale: come cambia a seguito del Codice della Crisi e della Direttiva Insolvency, cit., 19 ss.).
In questa prospettiva, nell’assenza – almeno sino ad un recente passato – di specifiche indicazioni operative da parte del legislatore, il dibattito interpretativo si è incentrato sulla percentuale minima di soddisfazione del creditore pubblico offerta dal debitore per ritenere inverata la condizione della convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria ovvero per procedere all’omologazione forzosa della stessa.
Nella prassi giurisprudenziale, si è assistito all’omologazione forzosa di accordi di ristrutturazione e concordati preventivi in cui le proposte del debitore prevedevano la soddisfazione del creditore pubblico in una percentuale infinitesimale del credito vantato verso il debitore proponente. Ad esempio, e per l’appunto, il Tribunale di Reggio Calabria e il Tribunale di Verona procedono ad omologare forzosamente – ravvedendone così la convenienza economica – un accordo di ristrutturazione dei debiti e un concordato preventivo le cui proposte contemplavano la soddisfazione del creditore pubblico nella misura del 5% del credito vantato. Tali provvedimenti giurisprudenziali, unitamente a quello del Tribunale di Roma, riconducono nel giudizio di convenienza/non deteriorità della proposta anche altri elementi (rispetto alla percentuale di soddisfazione offerta) inseriti nella proposta, perché di per sé reputati idonei o a rappresentare una fonte di creazione di nuova ricchezza e, dunque, di nuove imposizioni fiscali (come l’apporto di finanza esterna e/o la continuità aziendale) o ad escludere la possibilità di reperire ulteriori (rispetto a quelle offerte con la proposta) risorse con cui soddisfare i creditori (le difficoltà connesse all’esercizio di azioni revocatorie/risarcitorie, come l’alea del processo, la possibilità di eventuali definizioni bonarie della controversia, la possibile infruttuosità dell’azione).
Non sono mancati per contro provvedimenti giurisprudenziali (cfr. Appello Milano, 23 febbraio 2023, in Ilcaso.it; Trib. Salerno, 23 gennaio 2023, in Dirittodellacrisi.it; Trib. Lecce, 17 ottobre 2022, in Dejure.it) che non hanno omologato forzosamente accordi di ristrutturazione dei debiti o concordati preventivi in presenza di una proposta che offriva al creditore pubblico un pagamento di pochi punti percentuali (ad esempio 3%), sul presupposto che siffatte proposte di transazione fiscale comprimano, sino ad azzerare praticamente del tutto, il credito pubblico (e le cause legittime di prelazione da cui eventualmente è assistito), inverando così un abuso dell’istituto in esame. Nei casi portati all’attenzione di questi tribunali (in specie, di quelli di Salerno e Lecce prima citati), peraltro, le proposte di transazione si basavano su una valutazione immobiliare o aziendale sottostimata rispetto ai valori di mercato reali e non garantivano quindi – a parere dei giudici – la veridicità dei dati presentati, risultando, per l’effetto, idonee a tutelare i creditori e, di qui, a consentire al giudice di esercitare l’omologa forzosa.
Ora, a parte che è dubbio che possa parlarsi di abuso del cram down nel caso in cui il tribunale omologhi l’accordo di ristrutturazione dei debiti o il concordato preventivo valutando maggiormente satisfattiva per le ragioni del creditore pubblico la proposta di transazione fiscale rispetto all’alternativa liquidatoria seppur prevedente un adempimento del credito tributario in pochi punti percentuali, lo scopo di evitare un utilizzo distorto del cram down o, meglio, la sua applicazione nelle ipotesi proposte di transazione fiscale aventi ad oggetto soddisfacimenti irrisori del creditore pubblico sembra essere stato perseguito dal legislatore, in materia di accordi di ristrutturazione dei debiti, con la recente sospensione, ad opera del D.Lgs. n. 69/2023, conv. in L. n. 103/2023, dell’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 63, commi 2 e 2-bis, c.c.i.
L’art. 1-bis D.Lgs. n. 69/2023, conv. L. n. 103/2023 stabilisce, infatti, che il tribunale omologa forzosamente la proposta di accordo di ristrutturazione dei debiti non liquidatorio quando (fra l’altro) il soddisfacimento dei crediti dell’Amministrazione finanziaria e degli enti gestori di forme di previdenza o assistenza obbligatorie è almeno pari: (i) al 30% dell’ammontare dei rispettivi crediti, inclusi sanzioni e interessi, se il credito complessivo di cui sono titolari altri creditori aderenti all’accordo corrisponde ad almeno un quarto dell’intero importo dei debiti dell’impresa istante; oppure (ii) al 40% del loro ammontare, comprensivo di sanzioni e interessi, ed è prevista una dilazione di pagamento non superiore a dieci anni, se il credito complessivo di cui sono titolari altri creditori aderenti è inferiore a un quarto dell’intero importo dei debiti dell’impresa istante oppure se non vi è alcun altro creditore aderente all’accordo.
La dottrina (Andreani G., Le limitazioni del cram down fiscale nell’adr introdotte dal decreto-legge 13 giugno 2023, n. 69, convertito nella legge 10 agosto 2023, n. 103, in www.ilcaso.it, 4 settembre 2023, 4 ss.; v. anche Mercuri G., op. cit., 5 ss.), che si è già pronunciata su tale disposizione normativa (che si applica alle proposte di transazione presentate a partire dal giugno 2023), ha in parte criticato questa disposizione normativa, osservato che il legislatore avrebbe potuto perseguire il medesimo scopo introducendo una norma antiabusiva di carattere generale; norma, questa, che però avrebbe potuto ingenerare incertezze e contrasti applicativi. Ne consegue – prosegue questa dottrina – che, seppur l’intento legislativo merita apprezzamento – se non altro, appunto, perché, fissando una soglia numerica, esclude incertezze applicative – si lascia criticare sia per la percentuale di soddisfacimento del credito fissata, che appare eccessiva; sia per il silenzio serbato sulla circostanza che il cram down dovrebbe essere escluso – come, ad esempio, sottolineava già il Tribunale di Reggio Calabria nel provvedimento in precedenza richiamato – solo in presenza di un rigetto ben (e legittimamente) motivato e non anche in caso di mera inerzia del creditore pubblico.
La novità legislativa in esame – che non sterilizza né elimina il giudizio di convenienza della proposta transattiva rispetto all’alternativa liquidatoria che il tribunale è chiamato a svolgere, ma ne rappresenta uno dei parametri; e non invera una forfettizzazione del soddisfacimento del credito pubblico (v. Andreani G., Le limitazioni del cram down fiscale, cit., 10 s.) – induce fra le altre una considerazione. Ora, è vero che detta norma, per espressa volontà legislativa, si applica solo agli accordi di ristrutturazione dei debiti e non anche al concordato preventivo. Eppure, a prescindere dal problema paventato della disparità di trattamento sussistente tra le due discipline – superabile, probabilmente, accedendo alla tesi che la esclude in considerazione delle diversità esistenti tra stesse (presupposti applicativi, ratio, modalità esecutive, l’uno coinvolgendo tutti i creditori e vedendo l’applicazione del principio maggioritario, invece l’altro essendo rivolto anche a pochi creditori ed efficace esclusivamente per chi vi aderisce; v. Andreani G., Le limitazioni del cram down fiscale, cit., 5 s.) –, appare certo o comunque altamente probabile che la prassi si orienterà nel senso di negare l’omologazione forzosa del concordato preventivo in presenza di proposte di transazioni con percentuali di soddisfacimento del creditore pubblico inferiori alle soglie previste per quella degli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Si ritiene, infatti, che le soglie minime di soddisfazione vigenti per l’omologazione forzosa degli accordi di ristrutturazione finiranno per costituire un parametro da tenere in considerazione nell’omologazione forzosa del concordato preventivo; e ciò in quanto, sebbene le due procedure concorsuali si differenzino, come visto, sotto più profili, è pur certo che il nocciolo duro delle stesse è la regolazione e il superamento dello stato di crisi/insolvenza dell’imprenditore-proponente; e che detto obiettivo appare perseguibile attraverso (se del caso, anche) la transazione fiscale con l’ente impositore.
In altre parole, non appare peregrino, ma anzi, alquanto probabile, che, nella prassi, la regola contenuta nella legge del 2023 – ossia, appunto, l’ancoraggio dell’omologazione forzosa al raggiungimento di una percentuale minima di soddisfazione – venga utilizzata in concreto come parametro e/o criterio interpretativo anche per l’omologazione forzosa del concordato preventivo, quantomeno liquidatorio: è da vedere infatti se nel concordato preventivo in continuità aziendale il meccanismo del cram down possa essere ancora utilizzato (v., infra, sub par. 7).
In questo contesto, ci si potrebbe interrogare, a monte, sulle ragioni per le quali l’Amministrazione finanziaria proceda a votare negativamente le o a non pronunciarsi sulle proposte di transazione fiscale nell’accordo di ristrutturazione dei debiti o nel concordato preventivo anche quando queste risultino maggiormente convenienti rispetto all’alternativa liquidatoria. In assenza di chiare indicazioni e superato il problema relativo alla c.d. indisponibilità del credito tributario (cfr., anche per ulteriori riferimenti, Mauro M., Transazione fiscale e “cram down” del giudice fallimentare, cit., 3 ss.), potrebbe ipotizzarsi che l’Amministrazione finanziaria non presti l’assenso alle proposte di transazione fiscale per evitare di incorrere in responsabilità erariale adottando scelte che, in un eventuale giudizio risarcitorio, potrebbero essere ritenute dannose.
Appare chiaro infatti che approvare una proposta di transazione fiscale, che preveda la soddisfazione del credito pubblico in misura inferiore a quello vantato, potrebbe divenire oggetto di sindacato giurisdizionale o comunque di “chiarimenti” in sede procedimentale e, dunque, scoraggiare l’ente impositore e, prima ancora, il dipendente pubblico dall’assumersi la responsabilità di una siffatta scelta.
Epperò, se questa è la ragion d’essere dell’inerzia o comunque del rigetto delle proposte di transazione fiscale e previdenziale, e in un’ottica prudenziale potrebbe pure essere condivisa o, in ogni caso, compresa, è evidente che in fatto verrebbe a sterilizzare l’applicazione fisiologica dell’istituto, che pertanto avverrebbe solo in sede giudiziaria, ove si verrebbe a traslare in capo all’organo giudicante la paternità e, dunque, la “responsabilità” della scelta. Infatti, si potrebbe assistere ad un rigetto della proposta di transazione che preveda la soddisfazione del credito tributario al 90% in quanto pure questa percentuale, per quanto per pochi punti, è comunque inferiore all’intero credito vantato e non ne rappresenta un adempimento integrale.
Se così fosse, potrebbe conseguentemente spiegarsi anche la recente scelta legislativa di fissare una percentuale minima di soddisfazione del creditore pubblico per procedere all’omologazione forzosa degli accordi di ristrutturazione dei debiti. In questo caso, infatti, il creditore pubblico che, in sede procedimentale accettasse la proposta di transazione fiscale rispettosa della soglia minima di soddisfacimento fissata dalla legge, potrebbe utilizzare, in un eventuale giudizio risarcitorio, lo scudo del parametro normativo per andare esente da responsabilità; anche se è pur vero che comunque si andrebbe ad accettare l’abbattimento della percentuale di soddisfazione del credito vantato. Il che potrebbe – ma non è detto – determinare l’effetto di superare le resistenze sino ad oggi spiegate dall’Amministrazione finanziaria sul punto. Si auspica pertanto che l’Amministrazione finanziaria proceda ad effettuare un giudizio di convenienza economica della proposta già in sede procedimentale, evitando di far giungere in sede processuale – e dunque di rimettere all’apprezzamento del giudice la valutazione di – proposte di transazione palesemente convenienti per il creditore pubblico rispetto all’alternativa liquidatoria.

6. Un altro profilo di disciplina del cram down esaminato nelle pronunce citate in precedenza – e, in particolare, in quelle dei Tribunali di Reggio Calabria e di Roma – concerne, come accennato, la possibilità di omologare forzosamente gli accordi di ristrutturazione prima che sia decorso il termine di 90 giorni dal deposito della proposta di transazione previsto dall’art. 63 comma 2, ultima parte, c.c.i. (e, prima, dall’art. 182-ter, comma 5, L. fall.). Si tratta, come noto, del termine che mira a garantire il raggiungimento di un’intesa tra il debitore istante e gli enti fiscali e previdenziali riconoscendo a questi ultimi uno spatium deliberandi che consenta loro di valutare la congruità della proposta transattiva formulata dal ricorrente e conseguentemente di manifestare la propria volontà, sotto forma di assenso o di rigetto, nei termini prima analizzati.
Partendo da tale presupposto, la giurisprudenza prevalente (da ultimo, a parte i provvedimenti prima richiamati, v. Trib. Catania, 19 gennaio 2023, in Dejure.it; conf., in dottrina, per tutti, Andreani G., Le limitazioni del cram down fiscale, cit., 20 ss.) perviene alla conclusione che, in caso di silenzio serbato dagli enti impositori, il decorso del termine di 90 giorni successivo all’invio della proposta, è un presupposto indefettibile ai fini dell’omologa, richiesto a pena l’inammissibilità della domanda. Infatti, il mancato rispetto di detto termine determinerebbe l’assenza della condizione necessaria ad integrare la mancata adesione dell’Amministrazione finanziaria o previdenziale e, dunque, a perfezionare l’accordo con l’ente impositore o comunque a realizzare la fattispecie di silenzio diniego sulla proposta di transazione avanzata dal debitore di cui all’art. 63, commi 2 e 2-bis, art. 63 c.c.i.
Questa tesi interpretativa perviene a detta conclusione muovendo dalla lettura coordinata degli artt. 48 comma 4, 57 e 63 commi 1, 2 e 2-bis, c.c.i., osservando che da tali norme si evince chiaramente che la formulazione della proposta transattiva pertiene alla fase delle trattative che precedono la stipula degli accordi di ristrutturazione. Ne consegue che la domanda di omologa di detti accordi può essere presentata solo dopo che sia intervenuta l’adesione da parte dei competenti Uffici alla proposta transattiva o sia stato manifestato dagli stessi Uffici il diniego alla proposta o sia decorso il termine di 90 giorni dalla presentazione della proposta senza che i competenti Uffici abbiano manifestato la loro volontà adesiva o non adesiva, potendo in questi ultimi due casi esplicarsi il giudizio di cram down da parte del tribunale.
Questo giudizio non potrebbe per contro essere effettuato quando è ancora pendente il termine entro il quale l’Amministrazione fiscale e gli enti previdenziali devono esprimere la loro adesione o il loro diniego alla proposta, potendo verificarsi in tal caso un conflitto non risolubile tra antinomiche determinazioni e non potendo peraltro ipotizzarsi di adire il tribunale per ottenere una pronuncia che sostituisca un atto non ancora compiuto e che potrebbe ancora compiersi. Inoltre, argomentando in senso contrario, si finirebbe per precludere ai creditori di presentare opposizione nei 30 giorni successivi all’iscrizione nel Registro delle imprese della domanda di omologa: non potendo, questa, certo predicarsi laddove venga chiesta l’omologa giudiziale di accordi carenti del presupposto del preventivo perfezionamento nel rispetto delle forme tipiche all’uopo stabilite dalla legge; e apparendo in ogni caso il residuo termine di 30 giorni insufficiente per effettuare una valutazione adeguatamente ponderata.
Detto altrimenti: poiché la domanda di omologazione forzosa può essere presentata solo in caso di “mancanza” dell’adesione dell’Amministrazione finanziaria o previdenziale, essa non può essere depositata (e, dunque, omologata forzosamente) se il suddetto termine di 90 giorni non è ancora spirato, non potendo l’accordo, sino a quel momento, essere ancora considerato “mancante”.
Resta fermo, secondo l’opinione prevalente (v. i riferimenti indicati nella nota precedente), che il diniego o l’accettazione della proposta pervenute prima della scadenza del termine di 90 giorni rendono del tutto superflua l’attesa del decorso integrale del suddetto termine, tenuto conto che la volontà dell’ente si è già formata prima della scadenza.
Diniego o accettazione, questa, che potrebbe avvenire pure in sede giudiziaria, ma purché prima della declaratoria di inammissibilità della domanda da parte del tribunale, apparendo condivisibile – in considerazione della ratio del termine in esame – la tesi (sostenuta, come visto, dal Tribunale di Reggio Calabria) che ritiene che rigetto della proposta da parte dell’ente impositore sani il vizio procedurale connesso al mancato decorso del termine di 90 giorni prima del deposito della domanda di omologazione.

7. Nell’ultima sentenza richiamata, il tribunale di Lucca tratta, come anticipato, il problema dell’utilizzabilità del cram down previsto dall’art. 88, comma 2-bis, c.c.i. (che, alle condizioni date, permette al tribunale di considerare positivo il voto negativo, espresso o no, dell’Agenzia delle Entrate – o secondo altra tesi [Trib. Como, 1° dicembre 2021, in Dejure.it] – di “sterilizzarlo” per addivenire all’omologazione della proposta concordataria anche in mancanza di adesione del creditore pubblico) per realizzare la condizione della ristrutturazione trasversale prevista dall’art. l12, comma 2, lett. d), c.c.i. (che attribuisce al tribunale il potere di omologare forzosamente il concordato in caso di dissenso di una o più classi quando, fra l’altro, «la proposta è approvata dalla maggioranza delle classi, purché almeno una sia formata da creditori titolari di diritti di prelazione, oppure, in mancanza, la proposta è approvata da almeno una classe di creditori che sarebbero almeno parzialmente soddisfatti rispettando la graduazione delle cause legittime di prelazione anche sul valore eccedente quello di liquidazione»; c.d. cross class cram down. Sul tema, per un quadro, cfr., ad esempio, Aliprandi F. – Turchi A., Il cross class cram down: dubbi interpretativi e prima soluzione giurisprudenziale, in Dirittodellacrisi.it, 3 maggio 2023, 1 ss.).
Sul punto, può preliminarmente osservarsi che il problema ruota attorno al significato da attribuire alla locuzione «fermo restando quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dall’articolo 112, comma 2, c.c.i.» contenuta nell’art. 88, comma 1, c.c.i.
Ad una ricognizione delle opinioni espresse dagli Autori che per primi si sono interrogati sul tema, emerge un certo contrasto interpretativo (che, probabilmente, la pronuncia del giudice toscano contribuirà ad accrescere).
Una parte della dottrina (Andreani G., Il cram down fiscale nel concordato, in Dirittodellacrisi.it, 18 maggio 2022, 1 ss.; Id., Il cram down fiscale nel concordato preventivo in continuità, cit., ove una specifica critica alla pronuncia del Tribunale di Lucca qui in esame) sostiene che, in caso di concordato in continuità aziendale, i requisiti previsti dall’art. 112 c.c.i. si aggiungono (e non si sostituiscono) a quelli di cui all’art. 88 c.c.i., seppur in termini differenti a seconda che il dissenso del Fisco sia o meno determinante ai fini dell’approvazione (o della mancata approvazione) della proposta di concordato.
In particolare, questa dottrina, valorizzando le finalità che hanno indotto il legislatore ad introdurre il meccanismo del cram down, attribuisce all’incipit dell’art. 88 c.c.i. lo scopo di affermare l’applicazione delle norme dell’art. 112, comma 2, c.c.i. in aggiunta a quelle dell’art. 88 c.c.i., che regolamentano la transazione fiscale. Ne deriva che, mentre, nel concordato liquidatorio, gli effetti previsti dall’art. 88 c.c.i. (falcidia e dilazione dei debiti fiscali) si producono secondo le regole generali dettati dal comma 2-bis dell’art. 88 c.c.i.; invece, nel concordato in continuità, detti effetti essi si generano soltanto se si verificano gli ulteriori presupposti previsti dall’art. 112, comma 2, c.c.i., con l’ulteriore conseguenza che, se la proposta di concordato in continuità non è stata approvata da tutte le classi ex art. 109, comma 5, terzo periodo, c.c.i., il voto favorevole dell’Amministrazione finanziaria non è di per sé sufficiente per l’omologazione, occorrendo anche il rispetto delle ulteriori condizioni poste dall’art. 112, comma 2, c.c.i., tra cui, in specie, quella che richiede la necessaria approvazione della proposta di concordato da parte della maggioranza delle classi.
In altre parole, secondo la tesi in esame: (i) in caso di mancato voto favorevole di tutte le classi a causa del dissenso non “determinante” del creditore pubblico (ed eventualmente di altri creditori), il tribunale omologa ugualmente (senza, cioè, applicare il meccanismo del cram down fiscale e previdenziale, non essendo l’adesione dell’Amministrazione finanziaria non è “determinante”) la proposta concordataria, se questa viene approvata dalla maggioranza delle classi e ricorrono gli altri presupposti richiesti dall’art. 112, comma 2, c.c.i.; invece, (ii) nell’ipotesi di mancato raggiungimento del voto favorevole da parte della maggioranza delle classi a causa del dissenso “determinante” del creditore pubblico, il tribunale omologa la proposta concordataria applicando il meccanismo del cram down fiscale e previdenziale previsto dagli artt. 88, comma 2-bis, e 112, comma 2, c.c.i., se ricorrono i presupposti richiesti specificatamente da dette disposizioni normative.
Altra parte della dottrina (Spiotta M., Evoluzione del diritto concorsuale e modello concordatario: unitarietà o pluralità?, in Il Fallimento, 2023, 7, 882) ritiene invece che la disciplina del cram down fiscale e previdenziale (art. 88, comma 2-bis, c.c.i.) valga soltanto per il concordato liquidatorio, essendo stata espunta dall’ambito di applicazione del concordato in continuità aziendale proprio dall’incipit dell’art. 88, comma 1, c.c.i.
Nella specie, secondo questa tesi, il meccanismo del cram down è incompatibile con quello delineato dall’art. 112, comma 2, lett. d), c.c.i., non apparendo contestualmente applicabile il cram down fiscale e previdenziale per raggiungere almeno una classe “votante” per il cross class cram down: consentire al conteggio del voto “forzoso” di assurgere a requisito per la ristrutturazione trasversale pare infatti una contraddizione in termini perché, mentre, il comma 2-bis dell’art. 88 c.c.i. richiede per il ribaltamento del voto il superamento del test di convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria; invece, la lett. d) dell’art. 112 c.c.i. esige proprio il voto di una classe pregiudicata. E ciò spiega – seguita questa tesi – proprio l’incipit dell’art. 88 c.c.i., che fa salvo quanto previsto dal capoverso dell’art. 112 c.c.i.
Ciò posto, è quest’ultima tesi che pare essere stata condivisa dal Tribunale di Lucca (il primo, a quanto consta, ad essersi pronunciato sul tema), che, come in parte anticipato, ritiene che, nel concordato preventivo in continuità aziendale, il cram down fiscale di cui all’art. 88, comma 2-bis, c.c.i. non può essere adoperato per realizzare le condizioni per l’applicazione dell’art. 112, comma 2, lett. d), c.c.i. in materia di ristrutturazione trasversale dei debiti, trovando, per contro, applicazione questo meccanismo solo nel concordato liquidatorio.
Invero, plurime sono le argomentazioni poste dal Tribunale alla base del suo ragionamento. La prima è di carattere storico, essendo il cram down fiscale e previdenziale stato pensato nell’ordinamento italiano in un contesto in cui non esisteva la regola della relative priority rule (c.d. RPR), ma solo quella della absolute priority rule (c.d. APR). La seconda è di carattere sistematico, posto che, anche negli accordi di ristrutturazione dei debiti, il cram down rileva solo quando l’adesione dei creditori pubblici è necessaria per raggiungere le maggioranze richieste dagli artt. 57, comma 1, e 60, comma 1, c.c.i., ma non anche per integrare le maggioranze dell’art. 61, comma 2, lett. c), c.c.i. in tema di accordi ad efficacia estesa. La terza ragione è di carattere logico, dato che la Direttiva Insolvency – nel dettare le condizioni per la ristrutturazione trasversale dei debiti – non fa mai riferimento alla possibilità di considerare un voto non espresso da un creditore o da una classe di creditori come un voto di adesione alla proposta per effetto di una fictio iuris, ma richiede che la proposta sia espressamente approvata.
Le ragioni espresse dal giudice toscano – come le argomentazioni rese dalla tesi che esclude l’applicabilità del cram down al concordato preventivo in continuità aziendale – possono essere condivise, se non l’altro, perché l’art. 88, comma 1, c.c.i. appare contenere una c.d. clausola di riserva che miri proprio ad escludere – facendola salva nella specifica sedes materiae – la disciplina del cram down fiscale e previdenziale nel concordato preventivo in continuità aziendale. Infatti, per quanto il punto sia – come v – al centro di un ampio dibattito interpretativo, a ben vedere, il “fermo restando” contenuto nella disposizione in esame non pare lasciare spazio a dubbi interpretativi circa la netta volontà del legislatore di circoscrivere la portata applicativa dell’istituto.
È da attendere per capire se la giurisprudenza italiana si assesterà nel solco tracciato dal Tribunale di Lucca o se, invece, avallando le critiche mosse alla pronuncia in esame da una parte della dottrina (Andreani G., Il cram down fiscale, cit., 3 ss.), invertirà la rotta e applicherà nel concordato preventivo in continuità aziendale anche le regole del cram down previste dall’art. 88 c.c.i.

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