La Corte di Giustizia UE sul “caso Airbnb” Italia: riflessioni in merito al (progressivo) coinvolgimento delle piattaforme digitali nell’alveo dei soggetti dell’obbligazione tributaria
Di Alessia Tomo
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Abstract
All’esito della recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea resa in merito al celebre caso “Airbnb Italia” (C-83/21) – e in attesa di leggere la posizione che assumerà il Consiglio di Stato, giudice a quo al quale è “ritornata” la vicenda – il presente contributo mira a condividere alcune riflessioni attinenti quello che può essere definito come un progressivo e costante coinvolgimento delle piattaforme digitali nell’alveo dei soggetti dell’obbligazione tributaria, da incaricati di (“meri”) obblighi informativi al riconoscimento del ruolo di sostituti o responsabili d’imposta, dunque sembrano sempre più vicine ad un possibile ruolo di “collaboratori” dell’Amministrazione finanziaria. L’obiettivo del presente lavoro è di valutare, anche alla luce delle considerazioni avanzate dell’Avvocato generale e dei Giudici di Lussemburgo, i principali pro e contro della misura legislativa italiana attinente il regime fiscale delle c.d. “locazioni brevi” e il suo impatto sui diritti fondamentali dei contribuenti e delle piattaforme coinvolte. La vicenda è di estremo e attuale interesse anche alla luce delle più recenti iniziative intraprese, all’esito della sentenza della CGUE, dall’Amministrazione finanziaria italiana e del timore che un simile trend possa condurre ad un rafforzamento di quello acutamente definito come “capitalismo della sorveglianza”.
The Court of Justice on the Italian “Airbnb case”. The (increasing) involvement of digital platforms within the subjects of tax obligations. – Following a recent judgment of the Court of Justice of the European Union in the well-known “Airbnb Italia” case (C-83/21), and while awaiting the decision of the Italian Council of State, this contribution aims to offer some considerations on what can be identified as a progressive and consistent involvement of digital platforms within the subjects of tax obligations. This involvement evolves from the imposition of reporting obligations to the involvement of platforms as withholder agents or joint liable persons. This development seems to position them as “collaborators” with the tax administration. The intention is to evaluate the key advantages and disadvantages of the Italian legislative measures related to the legal framework for so-called “short terms rental”, along with its repercussions on the fundamental rights of both taxpayers and the involved platforms. This subject is of utmost relevance and current importance, also given the recent actions taken by the Italian tax authorities in response to the CJEU ruling. Nevertheless, it exists a concern that this trend could potentially contribute to the reinforcement of what is noticeably been called as “surveillance capitalism”.
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. Crisi economico-finanziare e coinvolgimento delle piattaforme digitali: da obblighi informativi a responsabilità e sostituzione d’imposta. – 2. Il quadro normativo italiano: dalla proposta di legge sulla “sharing economy” alla normativa sulle “locazioni brevi”. – 2.1. Le criticità (già) sollevate dall’AGCM. – 3. Il caso Airbnb italiano. – 3.1. La posizione dell’Avvocato generale e della Corte di Giustizia: considerazioni generali. – 3.2. Sugli obblighi informativi. Possibili rischi per la tutela dei diritti economici delle piattaforme e dei dati personali dei contribuenti. – 3.3. Sull’obbligo di operare una ritenuta alla fonte in qualità di sostituti d’imposta. – 3.4. Sull’obbligo di nominare un rappresentante fiscale residente in Italia: incompatibilità con l’art. 56 TFUE. – 4. Possibili ripercussioni sulla disciplina dell’imposta di soggiorno. – 5. Considerazioni conclusive e questioni aperte. Tra luci (poche, per i contribuenti) e ombre (molte, per le piattaforme), la parola torna al Consiglio di Stato.
1. La digitalizzazione e globalizzazione dell’economia consentite dalla diffusione del web hanno notoriamente reso possibile l’affermarsi di nuove forme di business, tra le quali un ruolo da protagonista è rivestito dalle piattaforme della sharing economy (per una definizione si veda la Comunicazione della Commissione UE COM(2016) 356 final – A European agenda for the collaborative economy, Brussels, 2 giugno 2016), la cui diffusione ha spesso beneficiato della relativa interconnessione con i social networks. Questo processo evolutivo ha conosciuto un (inizialmente lento, ma poi) sostanziale incremento proprio durante gli anni nei quali i noti scandali finanziari sono stati oggetto di notizie di cronaca internazionale (si pensi al caso dei Panama papers e della Lista Falciani) insieme alla profonda crisi di matrice economico-finanziaria che, iniziata negli Stati Uniti nel 2008, ha, come noto, suscitato rilevanti ripercussioni in Europa. Sulla scia delle iniziative intraprese in sede internazionale (in particolare in sede OCSE con l’adozione del noto progetto BEPS) gli ordinamenti giuridici nazionali ed europeo hanno, da una parte, mirato ad incrementare le misure legislative volte a garantire una maggiore trasparenza dei rapporti tra contribuenti e Amministrazioni finanziarie; dall’altra hanno provveduto all’adozione di politiche di “austerity” che hanno determinato «una contrazione della spesa pubblica e […] un aumento del prelievo fiscale» (Bilancia P., Il governo dell’economia tra Stati e processi di integrazione europea, in Rivista AIC, 2014, 3, 2). Tutte queste misure erano, e sono tutt’oggi, chiaramente volte a condurre una più pervasiva, efficace ed efficiente attività di contrasto all’evasione fiscale altresì al fine di garantire una giustizia fiscale volta ad assicurare che anche la ricchezza prodotta nel mondo dell’economia “virtuale” contribuisca al perseguimento delle finalità redistributive proprie degli ordinamenti democratici.
In particolare, misure recentemente adottate anche in ambito nazionale italiano, sulla scorta delle spinte internazionali ed europee, lasciano assistere ad un progressivo coinvolgimento delle piattaforme della sharing economy, alle quali, da una parte, vengono imposti obblighi informativi, dall’altra, le stesse vengono – latamente – “attirate” nell’alveo dei soggetti dell’obbligazione tributaria. Ciò in quanto, quando – come accade nella maggior parte dei casi – il pagamento avviene, digitalmente, per il tramite della piattaforma, quest’ultima si troverà nella peculiare situazione di rivestire il ruolo di “debitore” del prestatore del servizio (a sua volta utente, rectius “prosumer”), dunque contribuente/soggetto passivo. Questa circostanza consente, con espresso riferimento allo specifico ambito dell’imposizione diretta, di “riprendere” il noto schema della sostituzione d’imposta, istituto positivizzato dai legislatori nazionali e, in particolare, dal legislatore italiano già in occasione delle grandi riforme degli anni ’70, congiuntamente all’avvento della c.d. fiscalità di massa. Tale meccanismo – unitamente alla nascita della figura del responsabile d’imposta – era, almeno nella sua originaria concezione, volto al perseguimento di finalità solidaristiche e “collaborative” che, inaugurate nel nostro Paese già in epoca liberale, avevano poi trovato riconoscimento normativo sulla scia delle idee di Ezio Vanoni, consapevole «che, in un ordinamento fiscale di massa, solo la collaborazione tra la parte pubblica e la parte privata poteva conseguire risultati accettabili di efficienza» (Marongiu G., Ezio Vanoni Ministro delle Finanze, in Riv. dir. fin. sc. fin., 3, 2016, 350). Da qui la necessità di far ricadere il versamento dell’imposta – o di parte di essa – su qualcuno che, in quanto diverso dal soggetto passivo, non abbia interesse ad evadere e abbia – rispettivamente in caso di sostituzione o responsabilità – un obbligo o diritto di rivalsa sul soggetto passivo.
Tanto premesso il presente contributo mira a condividere alcune riflessioni attinenti quello che può essere definito come un progressivo e costante incremento del coinvolgimento delle piattaforme digitali tra i soggetti dell’obbligazione tributaria; in particolare riflessioni derivanti dalla rilevante sentenza della Corte di Giustizia resa in merito al celebre caso “Airbnb Italia”.
In attesa di leggere la posizione che assumerà il Consiglio di Stato al quale, in qualità di giudice a quo è “tornato” il caso, la vicenda è di estremo ed attuale interesse sia alla luce delle più recenti iniziative intraprese, all’esito della sentenza della CGUE, dall’Amministrazione finanziaria italiana, nonché della contemporanea e rapida evoluzione del quadro normativo europeo, ove intanto è stata adottata la c.d. DAC7 (Council Directive EU 2021/514 of 22 Mar. 2021 amending Directive 2011/16/EU on administrative cooperation in the field of taxation) ed è attualmente pendente una Proposta di Regolamento on data collection and sharing relating to short-term accommodation rental services (COM[2022] 571 final – Brussels, 7 novembre 2022).
Tanto premesso, l’obiettivo del presente lavoro è di valutare, anche alla luce delle considerazioni dei Giudici europei, i principali pro e contro della misura legislativa italiana e il suo impatto sui diritti fondamentali dei contribuenti e delle piattaforme coinvolte. A tal fine, il presente contributo, nel secondo paragrafo, ripercorre brevemente le vicende attinenti all’evoluzione normativa nazionale adottata sulla spinta delle esigenze di trasparenza derivanti dall’ordinamento europeo, che è alla base della vicenda in esame. Prosegue nel terzo paragrafo con una più dettagliata analisi del caso Airbnb, alla luce delle posizioni assunte dall’Avvocato generale e dalla Corte di Giustizia, anche al fine di riflettere, nel successivo paragrafo, sui possibili scenari prospettabili all’esito di tale decisione anche sulla disciplina dell’imposta di soggiorno (non specificamente oggetto della pronuncia in esame) e rassegnare alcune considerazioni conclusive, volte ad evidenziare le (poche) luci e (molte) ombre della normativa italiana e della (solo) parzialmente condivisibile decisione dei Giudici europei.
2. La citata Comunicazione del 2016 della Commissione UE in tema di sharing economy già prevedeva, in tema di fiscalità, la necessità di provvedere ad un adattamento ai nuovi modelli imprenditoriali, rilevando, in tale ambito, l’emersione di problemi riguardanti «l’adempimento degli obblighi fiscali e la loro applicazione» ed auspicava che gli Stati membri mirassero «a obblighi proporzionati e a condizioni di parità, e applicare obblighi fiscali funzionalmente analoghi alle imprese che forniscono servizi comparabili». L’obiettivo chiaramente individuato dalla Commissione non era dunque quello di ostacolare tali forme imprenditoriali mediante l’introduzione di nuove o l’adeguamento di preesistenti regole fiscali, quanto piuttosto di «sbloccare il potenziale dell’economia collaborativa».
Tuttavia, la medesima Comunicazione evidenziava già come la sharing economy avesse, in realtà, anche «creato nuove opportunità per offrire aiuto alle autorità fiscali e ai contribuenti in materia di obblighi fiscali, in particolare grazie alla maggiore tracciabilità consentita dall’intermediazione delle piattaforme online. In alcuni Stati membri è già prassi concludere accordi con le piattaforme per la riscossione delle imposte».
L’obiettivo che asseritamente la Commissione dichiarava di voler perseguire era quello di «aiutare i contribuenti ad adempiere i loro obblighi fiscali in maniera efficace e con il minimo sforzo» e di ridurre «gli oneri amministrativi dei privati e delle imprese senza operare discriminazioni tra i modelli imprenditoriali».
La Commissione, nel documento di lavoro allegato a tale Comunicazione, analizzava diverse iniziative già intraprese in tal senso dagli ordinamenti nazionali, quali, a titolo esemplificativo, gli obblighi informativi incombenti in capo alle piattaforme nel Regno Unito e Irlanda o il compito di riscuotere l’imposta di soggiorno in Francia e nella città di Amsterdam.
Per quanto attiene l’Italia, la Commissione menzionava la proposta di legge sulla sharing economy (A.C. 3564) all’epoca pendente e che, tuttavia – ad oggi – non ha ancora visto la luce. Si trattava, in particolare, della proposta di legge di iniziativa parlamentare “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” presentata il 27 gennaio 2016. L’articolo 1 di tale proposta prevedeva espressamente, al fine di promuovere l’economia della condivisione, «misure relative alla gestione e all’utilizzo delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e di servizi che operano su mercati a due versanti» e «strumenti atti a garantire la trasparenza, l’equità fiscale, la leale concorrenza e la tutela dei consumatori». In particolare, l’articolo 5 di tale proposta, rubricato “Fiscalità”, prevedeva l’applicazione di un’impostazione “flessibile e diversificata” tra coloro che svolgono, per il tramite delle piattaforme digitali, una attività non professionale, il cui reddito integra un proprio eventuale reddito da lavoro, e coloro che invece svolgono tale attività a livello professionale o imprenditoriale. Tale discrimen veniva realizzato mediante l’individuazione di una soglia di 10.000 euro. Il successivo comma 2 del medesimo articolo 5 attribuiva ai gestori delle piattaforme di sharing economy il ruolo di sostituti d’imposta per i redditi generati dagli utenti operatori, con l’obbligo di applicare un’aliquota del 10% sulle transazioni. Eventuali piattaforme aventi sede o residenza all’estero avrebbero dovuto, a tal fine, dotarsi di una stabile organizzazione in Italia.
Tale proposta normativa, come anticipato, non è mai stata approvata e, nel frattempo, ci sono anche stati più cambi di governo.
Nel frattempo, anche sulla scia di quanto sperimentato in altri menzionati ordinamenti europei, il legislatore italiano è intervenuto con una normativa ad hoc attinente i profili fiscali dell’attività di intermediazione – sempre più svolta dalle piattaforme digitali – relative all’offerta di servizi di prenotazione di pernottamenti. Ciò anche al fine di regolamentare nel dettaglio un settore caratterizzato, come emerso dalla relazione tecnica, da un elevato grado di evasione. Del resto, come condivisibilmente evidenziato in dottrina, proprio il «business degli affitti brevi si è sviluppato allontanandosi rapidamente dallo schema iniziale della condivisione privata e altruistica, per trasformarsi in una vera e propria attività a scopi lucrativi» (Dorigo S., Sharing economy e imposta sui servizi digitali: le piattaforme per affitti brevi, in Corr. trib., 2020, 6, 607).
Il riferimento è al noto caso della disciplina fiscale sulle “locazioni brevi” di cui all’art. 4 D.L. 24 aprile 2017, n. 50, convertito in L. 21 giugno 2017, n. 96. Tale disposizione ha inciso sul regime fiscale da applicare ai canoni di locazione derivanti da tali tipologie di contratti e ha introdotto in capo agli intermediari – con peculiare riferimento alle piattaforme digitali – obblighi di comunicazione dei dati e, in determinati casi, di sostituzione o responsabilità di imposta. Ciò sia in merito all’imposizione sui redditi che all’imposta di soggiorno.
Dopo aver identificato, al primo comma cosa debba intendersi per “locazioni brevi” («i contratti di locazione di immobili ad uso abitativo di durata non superiore a 30 giorni […] stipulati da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, direttamente o tramite soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, ovvero soggetti che gestiscono portali telematici, mettendo in contatto persone in cerca di un immobile con persone che dispongono di unità immobiliari da locare»), la disposizione introduce in capo agli intermediari tre tipologie di obbligazioni, attinenti a obblighi informativi, obblighi di sostituzione e responsabilità d’imposta, in merito all’imposizione diretta relativa ai canoni di locazione e all’imposta di soggiorno.
Più in dettaglio, per quanto attiene gli obblighi informativi, la normativa ha previsto che gli intermediari siano tenuti alla trasmissione, entro il 30 giugno dell’anno successivo, dei dati relativi ai contratti conclusi per il loro tramite, a pena di incorrere nelle sanzioni amministrative di cui all’art. 11, comma 1, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
In tema di imposte sui redditi, la novella legislativa ha stabilito che gli intermediari che incassano i canoni o i corrispettivi ovvero che intervengono nel pagamento di tali canoni o corrispettivi, ove residenti nel territorio dello Stato, devono operare, in qualità di sostituti d’imposta, una ritenuta del 21% sull’ammontare dei canoni e corrispettivi e provvedere al relativo versamento. Tale ritenuta è idonea a coprire l’intero ammontare dell’imposta dovuta, nel caso in cui sia stata esercitata l’opzione per il regime sostitutivo della c.d. “cedolare secca”, di cui all’art. 3 D.Lgs. n. 23/2011. In caso contrario, tale ritenuta del 21% si considera operata a titolo di acconto.
Parimenti, ove gli intermediari che incassano i canoni o i corrispettivi ovvero che intervengono nel pagamento di tali canoni o corrispettivi non siano residenti, ma abbiano una stabile organizzazione in Italia, provvedono per il tramite di quest’ultima ad operare la medesima ritenuta, sempre in qualità di sostituti d’imposta. Diversamente, ove tali intermediari non siano residenti né abbiano una stabile organizzazione nel territorio italiano, sono tenuti, in qualità di responsabile d’imposta, a nominare un rappresentante fiscale che sarà tenuto ai medesimi obblighi.
In tema di imposta di soggiorno di cui all’art. 4 D.Lgs. n. 23/2011 (e di contributo di soggiorno relativo alla città di Roma, ex art. 14, comma 16, D.L. n. 78/2010) la novella del 2017 ha previsto che tali intermediari, sempre nel caso in cui incassino i canoni o i corrispettivi o intervengano nel pagamento di tali canoni o corrispettivi, rivestano il ruolo di responsabili d’imposta, alla stregua di quanto accade per i vettori nell’ambito della disciplina del contributo di sbarco, e, oggi – all’esito della (opinabile) successiva novella di cui al D.L. n. 34/2020 – per i gestori delle strutture ricettive (in merito si veda infra). Conseguentemente, hanno diritto di rivalsa sui turisti/soggetti passivi, e sono altresì responsabili della presentazione della dichiarazione e degli ulteriori adempimenti previsti dalla legge e dai singoli regolamenti comunali.
Tale regime fiscale è stato ulteriormente novellato nel 2019 (D.L. n. 34/2019, convertito in L. 58/2019). Tale novella ha previsto che in caso di mancata nomina del rappresentante fiscale, ove ci siano soggetti residenti in Italia appartenenti allo stesso gruppo degli intermediari non residenti e non stabiliti, questi saranno responsabili in solido per l’effettuazione e il versamento della ritenuta di cui alla normativa in esame.
In aggiunta, la medesima novella del 2019 ha previsto l’istituzione di una banca dati nazionale delle strutture ricettive e degli immobili destinati alle locazioni brevi, mediante l’attribuzione di un “codice identificativo”, alfanumerico.
2.1. Si osserva, seppur brevemente, che la novella legislativa in questione ha destato numerose critiche da parte degli intermediari, e soprattutto da parte delle piattaforme coinvolte, in particolare in merito alle difficoltà applicative, organizzative e ai costi da sostenere al fine di risultare compliant con le obbligazioni imposte dal regime fiscale introdotto nel 2017. E difatti appare rilevante ricordare che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) depositava – nell’ambito dei poteri di cui all’art. 21 L. n. 287/1990 – alla Camera dei deputati, in data 24 novembre 2017, una segnalazione (destinata ai Presidenti delle Camere, al MEF e al Direttore dell’Agenzia delle Entrate) al fine di svolgere delle considerazioni relative al potenziale impatto restrittivo della concorrenza derivanti dalla normativa in esame e, pertanto, lamentando la dubbia proporzionalità delle misure ivi previste. L’Authority rilevava che tale normativa era «potenzialmente idonea ad alterare le dinamiche concorrenziali tra i diversi operatori, con possibili ricadute negative sui consumatori finali dei servizi di locazione breve», in virtù del riconoscimento della solidarietà d’imposta in capo agli intermediari residenti o aventi stabile organizzazione in Italia, ovvero dell’obbligo di nominare un rappresentante fiscale. In particolare, nel documento si legge che, pur nella consapevolezza che la disposizione miri al perseguimento di un interesse pubblico, quale è quello di contrasto al fenomeno dell’evasione fiscale, «l’introduzione dei suddetti obblighi non appare proporzionata rispetto al perseguimento di tali finalità, in quanto si ritiene che le stesse potrebbero essere perseguite altrettanto efficacemente con strumenti che non diano al contempo luogo a possibili distorsioni concorrenziali nell’ambito interessato».
Suggerendo, come possibile alternativa “meno onerosa” che la disciplina in esame «potrebbe limitarsi a prevedere […] ad esempio la vigente previsione di un obbligo fiscale di carattere informativo in capo agli intermediari e ai gestori di piattaforme immobiliari telematiche». Quest’obbligazione (oggi, del resto, prevista in via generalizzata per le piattaforme della sharing economy dalla c.d. DAC7) veniva individuata dall’AGCM «anche alla luce dei chiarimenti resi dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 24 del 12 ottobre 20l7» come proporzionata «nella misura in cui non altera il confronto concorrenziale tra gli operatori del settore e non presenta alcuna incidenza sulla scelta di mettere a disposizione dei consumatori forme di pagamento digitale. Inoltre, tale obbligo informativo appare consentire al Fisco di disporre del set informativo necessario a svolgere le eventuali verifiche sui redditi derivanti dai contratti di locazione breve che ricadono nella normativa in esame».
L’Autority, infine, rilevava che questa disposizione avrebbe potuto disincentivare il ricorso alla possibilità di pagamento per il tramite della piattaforma. Questo avrebbe potuto – e potrebbe – tradursi nel rischio di fronteggiare sia una minor tracciabilità dei pagamenti, ma anche di generare possibili rischi finanziari per locatari e conduttori. Conseguentemente, l’AGCM ha rilevato che «il potenziale minor ricorso delle piattaforme telematiche a forme digitali di pagamento, nell’ambito delle locazioni brevi, potrebbe penalizzare i consumatori finali, conducendo a una minore ampiezza e varietà dell’offerta, nonché avere un possibile impatto negativo sulla domanda stessa – non più supportata da garanzie commerciali connesse all’utilizzo degli strumenti di pagamento digitali – alterando in ultima istanza le condizioniconcorrenziali attualmente esistenti nell’intero segmento dell’offerta turistica delle strutture ricettive, tradizionali e non».
Il legislatore italiano non ha dato seguito alle menzionate segnalazioni e, non è dunque un caso se questa posizione assunta dall’AGCM abbia ispirato anche la piattaforma Airbnb nell’istruire il giudizio in esame, di cui ai successivi paragrafi.
3. Come anticipato, il presente contributo prende dunque le mosse dalla – ormai nota – sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (innanzi GCUE), resa in data 21 dicembre 2022 (C-83/21), e dalle relative conclusioni rassegnate dall’Avvocato generale Szpunar in data 7 luglio 2022.
La vicenda trae origine dalla impugnazione ad opera di Airbnb Ireland UC plc e Airbnb Payments UK Ltd (innanzi Airbnb) della normativa in esame, unitamente ai connessi provvedimenti adottati dall’Agenzia delle Entrate (in particolare, il provvedimento dell’Agenzia delle Entrate 12 luglio 2017, prot. n. 132395 che ha dato attuazione al regime fiscale per le locazioni brevi e, con ricorso per motivi aggiunti, la successiva circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate 12 ottobre 2017, n. 24/E) dinanzi al TAR Lazio per asserito contrasto con la Direttiva 1535/2015 (ritenendo che le obbligazioni di cui a tale normativa costituiscano una “regola tecnica” od una “regola relativa ai servizi”, ai sensi e per gli effetti dell’obbligo di preventiva notifica alla Commissione europea), con l’art. 56 TFUE (in tema di libera prestazione di servizi) e del Regolamento UE 2016/679 (in tema di protezione di dati personali, innanzi GDPR).
Il Tribunale amministrativo rigettava il ricorso, ritenendo che le obbligazioni di cui alla normativa sulle locazioni brevi non costituissero una “regola tecnica” o una “regola relativa ai servizi”, ai sensi dalla Direttiva 1535/2015/UE e, conseguentemente, non sussistesse alcun obbligo di preventiva notifica della misura alla Commissione europea. Nel merito degli obblighi di cui alla normativa in esame, il TAR affermava che né gli obblighi informativi, né tantomeno quelli di natura fiscale violassero il principio di libera prestazione di servizi di cui all’art. 56 TFUE. Parimenti il Tribunale amministrativo riteneva che l’obbligazione relativa alla nomina di un rappresentante fiscale per i soggetti non residenti né stabiliti, pur costituendo una misura potenzialmente discriminatoria e dunque lesiva della libera prestazione dei servizi, può essere idonea a giustificare una misura restrittiva della libera prestazione di servizi, ove proporzionata e necessaria, alla luce di consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, in quanto misura volta a perseguire la lotta all’evasione fiscale (CGUE, 11 marzo 2004, C- 9/02, De Lasteyrie du Saillant e 7 settembre 2006, C-470/04, van deBelastingdienst). Riteneva, pertanto, non sussistente alcun motivo per rimettere la questione alla Corte di Giustizia. In merito all’imposta di soggiorno, ad avviso del TAR, la doglianza non era ammissibile per carenza di interesse, in quanto tale misura non era stata (opinabilmente) oggetto del provvedimento amministrativo impugnato. In aggiunta, il TAR riteneva la novella non in contrasto con gli artt. 3, 41 e 117 della Costituzione, né ravvisava alcun contrasto con la disciplina in tema di protezione dei dati personali. In merito alla Circolare interpretativa n. 24/E/2017, impugnata con motivi aggiunti dalle ricorrenti, il TAR riteneva che «la circolare con la quale l’Agenzia delle entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente (oltre che per gli uffici, per la stessa autorità che l’ha emanata e per il giudice)».
Le ricorrenti impugnavano tale sentenza dinanzi al Consiglio di Stato il quale riteneva che la «complessa controversia […] impone di individuare l’esatta interpretazione da riconoscere al diritto euro-unitario» e affermava che «l’esegesi delle disposizioni nazionali e, soprattutto, euro-unitarie propugnata da parte ricorrente, secondo cui vi è un insanabile contrasto delle prime con le seconde, non è invero l’unica che può trarsi dal complesso normativo rilevante ai fini di causa: la contrapposta esegesi coltivata dal T.a.r. e condivisa dalle odierne parti resistenti, invero, non presenta chiari tratti di patente irragionevolezza». Tale considerazione ha costituito condizione sufficiente per rendere necessario rinviare alla Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE, sia «in considerazione del monopolio interpretativo del diritto euro-unitario che i Trattati assegnano alla Corte di Giustizia», ma anche «della natura di Giudice di ultima istanza rivestita dal Consiglio di Stato», che «è di regola tenuto a disporre la rimessione alla Corte».
Pertanto, con ordinanza dell’11 luglio 2019, il Consiglio di Stato sottoponeva alla Corte di Giustizia tre questioni pregiudiziali. Con successiva ordinanza del 30 giugno 2020 (C-723/19, non pubblicata, EU:C:2020:509), la CGUE ha dichiarato manifestamente irricevibile tale domanda di pronuncia pregiudiziale.
Di conseguenza, il Consiglio di Stato ha nuovamente sospeso il procedimento in corso e ha sottoposto ai Giudici euro-unitari le seguenti questioni pregiudiziali, richiedendo, principalmente – ai fini dell’analisi di cui al presente contributo – quale sia «l’esegesi delle espressioni “regola tecnica” dei servizi della società dell’informazione e “regola relativa ai servizi” della società dell’informazione, di cui alla direttiva 2015/1535[…], e, in particolare, […] se tali espressioni debbano interpretarsi come comprensive anche di misure di carattere tributario non direttamente volte a regolamentare lo specifico servizio della società dell’informazione»; e, con specifico riferimento al principio di libera prestazione di servizi di cui all’art. 56 TFUE se tale principio osti: a) «ad una misura nazionale che preveda, a carico degli intermediari immobiliari attivi in Italia – ivi inclusi, dunque, gli operatori non stabiliti che prestino i propri servizi online – obblighi di raccolta dei dati inerenti ai contratti di locazione breve conclusi loro tramite e successiva comunicazione all’Amministrazione finanziaria, per le finalità relative alla riscossione delle imposte dirette dovute dai fruitori del servizio»; b) «ad una misura nazionale che preveda, a carico degli intermediari immobiliari attivi in Italia – ivi inclusi, dunque, gli operatori non stabiliti che prestino i propri servizi online – che intervengano nella fase del pagamento dei contratti di locazione breve stipulati loro tramite, l’obbligo di operare, per le finalità relative alla riscossione delle imposte dirette dovute dai fruitori del servizio, una ritenuta su tali pagamenti con successivo versamento all’Erario»; c) in caso di risposta positiva, se tale principio possa essere comunque limitato in maniera conforme al diritto dell’Unione; d) se tale principio possa essere limitato «da una misura nazionale che imponga, a carico degli intermediari immobiliari non stabiliti in Italia, l’obbligo di nominare un rappresentante fiscale tenuto ad adempiere, in nome e per conto dell’intermediario non stabilito» agli obblighi imposti dalla normativa nazionale.
3.1. Emblematicamente l’Avvocato generale ha introdotto le sue Conclusioni ricordando che le piattaforme digitali hanno, in qualità di servizi della società dell’informazione, reso possibile anche per i privati che non esercitano attività economiche professionalmente, l’offerta di servizi ai consumatori. Accanto ai benefici che ne possono derivare, le piattaforme hanno tuttavia anche «contribuito ad aggravare molti problemi sociali, politici, amministrativi e giuridici». Pertanto, quasi a voler enfatizzare che la normativa in esame possa (opinabilmente) porsi come “contropartita” o forma di “compensazione”, l’Avvocato generale evidenzia la necessità di «stabilire in quale misura le piattaforme online debbano parimenti contribuire a risolvere i problemi connessi al loro funzionamento», tenendo conto della loro naturale tensione ad offrire servizi “transfrontalieri”.
Nell’analizzare la vicenda, l’Avvocato generale si è dichiarato “sensibile” ad un aspetto particolare della vicenda. In particolare, ha evidenziato che la Federalberghi – comprensibilmente costituitasi contro la piattaforma – ha rilevato che la normativa in questione ha ad oggetto il regime fiscale delle locazioni brevi, caratterizzate da una elevata percentuale di “sommerso”, e che le misure adottate dal legislatore italiano si presentano come tecnologicamente neutre, in quanto impongono i medesimi obblighi a intermediari operanti nel mondo reale e alle piattaforme digitali. Tuttavia, di contro, l’Avvocato, in linea con quanto sostenuto da Airbnb, ha rilevato che tale regime appare proprio «concepito specificamente per le locazioni concluse attraverso piattaforme online». Dunque, ha osservato che la vicenda «non riguarda […] la mera applicazione ai servizi della società dell’informazione di norme preesistenti applicabili ai prestatori che operano offline, bensì l’introduzione di norme il cui scopo è quello di risolvere problemi sorti specificamente nell’ambiente di internet e che sono quindi specificamente rivolte ai prestatori di servizi online». Pertanto, ha ritenuto che «gli obblighi imposti agli intermediari dal regime fiscale controverso riguardino specificamente i servizi della società dell’informazione, conclusione che non può essere modificata dal solo fatto che la formulazione delle disposizioni nazionali in discussione sia neutra da un punto di vista tecnologico».
Tale considerazione deve, a parer di chi scrive, ritenersi pienamente condivisibile. Difatti, sebbene non enfatizzato dall’Avvocato generale, appare necessario ricordare che (come evidenziato nel precedente paragrafo 2) la disposizione normativa in esame è stata adottata (peraltro, opinabilmente, tramite la “corsia preferenziale” offerta decretazione d’urgenza) nelle more dell’adozione di una più “generale” legge nazionale sulla sharing economy (e suoi profili fiscali).
Nel merito della vicenda, dopo aver preliminarmente evidenziato le motivazioni per le quali ritenere che, chiaramente, gli obblighi di cui alla disposizione contestata rientrano nel settore tributario e sono dunque disposizioni fiscali ai sensi dell’art. 114 TFUE, la Corte, anche in linea con quanto argomentato dall’Avvocato generale, ha negato che tali obblighi possano costituire una “regola tecnica” o una “regola relativa ai servizi”, escludendo dunque l’applicabilità delle Direttive 2000/31, 2006/123 e 2015/1535. Conseguentemente, la pronuncia ha principalmente avuto ad oggetto – per quanto rileva anche ai fini delle riflessioni di cui al presente contributo – l’esame della compatibilità di tali misure con il divieto di imporre limitazioni alla libera prestazione di servizi di cui all’art. 56 TFUE. Difatti la Corte ricorda in merito che «il rispetto dell’art. 56 si impone agli Stati membri nonostante quest’ultimo riguardi le imposte dirette. […] sebbene la materia delle imposte dirette rientri nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono esercitarla nel rispetto del diritto dell’Unione».
3.2. In merito all’obbligo di raccogliere e comunicare all’Amministrazione finanziaria le informazioni relative ai contratti conclusi per il proprio tramite, tanto l’Avvocato generale quanto la CGUE, richiamando anche quanto stabilito nel precedente caso Airbnb Ireland contro il Belgio (C-674/20, sentenza 27 aprile 2022, ECLI:EU:2022:303) hanno ritenuto di non ravvisare alcuna violazione dell’art. 56 TFUE.
In particolare, la Corte, sulla scorta del fatto che la normativa sia applicabile a tutti gli intermediari operanti nel settore, evidenzia che non sia ravvisabile alcun contrasto in quanto gli «eventuali effetti restrittivi sulla libera prestazione dei servizi sono troppo aleatori e troppo indiretti perché l’obbligo da essa sancito possa considerarsi idoneo a ostacolare tale libertà». Inoltre, i Giudici europei, pur ammettendo che tale obbligo possa causare «costi supplementari» per gli intermediari, rileva come, soprattutto per le piattaforme digitali «i dati in parola sono memorizzati e digitalizzati» in ogni caso e, pertanto, «il costo supplementare che suddetto obbligo causa ad intermediari siffatti appare ridotto».
Del resto, a parer di chi scrive, sul punto appare difficile immaginare che l’Avvocato e i Giudici europei potessero giungere ad una diversa conclusione, in considerazione del fatto che, intanto, il Legislatore europeo, per perseguire le richiamate finalità di trasparenza e condurre una più efficace attività di contrasto all’evasione fiscale, ha recentemente adottato, anche sulla scorta delle spinte derivanti dal panorama internazionale, la c.d. DAC7, proprio volta a “generalizzare” obblighi informativi in capo alle piattaforme digitali operanti nel mondo della sharing economy. Ed ancora, anche alla luce della più recente proposta di Regolamento UE “on data collection and sharing relating to short-term accommodation rental services”, volta ad armonizzare e semplificare il quadro di riferimento per la condivisione dei dati specificamente nell’ambito dei servizi di locazioni brevi in tutto il territorio dell’UE.
A parer di chi scrive, sul punto, potrebbero sollevarsi, seppur brevemente, diverse obiezioni, in tema di proporzionalità della misura, emergenti anche dalle parole stesse utilizzate dalla Corte. Come quantificare, giuridicamente, l’“idoneità” di un “costo” che «appare ridotto»? Sul punto si concorda con chi ha rilevato che, se questo può essere vero per le piattaforme di più ampie dimensioni, come Airbnb, viceversa, potrebbe non essere altrettanto vero per le piattaforme di minori dimensioni, arrivando persino ad inibire il loro ingresso nel mercato (così Vasquez J.M., Airbnb (C-83/21). Compatibility of the Italian tax regime for short-term property rentals with EU law, in Highlights & Insights on EuropeanTaxation, Issue 4, 2023). Inoltre, la circostanza che la normativa non prevede alcun tipo di compenso per l’attività svolta sembrerebbe di per sé idonea ad impattare negativamente sui diritti economici delle piattaforme. Una simile problematica, del resto, è già stata posta all’attenzione dei Giudici europei nel (parzialmente simile) caso SS SIA (C-175/2020, sentenza 24 febbraio 2022, ECLI:EU:C:2022:124). Lì, sebbene la Corte non si sia pronunciata su questo specifico aspetto, l’Avvocato generale Bobek aveva evidenziato che la “vera” motivazione alla base dell’interesse della ricorrente all’attivazione della controversa in esame «potrebbe essere legato ai costi di un tale impegno. Si dovrebbe forse consentire alle autorità pubbliche di esternalizzare effettivamente parte dell’attività della pubblica amministrazione, costringendo le imprese private a sostenere i costi per l’esercizio di quella che essenzialmente è una funzione pubblica? La questione diventa significativa nei casi di trasferimenti di dati permanenti e su larga scala che si suppone siano effettuati da imprese private per il bene comune senza alcun indennizzo» (per un approfondimento sia in merito consentito rinviare alle osservazioni svolte in Tomo A., La “forza centripeta” del diritto alla protezione dei dati personali: la Corte di giustizia sulla rilevanza in ambito tributario dei principi di proporzionalità, accountability e minimizzazione, in Dir. prat. trib. int., 2022, 2, 908 ss. e relativi riferimenti bibliografici).
Inoltre, sempre a parer di chi scrive, potrebbe evidenziarsi che, in realtà, i dati richiesti dall’Amministrazione finanziaria con la norma in questione (nonché, a breve, in virtù della citata DAC7) potrebbero riguardare anche informazioni aggiuntive e dati (anche personali) normalmente non raccolti dalle piattaforme, quali il codice fiscale dell’utente, dal quale notoriamente è facile risalire a luogo e data di nascita. Una simile circostanza potrebbe condurre a due conseguenze negative: da una parte, potrebbe avere possibili ricadute negative anche sui principi che regolano il trattamento dei dati personali, con particolare riferimento al principio di minimizzazione di cui all’art. 5, par. 1, lett. c) del GDPR; dall’altra, simili obblighi informativi potrebbero condurre ad un ulteriore “aggravio” di quello che è stato acutamente definito come “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff S., The Age of Surveillance Capitalism: The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, 2019), paradossalmente autorizzando le piattaforme – chiamate ad operare quali “collaboratori” dell’Amministrazione finanziaria – alla raccolta, conservazione e trasmissione di una crescente quantità di dati, anche personali, degli utenti (per una più approfondita riflessione in merito a tale aspetto sia consentito rinviare a Tomo A., Tax Information, Third Parties and GDPR: Legal Challenges and Hints from the Court Of Justice, in EC Tax Review, 2023, 4, 152 ss.).
3.3. In merito all’obbligo di operare una ritenuta alla fonte in qualità di sostituti d’imposta, sia l’Avvocato generale che la CGUE, richiamando la medesima sentenza Airbnb/Belgio, hanno ritenuto che l’art. 56 TFUE non osta, in quanto non rientrano nell’ambito di applicazione di tale divieto misure il cui “unico effetto” sia quello di causare “costi supplementari” per la prestazione di un servizio. Ad ogni modo l’Avvocato generale ha evidenziato che è in parte condivisibile quanto rilevato da Airbnb in merito alla responsabilità finanziaria connessa ad un simile obbligo. In particolare, la piattaforma aveva evidenziato che gli «obblighi ad essa incombenti […] derivano dall’applicazione delle imposte non già alla propria attività, bensì a quella dei suoi clienti locatori», lamentando che la misura contestata realizzi una discriminazione indiretta derivante dal fatto che “la quasi totalità” delle piattaforme digitali che operano in Italia, con peculiare riferimento a quelle per il tramite delle quali è possibile effettuare il pagamento – e che devono dunque operare la ritenuta – sono residenti o stabilite in altri Stati membri.
In merito, l’Avvocato, pur ritenendo infondata la tesi della ricorrente, ha comunque ricordato che, come evidenziato dalla Corte nel noto caso Google Ireland (C-482/18, sentenza 3 marzo 2020, ECLI:EU:C:2020:141), l’articolo 56 TFUE «osta all’applicazione delle misure nazionali che vietano, ostacolano o rendono meno attraente l’esercizio della libera prestazione dei servizi». Tuttavia, la scelta di “limitare” l’obbligo di operare la ritenuta solo nel caso in cui la piattaforma intervenga nel pagamento è stata presumibilmente operata dal legislatore italiano perché, diversamente, «sarebbe chiaramente difficile imporre detto obbligo agli intermediari che non offrono tale servizio aggiuntivo».
A parer di chi scrive, può ritenersi che l’impossibilità di imporre tale obbligo anche a chi non interviene nel pagamento derivi anche da altre considerazioni. In primis, solo nel caso in cui un intermediario intervenga nel pagamento ci si trova dinanzi alla tipica situazione (“debitoria”) in cui il sostituto, garantendosi una provvista preventiva, riesce senza problematiche ad assicurare il proprio obbligo di rivalsa. Conseguentemente, una normativa che avesse esteso tale obbligo anche in capo a chi non interviene nel pagamento sarebbe stata – potenzialmente – contraria ai principi di cui all’art. 53 della Costituzione.
Del resto, non è un caso che anche l’Avvocato generale abbia osservato che «la scelta dell’intermediario di fornire il servizio di cui trattasi non è casuale ma, al contrario, risponde a preoccupazioni simili a quelle che hanno indotto il legislatore italiano ad adottare il regime fiscale controverso». Difatti è in tal modo che l’intermediario «crea anche le condizioni di sicurezza necessarie per lo sviluppo del settore delle locazioni immobiliari brevi». E, poiché, parimenti, tale “insicurezza” caratterizza anche la connessa attività dell’Amministrazione finanziaria, l’Avvocato ritiene che sia «perfettamente coerente imporre l’obbligo di ritenuta fiscale agli intermediari che intervengono nel pagamento dei canoni di locazione».
Pertanto, per l’Avvocato generale tale obbligo non costituisce una discriminazione, ma «potrebbe essere considerato un ostacolo alla libera prestazione dei servizi». Gli intermediari, difatti, non avranno questo ruolo «più solo tra i locatori e i conduttori, ma anche tra i locatori e le autorità finanziarie». Pertanto, per il connesso rischio finanziario, tale obbligo costituisce un rischio aggiuntivo che non esisterebbe in assenza dell’obbligo di ritenuta fiscale. Tuttavia, prosegue l’Avvocato, tale ostacolo è “pienamente giustificato”, poiché la necessità di garantire l’effettiva riscossione e di contrastare l’evasione fiscale costituisce «un motivo d’interesse generale idoneo a giustificare un ostacolo alla libertà del mercato interno» e, del resto, anche in relazione alla proporzionalità di una simile misura, lo stesso rileva come sia parimenti evidente che tale misura «consente di combattere efficacemente l’evasione fiscale, imponendo ad un operatore che non è personalmente interessato a sottrarsi all’imposta la responsabilità del versamento della stessa all’amministrazione finanziaria», così, di fatto, riprendendo la ratio dell’esistenza dello stesso istituto della sostituzione (e responsabilità) d’imposta.
Ed effettivamente si osserva, seppur brevemente, che non era condivisibile quanto rilevato già dinanzi al TAR dalla ricorrente in merito al fatto che la ritenuta avrebbe potuto discriminare il proprio modello di business – attribuendo, di contro, agli intermediari che non intervengono nel pagamento un indebito vantaggio competitivo – a causa del fatto che gli utenti sarebbero allettati dalla «possibilità di pagare le imposte sul reddito da locazione nel periodo di imposta successivo a quello della materiale percezione del canone, invece di subire la ritenuta alla fonte». Questo in quanto, come noto, il rischio di una possibile e simile “discriminazione” (unitamente ad esigenze di gettito) ha, già durante la riforma degli anni ’70, indotto il nostro legislatore a prevedere, parallelamente l’istituto degli acconti d’imposta, da versarsi già durante la pendenza del periodo d’imposta.
La Corte di Giustizia, pur giungendo alle medesime conclusioni, ha invece enfatizzato un diverso aspetto. Pur rilevando che l’obbligo di operare la ritenuta costituisca un «onere ben più rilevante di quello collegato ad un semplice obbligo di informazione, anche solo a causa della responsabilità finanziaria» ha ritenuto che non risulti «fatta salva la valutazione del giudice del rinvio, che tale onere sia più gravoso» per gli intermediari stabiliti in Italia rispetto a quelli ivi residenti.
Per quanto una simile conclusione potrebbe, anche testualmente, apparire incerta, a parer di chi scrive, non ci sarebbe da stupirsi se l’avallo intanto offerto dalla sentenza in esame all’obbligo di agire in qualità di sostituto d’imposta, possa “stimolare” l’interesse di altri legislatori nazionali, ovvero dello stesso legislatore europeo, per l’introduzione di una analoga misura, certamente “allettante” dalla prospettiva pubblicistica.
3.4. In merito alla asserita incompatibilità con l’art. 56 TFUE dell’obbligo incombente sugli intermediari non residenti e non stabiliti in Italia di nominare un rappresentante fiscale (che sia residente in Italia), l’Avvocato generale si è dichiarato non «persuaso da tale argomento», ritenendo che la differenza di trattamento non generi una discriminazione e sia giustificata dal fatto che residenti e non residenti non si trovano nella medesima situazione. Tuttavia, anche richiamando quanto stabilito dalla Corte in precedenti sentenze (in particolare: Commissione c. Spagna, C-678/11, sentenza 11 dicembre 2014, ECLI:EU:C:2014:2434, nella quale la Corte altresì richiamava Commissione c. Belgio, C-522/04, sentenza 5 luglio 2007, ECLI:EU:C:2007:405) ha dovuto concludere che tale obbligazione costituisca una restrizione sproporzionata alla libera prestazione dei servizi, in contrasto con l’art. 56 TFUE.
In linea con tali argomentazioni, la CGUE ha rilevato che sia, difatti, «incontestabile» che l’obbligo di nominare un rappresentante fiscale imponga di «sopportare, in pratica, il costo della retribuzione di detto rappresentante». Questo costituisce un «ostacolo idoneo a dissuaderli dall’effettuare servizi di intermediazione immobiliare in Italia». Conseguentemente la Corte si sofferma sul valutare se una simile restrizione possa essere giustificata dal perseguimento di motivi imperativi di interesse generale.
Richiamando, parimenti, quanto affermato nel proprio precedente Commissione c. Spagna, i Giudici europei hanno ricordato che le esigenze di contrasto all’evasione fiscale e di garantire l’efficacia della riscossione possano essere invocate al fine di giustificare una restrizione all’esercizio delle quattro libertà fondamentali dell’Unione Europea. Pertanto, tale misura, rileva la Corte, «persegue uno scopo legittimo compatibile con Trattato FUE ed è giustificata da motivi imperativi di interesse generale», ed è un obbligo «idoneo a garantire la realizzazione dell’obiettivo del contrasto all’evasione fiscale».
Nel vagliare poi se la misura non ecceda quanto necessario per il raggiungimento dell’obiettivo, pur legittimo, perseguito, la Corte ha condivisibilmente ritenuto che la stessa non sia idonea a “superare” il vaglio della proporzionalità.
Appare singolare che la Corte, anziché giungere a questa conclusione operando un mero richiamo ai propri citati precedenti, abbia rilevato la non proporzionalità della misura in quanto impone tale obbligo a tutti gli intermediari, «senza distinguere in funzione, ad esempio, del volume di entrate fiscali prelevate». Ad avviso della Corte, non risulta che il «rispetto degli obblighi gravanti sui prestatori di servizi interessati in qualità di responsabili non possa essere garantito con mezzi meno lesivi dell’art. 56 TFUE rispetto alla nomina di un rappresentante fiscale in Italia». Per quanto – si ripete – una simile conclusione sia sostanzialmente condivisibile, appare tuttavia, opinabile, che nulla sia specificato in merito a cosa debba intendersi per «volume di entrate fiscali» e come, del resto, una differenziazione sul punto, non possa poi comunque risultare potenzialmente discriminatoria.
Ad ogni modo, nell’attesa di leggere la decisione del Consiglio di Stato, si può considerare che, nelle more, la misura italiana, “bocciata” in merito all’obbligo di nominare un rappresentante fiscale per le piattaforme non residenti e non stabilite, potrebbe condurre le piattaforme stabilite ad “abbandonare” la propria stabile organizzazione, al fine di non doversi adeguare all’obbligo di operare la ritenuta in qualità di sostituti d’imposta.
4. Dinanzi al TAR le ricorrenti segnalavano inoltre che anche l’ulteriore obbligazione attinente l’attribuzione del ruolo di responsabili del versamento dell’imposta di soggiorno – nonostante il primo provvedimento dell’Agenzia delle Entrate oggetto di impugnazione non sia stato attuativo anche di tale misura – si porrebbe in contrasto con la libertà di cui all’art. 56 TFUE, creando una “irragionevole” disparità di trattamento con i gestori delle strutture ricettive, ai quali – all’epoca – non era ancora riconosciuto il medesimo ruolo di responsabili d’imposta.
Il TAR rilevava testualmente l’inammissibilità di tale doglianza «per carenza di interesse in quanto il profilo contestato non è oggetto del provvedimento impugnato».
Orbene, nonostante ciò, ai fini delle argomentazioni di cui al presente contributo, appare rilevante evidenziare, seppur brevemente, che, nelle more, la medesima responsabilità d’imposta è stata riconosciuta anche in capo ai gestori delle strutture ricettive, con D.L. n. 34/2020 (noto come “decreto Rilancio”). Tale novella legislativa – pur rimediando al lungo silenzio legislativo in merito al ruolo dei gestori delle strutture ricettive e alla relativa e conseguente querelle giurisprudenziale e dottrinale – risulta opinabile per le medesime argomentazioni per le quali – viceversa – appare impropria nel merito la doglianza di Airbnb.
Si ricorda brevemente che la disciplina dell’imposta di soggiorno, di cui all’art. 4 D.Lgs. n. 23/2011, ha subito due “ampliamenti”: il primo con l’introduzione dell’alternativa imposta di sbarco – oggi contributo di sbarco –, il secondo con l’estensione della sua applicabilità anche alle locazioni c.d. brevi. Entrambe tali novelle hanno qualificato il ruolo dei rispettivi “gestori” quali “responsabili d’imposta” e proprio tale espressa qualifica aveva contribuito ad alimentare i dubbi nati dal discutibile silenzio legislativo sul ruolo dei gestori delle strutture alberghiere nell’“ordinaria” imposta di soggiorno.
Tuttavia, una mera equiparazione non sembrava giustificabile per la “peculiarità” della posizione dell’albergatore: a differenza di quanto accade per le compagnie di navigazione, nonché per le piattaforme di prenotazione online – come, del resto, per altri soggetti cui (genericamente) è legislativamente attribuito il ruolo di responsabili d’imposta – l’albergatore di un’ordinaria struttura ricettiva avrebbe “difficoltà” sia a creare una provvista preventiva, che, conseguentemente, a soddisfare il suo diritto di rivalsa (per l’intero) sul soggetto passivo.
Come si è avuto modo di argomentare (sia consentito rinviare ad Tomo A., L’imposta di soggiorno tra opportunità di rilancio del turismo e il problematico ruolo degli albergatori: luci e ombre della nuova disciplina, in Giur. imp., 2020, 1, 58 ss.) molteplici sono le motivazioni per le quali ritenere di poter salutare con favore la novella del 2020, in quanto ha posto fine alle differenze applicative emerse sul territorio nazionale, ha consentito un aumento di gettito per i Comuni e ha limitato il rischio che il riconoscimento per via giurisprudenziale agli albergatori della qualifica di agenti della riscossione facesse gravare sugli stessi rischi penali ultrattivi rispetto alle finalità volute dalla normativa in materia. Tuttavia, tale misura si è caratterizzata anche per alcune significative zone d’ombra, principalmente derivanti da una più complessa gestione dell’imposta per gli albergatori che oggi, non solo sono tenuti alla presentazione della dichiarazione, ma anche al pagamento dell’imposta in caso di inadempimento del turista-soggetto passivo. Difatti, se è vero che la gravosa responsabilità penale (alla quale la novella del 2020 ha rimediato) dipendeva dall’ipotesi di omesso o ritardato versamento dell’imposta correttamente corrisposta dal turista (adempiente), oggi la responsabilità d’imposta vede il gestore della struttura ricettiva obbligato in solido, in ogni caso, con il soggetto passivo.
Il riconoscimento legislativo della responsabilità d’imposta è volto al «rafforzamento della pretesa dell’amministrazione finanziaria e della sua satisfattività» (Salanitro G., Due recenti interventi della Cassazione in tema di notaio e imposta di registro, in questa Rivista, 2019, 2, II, 233 ss.), ma la soggettività passiva rimane in capo a colui che, realizzato il presupposto impositivo, ha manifestato la propria capacità contributiva. Dunque, onde evitare una possibile violazione dell’art. 53 Cost., è necessaria una autonoma verifica di compatibilità costituzionale, poiché il “mero” riconoscimento del diritto di rivalsa per l’intero sull’obbligato principale «non mette al riparo il responsabile dall’eventuale inadempimento o insolvenza del contribuente» (Fiorentino S., Lezioni di diritto tributario, Napoli, 2017, 80).
Questa circostanza potrebbe, dunque, condurre o “giustificare” uno slittamento verso un più ampio coinvolgimento delle piattaforme anche nell’ambito dell’“ordinaria” imposta di soggiorno (come del resto già sta accadendo alla luce di diversi regolamenti comunali, ad esempio nella città di Firenze), poiché, sempre nel caso in cui si opti per il pagamento della prenotazione per il tramite delle piattaforme, queste possono agevolmente creare una provvista preventiva, a differenza dei gestori delle strutture ricettive, per i quali, invece, il riconoscimento della responsabilità d’imposta sta richiedendo una necessaria “riorganizzazione” della propria attività, al fine di garantire loro l’effettività del diritto di rivalsa.
Questa considerazione sembrerebbe avallata anche dalla recente posizione della Corte di Giustizia che, sebbene non si sia pronunciata sulla specifica fattispecie dell’imposta di soggiorno, ha, come anticipato nel precedente paragrafo 3.3, ritenuto che l’art. 56 TFUE non osti al riconoscimento della (ancor più gravosa) sostituzione d’imposta relativa all’imposizione diretta sui canoni di locazione.
5. Sfruttando le potenzialità offerte dall’intermediazione – soprattutto delle piattaforme digitali – il legislatore italiano ha adottato una disciplina fiscale sulle locazioni brevi, principalmente volta a contrastare l’evasione fiscale nel settore turistico italiano, che, come analizzato, ha quasi integralmente superato il vaglio della Corte di Giustizia.
Ebbene, proprio alla luce delle conclusioni cui è giunta la Corte, nonché dalle argomentazioni esposte dall’Avvocato generale, appare possibile prospettare alcune conclusioni, volte a sottolineare alcune questioni che risultano ancora aperte e che attengono principalmente all’impatto di una simile misura sui diritti fondamentali delle piattaforme e degli utenti/contribuenti. Il tutto nell’attesa dell’“ultima parola” che adesso è rimessa al Consiglio di Stato e sebbene, intanto, l’Amministrazione finanziaria italiana stia già “agendo” per il recupero nei confronti di Airbnb, tra l’altro, delle ritenute (asseritamente) non versate dalla piattaforma, neanche all’esito della sentenza della Corte di Giustizia (tanto emerge da recenti notizie di cronaca, cfr.: Mincuzzi A., Il Fisco contesta a Airbnb 500 milioni di tasse non versate, in Il Sole24Ore Plus, 11 agosto 2023).
Alla luce delle argomentazioni svolte può ritenersi che la normativa italiana consenta di intravedere delle (timide e) parziali luci per la posizione degli utenti/contribuenti e, di contro, delle ombre per quella delle piattaforme e, parzialmente, per la tutela dei dati dei contribuenti.
Le parziali luci si riferiscono principalmente alla “semplificazione” degli adempimenti fiscali che deriverebbe per i contribuenti e, in termini più generali, per gli attori coinvolti. Difatti, in merito all’imposizione diretta relativa ai canoni di locazione, il coinvolgimento delle piattaforme come sostituti d’imposta può risultare particolarmente vantaggioso nel caso in cui tale sostituzione avvenga a “titolo d’imposta”, dunque per i contribuenti che hanno optato per il regime sostitutivo della “cedolare secca”, poiché, in tal caso, i contribuenti cui la piattaforma corrisponderà il canone, già al netto della ritenuta operata, non avranno alcun onere aggiuntivo. Ove, viceversa, la ritenuta sia stata operata a titolo d’acconto (in caso di mancata opzione per il regime della “cedolare”), il soggetto passivo non sarà liberato dagli obblighi relativi alla percezione di tale reddito.
In merito all’imposta di soggiorno, sebbene, come evidenziato tale disposizione non sia stata oggetto del giudizio in esame, sembra comunque interessante rilevare che la situazione è parzialmente diversa. Qui, come noto, il contribuente/soggetto passivo è il turista, dunque non residente nel Comune (creditore) sul quale grava solo l’obbligo di versamento dell’imposta, senza alcun onere formale aggiuntivo. Dunque, per tali contribuenti un possibile vantaggio derivante dal coinvolgimento della piattaforma (responsabile in solido) sembra essere esclusivamente derivante dal fatto che in tal caso il pagamento dell’imposta può essere effettuato digitalmente, mentre (ove effettuato in loco) anche alla luce di quanto ancora richiesto da alcuni regolamenti comunali, il pagamento potrebbe essere richiesto dall’host in contanti. Inoltre, come anticipato, un possibile vantaggio sarebbe configurabile per i gestori delle strutture ricettive nell’“ordinaria” imposta di soggiorno, in quanto – anche alla luce delle considerazioni della Corte di Giustizia in merito al coinvolgimento delle piattaforme come sostituti d’imposta – si potrebbe “giustificare” un più ampio coinvolgimento delle piattaforme, poiché, ove il pagamento avvenga per il tramite delle stesse, queste possono agevolmente creare una provvista preventiva.
Più problematica appare, anche all’esito della sentenza della Corte di Giustizia, la posizione degli intermediari, i.e. delle piattaforme digitali. È innegabile l’opportunità offerta da un maggior coinvolgimento delle piattaforme in termini di contrasto all’evasione e di emersione del “sommerso”. Questo è quanto emerge anche dai più recenti eventi di cronaca, dai quali si evince che, grazie alla normativa del 2017 che consentirebbe un controllo degli annunci pubblicati sulle piattaforme, la Guardia di Finanza ha recentemente e parallelamente “stanato” numerosi proprietari di immobili locati, che non dichiaravano affatto i redditi percepiti da tale attività (si veda nuovamente Sole24Ore, 11 agosto 2023).
Orbene, come argomentato dalla Corte, l’esigenza di assicurare la riscossione di un’imposta e la lotta all’evasione fiscale possono costituire motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare misure, quali quelle in esame, che risultino restrittive della libertà di prestazione di servizi. Non può, tuttavia, dimenticarsi che tali misure devono, in ogni caso, rispettare il principio di proporzionalità. E, in tal senso, i primi dubbi potrebbero sorgere anche in merito alla misura “meno invasiva” tra quelle al vaglio della Corte, attinente i meri obblighi informativi e ciò anche alla luce delle recenti iniziative intraprese in tema di scambio automatico di informazioni in ambito europeo. Come anticipato, difatti, sul punto appare difficile immaginare che la Corte potesse giungere ad una diversa conclusione, proprio in ragione del fatto che il panorama nazionale, europeo ed internazionale ha subito una importante evoluzione e, recentemente, il legislatore europeo, per perseguire note finalità di trasparenza e condurre una più efficace attività di contrasto all’evasione fiscale, ha adottato, anche sulla scorta delle spinte derivanti dal panorama internazionale, la c.d. DAC7.
In merito si è argomentato che sia difficilmente condivisibile ritenere la misura proporzionata semplicemente in quanto il relativo “costo”, che le piattaforme devono supportare, «appare ridotto». L’assenza di compenso per l’attività svolta sembra idonea ad impattare negativamente sui diritti economici delle piattaforme e, per quanto siano note le problematiche, di rilievo internazionale, di giustizia fiscale in merito al fatto che le Big tech non contribuiscano al pari delle imprese operanti nel mondo dell’economia reale, ciò non può ritenersi una giustificazione idonea a richiedere di sopportare costi in qualità di “collaboratori” dell’Amministrazione, incaricati di una attività di raccolta di dati che l’Amministrazione sta esternalizzando sempre più nei confronti dei terzi (privati). Medesima problematica attiene, del resto, anche al coinvolgimento degli intermediari nell’ambito della c.d. DAC6 e, come anticipato, è già stata posta all’attenzione della CGUE nel (parzialmente simile) caso SS SIA ove l’Avvocato generale Bobek dubitava che sia possibile «consentire alle autorità pubbliche di esternalizzare effettivamente parte dell’attività della pubblica amministrazione, costringendo le imprese private a sostenere i costi per l’esercizio di quella che essenzialmente è una funzione pubblica» (sia nuovamente consentito rinviare a Tomo A., La “forza centripeta” del diritto alla protezione dei dati personali, cit.).
Inoltre, sono state evidenziate le motivazioni per le quali si potrebbe ritenere che, in realtà, i dati richiesti alla luce della normativa italiana potrebbero riguardare anche informazioni aggiuntive, normalmente non raccolte dalle piattaforme, quali il codice fiscale dell’utente, dal quale può risalirsi anche ad informazioni non necessarie ai fini del contrasto all’evasione fiscale, quali il luogo e la data di nascita. Questo potrebbe condurre a due conseguenze negative: da una parte, una simile previsione potrebbe porsi in contrasto con i principi che regolano il trattamento dei dati personali dei dati personali, in particolare con il principio di minimizzazione (ex art. 5, par. 1, lett. c) del GDPR); d’altra parte, simili obblighi informativi, potrebbero condurre ad un ulteriore “aggravio” del c.d. “capitalismo della sorveglianza” (Zuboff S., op. cit.), paradossalmente autorizzando le piattaforme a raccogliere, conservare e trasmettere una crescente quantità di dati, anche personali, degli utenti (in merito sia consentito nuovamente rinviare a Tomo A., Tax information, Third Parties and GDPR, cit.).
Ulteriori dubbi sulla effettiva proporzionalità delle misure di cui alla normativa italiana attengono al secondo obbligo, relativo all’effettuazione della ritenuta in qualità di sostituti d’imposta. Dalle parole utilizzate dalla Corte emerge che l’obbligo di operare la ritenuta costituisca un «onere ben più rilevante di quello collegato ad un semplice obbligo di informazione, anche solo a causa della responsabilità finanziaria», ma che questo non risulta essere «più gravoso» per gli intermediari stabiliti in Italia rispetto a quelli ivi residenti. Sebbene la Corte abbia evidenziato in merito la necessità di far «salva la valutazione del giudice del rinvio», non ci sarebbe da stupirsi se, come anticipato, altri legislatori nazionali, siano “allettati” dalla possibilità di introdurre una simile misura. Di contro, la “bocciatura” dell’obbligo di nominare un rappresentante fiscale, potrebbe condurre le piattaforme stabilite in Italia ad abbandonare la propria stabile organizzazione, al fine di sottrarsi a tale obbligazione (e ai relativi oneri).
In generale, può ritenersi che risulti mancare, nell’analisi effettuata dai Giudici europei, una opportuna riflessione sulla proporzionalità delle misure in esame cumulativamente considerate. Ciò anche alla luce di quanto, come rilevato, già segnalato dall’AGCM nel 2017.
Ad ogni modo, sulla scorta dell’ormai noto valore economico dei dati (anche personali), riconosciuti come “controprestazione” tanto in ambito giurisprudenziale (TAR Lazio, sent. n. 260/2020 e n. 261/2020; Consiglio di Stato, sent. 29 marzo 2021, n. 2631) quanto dal legislatore europeo (Direttiva UE 2019/770 del 20 maggio 2019) e nel timore che le esigenze di contrasto all’evasione fiscale stiano avallando una sempre più pervasiva raccolta di dati da parte delle piattaforme digitali, la domanda che ci si può provocatoriamente porre in conclusione (sperando in una risposta negativa) è: si potranno “compensare” i rischi per i diritti economici delle piattaforme offrendo a queste ultime, come “controprestazione” per l’attività svolta, i maggiori dati che oggi sono obbligate (rectius autorizzate) a raccogliere?
Sperando di non trovarsi, come spesso accaduto in tempi di “crisi” dinanzi ad una pronuncia che si riveli “necessitata”, la parola torna al Consiglio di Stato.
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