La tela di Penelope delle riforme fiscali, tra Giustizia e legge delega: epicedio della certezza del diritto? (Parte seconda)

Di Francesco Tundo -

Abstract

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 costituisce uno dei punti di forza della riforma della giustizia tributaria del 2022. Si tratta di una disposizione preziosissima per il nuovo assetto del processo: introduce una regola generale destinata ad imprimere una svolta alle dinamiche processuali ed enfatizza il potere del giudice, per via di una maggiore incisività nel sindacato dell’azione amministrativa, concorrendo alla percezione di una sua maggiore terzietà. Ma non si tratta solo di questo perché è destinata a riverberare i suoi effetti, anche indirettamente, su tutta la parabola dell’attuazione del tributo, sin dal momento dell’istruttoria procedimentale dell’Amministrazione finanziaria. Senonché con l’approvazione della Legge delega per la riforma tributaria il legislatore ha adottato anche alcune disposizioni che, se saranno attuate, rischiano di determinare un vero e proprio intralcio al pieno dispiegamento degli effetti del nuovo comma 5-bis. Come Penelope, così, sembra voler disfare, in breve tempo, una trama preziosa, faticosamente tessuta.

Penelope’s shroud of tax reforms, between Justice and enabling law: epicede of legal certainty? (Part two). – The new paragraph 5-bis of Article 7 of Legislative Decree No. 546 of 1992 is one of the highlights of the 2022 Tax Justice Reform. It is an invaluable provision for the new procedural framework: it introduces a general rule destined to mark a turning point in the processual dynamics and emphasizes the power of the judge, by way of a greater degree of scrutiny over administrative action, contributing to the perception of its greater neutrality. Moreover, it is bound to have spill-out effects over the entire trajectory of tax implementation, from the very moment of the tax administration’s procedural investigation. However, with the approval of the enabling act for Tax eform, the legislator also adopted some provisions that, if enacted, are likely to result in a real hindrance to the full deployment of the effects of the new paragraph 5-bis. Thus, like Penelope, seemingly wanting to unravel, in a short time, a precious, laboriously woven thread.

 

 

Sommario: 1. Riforme fiscali, certezza del diritto e interferenze con la giurisprudenza. – 2. La strada stretta della certezza del diritto: le insidie del modello “bottom-up”. – 3. Un’eterogenesi dei fini in peius e un interregno di lunga durata. – 3.1. Un dilemma quasi… irresolubile. – 3.2. Un’opzione alquanto eccentrica che asseconda un disordine interpretativo. – 3.3. Ritorno al futuro e, forse, ai rischi di abnormità moltiplicativa.

1. Nel contesto della delega recata dalla L. 9 agosto 2023, n. 111, l’art. 17 (“Principi e criteri direttivi in materia di procedimento accertativo, di adesione e di adempimento spontaneo”) contiene al primo comma, lett. h), una serie di criteri direttivi accomunati dal fine dichiarato di “assicurare la certezza del diritto tributario”. Il contesto è dunque quello del procedimento. Le disposizioni di cui si tratta sono destinate ad intervenire, tra l’altro, su alcuni indirizzi giurisprudenziali in materia di dies a quo per il computo del termine decadenziale per l’accertamento dei componenti di reddito pluriennali nonché contestazioni di antieconomicità e attribuzioni ai soci delle società a ristretta base partecipativa.

Non intendo soffermarmi sul merito delle questioni interpretative sottostanti, se non per alcuni richiami che farò nei paragrafi conclusivi, né tantomeno entrare nello specifico degli indirizzi giurisprudenziali anzidetti, che sono stati tutti oggetto di numerosi e pregevoli commenti dottrinari.

Mi sembra più interessante ragionare sull’opportunità, sulle implicazioni e sull’efficacia della peculiare scelta del legislatore delegante di interferire, letteralmente, con alcuni indirizzi giurisprudenziali, non frapponendo tuttavia ad essi un argine vero e proprio, come accaduto ad esempio con l’art. 20 dell’imposta di registro mediante una norma d’interpretazione autentica[1].

Altrettanto interessante, poi, sarà spendere qualche riflessione sull’accezione di certezza del diritto accolta dal legislatore della delega, per come è possibile enuclearla dalla disposizione in esame e dal contesto generale in cui essa si colloca.

Intendo poi svolgere alcune riflessioni conclusive sulla coerenza di questa scelta del delegante rispetto agli assetti processuali che, come abbiamo visto ai paragrafi precedenti, si stanno consolidando dopo la riforma della giustizia tributaria approvata con la L. n. 130/2022.

Dico subito che, se non vado errato, lo sforzo vòlto al perseguimento della certezza del diritto nell’ambito della delega si esaurisce, almeno sul piano dell’enunciazione formale, prevalentemente, per non dire esclusivamente, proprio nelle disposizioni poc’anzi richiamate, peraltro tra loro alquanto eterogenee. Se così è, mi pare piuttosto singolare che, in un così vasto intervento normativo, nell’ambito di una così ambiziosa proposta riformatrice, proprio l’obiettivo della certezza del diritto tributario venga assegnato, anzi… relegato, a disposizioni che involgono fattispecie piuttosto circoscritte e sono obiettivamente marginali per rilevanza sistematica, per tecnica normativa e persino per collocazione topografica nell’ambito della delega, che risulta piuttosto periferica.

L’obiettivo enunciato, in sé, è indubbiamente meritevole e, per le condizioni attuali dell’ordinamento tributario, può essere perseguito solo mediante un’ampia riforma di sistema. La certezza del diritto, lo dice anche la Corte costituzionale, costituisce un valore fondamentale dell’ordinamento, da realizzare nella massima misura possibile[2], posto che con essa possiamo intendere, volendo molto semplificare, la possibilità di stabilire ragionevolmente le conseguenze giuridiche di determinati atti o fatti, dunque la loro prevedibilità (certezza c.d. soggettiva)[3]. Involge i principi di affidamento nell’ordinamento e di stabilità della disciplina giuridica nel tempo[4] e implica la chiarezza del comando normativo occorrente per attuare il principio di legalità (nozione oggettiva). Quest’ultimo, a sua volta, legittima l’esercizio dei poteri pubblici a condizione che siano previsti e disciplinati da norme giuridiche[5] e implica, appunto, la certezza del diritto in modo che ciascuno, come diceva Calamandrei, sia in grado di conoscere in anticipo dove arrivano i suoi diritti e dove cominciano i suoi doveri[6].

L’attività del legislatore che interviene con modifiche normative non meditate, contrastanti e in rapida successione è concausa della crisi della certezza, ancora più evidente nella nostra materia, e non da oggi[7]. La scarsa ponderazione nell’attività legislativa, osservava Cosciani[8], è dovuta essenzialmente al fatto che il legislatore sa di poter emanare in qualunque momento, anche a brevissima distanza, un nuovo provvedimento integrativo o innovatore, ma tutto questo naturalmente costa un prezzo altissimo in termini di stabilità e certezza del diritto applicabile.

Siamo insomma dinanzi ad un fenomeno che oggi potremmo definire (abist iniuria verbis) del “legislatore incontinente”: per averne un esempio recentissimo basti pensare alla singolare iniziativa della c.d. imposta sugli “extraprofitti” (più precisamente: imposta straordinaria calcolata sull’incremento del margine di interesse) delle banche introdotta con il D.L. 7 agosto 2023, n. 104 (art. 26), e “spuntata”, letteralmente, nelle stesse ore in cui in Parlamento si stava approvando un’articolata legge delega per la riforma tributaria e poche settimane prima dell’impostazione dei lavori per i provvedimenti fiscali di fine anno, entrambe iniziative nelle quali un prelievo così determinante per gli equilibri degli istituti di credito e del sistema economico in generale avrebbe forse potuto trovare più ponderata e coerente collocazione[9].

L’incertezza non dev’essere governata con la moltiplicazione delle regole[10], eppure accade esattamente il contrario, soprattutto nella materia fiscale. Un fattore concorrente, poi, è costituito dall’abbandono della legislazione per principi, poiché le singole norme non possono che rispecchiare solo in parte i principi generali[11]. Nella materia fiscale il fenomeno è stato peraltro accompagnato negli anni da iniziative giurisprudenziali che, sotto la spinta delle Agenzie fiscali, hanno concorso alla crisi del principio di legalità e del connotato di prevedibilità al quale si annette la certezza del diritto[12]; tra queste sicuramente possono essere ricompresi quegli indirizzi giurisprudenziali sui quali intervengono le disposizioni di cui stiamo parlando.

Il ripristino del principio di legalità e delle condizioni di chiarezza e prevedibilità, così come del principio di affidamento e più in generale della coerenza e ragionevolezza del sistema, humus vitale della certezza del diritto[13], non può ovviamente essere affidato ad iniziative estemporanee né a misure atomistiche ma richiede un ampio progetto riformatore che prenda le mosse dai principi e successivamente, da questi, declini le regole dei singoli comparti dell’ordinamento.

E allora, torniamo alla delega di cui alla L. n. 111/2023. Essa è connotata da una vasta articolazione di previsioni e mi pare evidente che, alla fine, sia destinata ad incidere più nell’area del procedimento, dell’accertamento e dei poteri dell’Amministrazione fiscale[14] che sui principi generali. I quali, volendo andare oltre le enunciazioni che hanno accompagnato la rapida (forse troppo rapida, nonostante l’insegnamento di Cosciani!) approvazione del provvedimento di delega all’Esecutivo, mi pare non siano, sostanzialmente, materia della delega medesima. Per averne conferma credo che basti leggere l’art. 2 L. n. 111/2023 (penso in particolare alle lett. b), d), g) n. 5), che pure è rubricato “Principi generali del diritto tributario nazionale”, così come l’art. 3, dedicato a sua volta ai “Principi generali relativi al diritto tributario dell’Unione europea e internazionale”.

Il tutto si accompagna all’ulteriore sensazione, che avevo avvertito nei primi giorni in cui il disegno di legge delega aveva iniziato il suo rapido cammino parlamentare, che siamo dinanzi ad un riassetto disciplinare, quello avviato con la L. n. 111/2023, in relazione al quale mi pare più corretto parlare di “revisione e riordino” di alcuni -pur importanti – istituti che non di un disegno riformatore in senso proprio[15] nel quale avrebbero potuto trovare giusta collocazione misure idonee a ricostruire un contesto di maggiore ragionevolezza, prevedibilità e certezza. Ad ogni buon conto, l’“affresco” finale, l’esito conclusivo di questa iniziativa potrà essere valutato dopo che sarà stato approvato l’ultimo decreto legislativo di attuazione, perché solo allora, dalla considerazione dei criteri direttivi che si saranno tradotti in concrete misure del legislatore delegato, potremo avere una visione completa. E occorre considerare che in passato anche riforme molto ambiziose, che pure avevano preso forma con leggi delega ben più robuste e delle quali si riusciva a leggere il disegno complessivo (penso alla L. n. 80/2003), non hanno poi trovato attuazione se non in minima parte. L’auspicio è, ovviamente, che possa accadere anche il contrario.

2. Come dicevo, mi pare che nonostante la comunicazione che ha accompagnato il progetto di legge nelle sue fasi iniziali enfatizzasse l’obiettivo della certezza del diritto, quelle che ho richiamato in apertura del paragrafo precedente costituiscano le più rilevanti previsioni che vi si riferiscono. V’è, invero, un insieme di criteri direttivi, anche molto minuziosi, in materia di procedimento o che intervengono su istituti relativi all’adempimento, ma hanno attinenza marginale con il perseguimento della certezza del diritto, a meno che con essa non si voglia intendere quella assicurata dall’Agenzia delle Entrate con le sue interpretazioni che però, oltre una certa misura, non mi sembra un’accezione adeguata[16]. Penso al proposto rafforzamento della cooperative compliance (peraltro destinata, inesorabilmente, ad interessare una platea circoscritta di contribuenti) così come ai ricorrenti indicatori di un massiccio ricorso in futuro all’analisi, all’utilizzo e alla interoperabilità delle banche dati, che però sono finalizzati al contrasto dei fenomeni di sottrazione al prelievo e non ad assicurare la prevedibilità e la certezza, se non per via mediata.

Mi pare anche che, al di là di un richiamo lessicale nell’ambito dell’art. 4 (“Principi e criteri direttivi per la revisione dello statuto dei diritti del contribuente”), non vi si prevedano quegli interventi di ampio respiro che preludono ad un aggiornamento effettivo e ad un rafforzamento dello Statuto[17], pure necessario a quasi cinque lustri dalla sua introduzione ove si consideri tra l’altro che, nel frattempo, i poteri istruttori dell’Amministrazione si sono ampliati a dismisura (e i principi direttivi di questa delega ne prevedono un’ulteriore estensione) grazie anche a strumenti investigativi che al tempo dell’approvazione dello Statuto non esistevano nemmeno. Alla lettera b) del comma 1 dell’art. 4 si scorge un richiamo all’obiettivo di valorizzare «il principio del legittimo affidamento del contribuente e il principio di certezza del diritto» ma si tratta a mio avviso di un “principio direttivo” talmente generico che definirlo tale può forse essere considerato un azzardo, a meno che non si voglia intendere che la sua declinazione imponga un’integrazione con successive disposizioni, in particolare quelle della lett. c) del medesimo art. 4. Ove però si disciplina la razionalizzazione dell’interpello per porre un argine all’eccesso di istanze formulate dai contribuenti negli anni trascorsi e dunque, a tutto voler concedere, prelude ad una contrazione invece che ad un ampliamento del confronto preventivo vincolante per l’Agenzia.

Insomma, mi pare che nella ricerca delle misure finalizzate a perseguire la certezza del diritto, come anticipato dobbiamo, concretamente, concentrarci sull’art. 17, lett. h). In tale contesto la delega sembra puntare ad una certezza del diritto destinata a formarsi con modalità “bottom-up”, cioè a partire dalle fattispecie (meglio ancora: in questo caso a partire da specifiche questioni controverse nell’ambito del procedimento amministrativo tributario) invece che dai principi generali. Si tratta di un’opzione dagli esiti incerti per molte ragioni, a partire dal fatto che è destinata a moltiplicare la complessità del sistema invece che a promuoverne la semplificazione.

Incidentalmente osservo che previsioni così puntualmente dirette a specifiche questioni interpretative (peraltro tra loro eterogenee, come è facile intendere scorrendo i nn. da 1 a 4 della lett. h) determinate da (non condivisibili) indirizzi della Cassazione, avrebbero potuto essere più efficaci se adottate con iniziative più circoscritte, ponderate, autonome ed esterne alla delega. Manifesterò più avanti le mie riserve anche sull’opportunità di queste previsioni, e in particolare dei nn. 3) e 4), in ragione dell’effetto di “intralcio” al pieno dispiegamento degli effetti del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992. Non è forse l’opzione più efficace, infine, che a giurisprudenza frammentaria si risponda con soluzioni “tampone” altrettanto frammentarie, anche in considerazione del fatto che appare verosimile che ci troveremo ad assistere all’apertura di nuovi fronti e nuovi terreni di scontro tra il legislatore e la giurisdizione e dunque a nuove ragioni di incertezza, come già accaduto in passato.

3. Quella di porre un argine ad un indirizzo giurisprudenziale è un’iniziativa consentita al legislatore, talora addirittura necessaria[18]. E’ espressiva, tuttavia, di una divergenza, se non addirittura di un contrasto o persino di un conflitto tra poteri dello Stato, e dunque è apprezzabile entro certi limiti e a determinate condizioni. Anzitutto deve concretizzarsi in una misura che effettivamente sia idonea ad intervenire efficacemente su un indirizzo giurisprudenziale che si sia discostato dalla volontà originaria del legislatore in ordine all’interpretazione di una certa disposizione di legge. Tipicamente prende la forma di una norma interpretativa, come accadde per la celebre vicenda dell’art. 20 del tributo di registro. Qualora essa non sia riconosciuta come tale dai giudici a causa di una formulazione mal congegnata, o addirittura quando non si tratti di una disposizione interpretativa in senso proprio, sussiste tuttavia il rischio che l’intervento del legislatore, invece di semplificare, in direzione della certezza, renda ancora più torbide le acque.

Nel nostro caso, non siamo in presenza di disposizioni interpretative né tantomeno mi pare vi siano margini, nella legge delega, perché che queste possano essere introdotte con i decreti delegati. La lettura dell’art. 17, comma 1, lett. h), la struttura generale e il contenuto dell’art. 17 nel suo complesso confermano che la delega conferita all’Esecutivo potrà determinare, qualora attuata, l’introduzione di una o più disposizioni normative ex novo, destinate ad incidere in un’area del procedimento di accertamento in relazione alla quale sinora si sono manifestati taluni (opinabili) indirizzi giurisprudenziali sui quali evidentemente il legislatore ritiene di dover intervenire con disposizioni di diritto positivo. Per la scelta adottata si tratterebbe dunque di disposizioni destinate a produrre effetti solo per il futuro. Non solo perché non potrebbero avere natura interpretativa, ma anche perché non si vedono margini, nella delega, per una possibile decorrenza retroattiva e perché si tratta di disposizioni che non attengono alla sfera processuale bensì al procedimento amministrativo tributario. In ragione di ciò non sarebbero applicabili agli innumerevoli giudizi già instaurati e pendenti nell’ambito dei quali, semmai, potremmo verosimilmente assistere ad un consolidamento dei precedenti, che sono proprio quei precedenti che avrebbero indotto il legislatore ad intervenire per porvi un argine. Insomma, l’esatto contrario dell’obiettivo prefissato e un caso eclatante di eterogenesi dei fini in peius.

E’ facile, conseguentemente, preconizzare un periodo di “interregno” di lunga durata, almeno sino all’esaurimento dei giudizi avviati con l’impugnazione degli atti emessi prima dell’entrata in vigore dei relativi decreti di attuazione e che non saranno intaccati dalle nuove disposizioni di legge. Si tratterrebbe di una convivenza di un diritto giurisprudenziale (notoriamente controverso e peraltro caratterizzato da un significativo disallineamento tra le posizioni delle Corti di merito e quelle della Cassazione, e per questo foriero di un’incertezza… esponenziale) e di un “nuovo” diritto positivo. Ciò determinerà effetti di disparità di trattamento tra contribuenti a seconda del momento della contestazione nei loro confronti (e dell’introduzione dei relativi giudizi) in relazione a fattispecie che, in ipotesi, potrebbero essersi realizzate anche nello stesso periodo d’imposta. Dunque già solo per questo è verosimile ipotizzare nuovi contenziosi e quindi ulteriore complessità invece che semplificazione.

Un esito, insomma, di lunga instabilità, il contrario dell’auspicata certezza e prevedibilità del diritto applicabile. Una instabilità alla quale, come dirò a breve, avrebbe potuto porre un rimedio più efficace, verosimilmente, il graduale consolidamento degli indirizzi interpretativi garantisti che hanno iniziato a formarsi in seno alle Corti di Giustizia, in relazione ai nuovi assetti del rito processuale tributario che fanno seguito all’introduzione del comma 5-bis all’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 ad opera della L. n. 130/2022 di riforma della Giustizia tributaria. E che invece vengono anch’essi messi in discussione (rectius: verrebbero messi in discussione), se si attuasse la delega contenuta nei principi direttivi che qui stiamo esaminando.

L’efficacia del comma 5-bis rispetto al sistema delle “presunzioni giurisprudenziali”, per come è stata già sperimentata nelle prime applicazioni delle Corti di Giustizia dopo l’entrata in vigore della L. n. 130/2022, rischia addirittura di essere posta nel nulla, poiché quest’ultima disposizione è priva di effetti rispetto al sistema delle presunzioni legali. E ciò che realizza il legislatore della delega è proprio l’“elevazione” di talune c.d. “presunzioni giurisprudenziali” al rango di presunzioni legali (seppur con talune limitazioni, senza le quali la scelta sarebbe apparsa addirittura ancora più irragionevole), con l’effetto di erigere sostanzialmente intorno ad esse un vero e proprio “cordone di sicurezza”, che le protegge dagli effetti della rilevante innovazione processuale introdotta lo scorso anno con la L. n. 130/2022 e, allo stesso tempo, allevia gli Uffici fiscali di buona parte del più gravoso onere probatorio che la stessa riforma del processo aveva efficacemente addossato ad essi.

Voglio essere ancora più diretto. Ad un primo esame del testo normativo qui in considerazione ho avvertito la prima sensazione che l’opzione adottata dal legislatore delegante fosse stata un po’ ingenua, forse addirittura una vera e propria svista di chi ha materialmente steso i testi del disegno di legge delega. Con il passare del tempo e con l’approfondimento della questione sono giunto ad una convincimento diverso e cioè che si sia trattato di una scelta consapevole di introdurre delle vere e proprie presunzioni di legge (almeno con riferimento ai nn. 3 e 4 della lett. h).

In questo sta, a mio avviso, quello che potremmo definire il difetto genetico di queste previsioni, che verosimilmente sconta anche un cedimento all’aspirazione degli estensori di trovare un certo consenso presso gli operatori del settore senza, al contempo, voler porre un argine pieno agli indirizzi giurisprudenziali controversi e così alle tesi dell’Amministrazione che li ha propugnati.

In buona sostanza ritengo che, pur nella consapevolezza dell’opportunità di un intervento normativo per porre rimedio alle distorsioni sistemiche causate dagli indirizzi giurisprudenziali presi di mira dalle disposizioni che ci interessano, quella pensata dal legislatore delegante non sia, nel merito, la risposta giusta. Mi accingo ad argomentare ulteriormente le ragioni del mio convincimento, che non sono uniformi per tutti i principi direttivi enunciati alla lett. h) dell’art. 17.

3.1. Iniziamo con la previsione di cui al n. 1 della lett. h), attinente al dies a quo del computo del termine decadenziale per l’accertamento delle componenti pluriennali. Come noto, nel 2021 v’è stato un intervento quasi a sorpresa delle Sezioni Unite[19], laddove la Sezione tributaria aveva assunto una posizione prevalentemente di segno opposto e maggiormente conforme ai principi di certezza del diritto e stabilità di rapporti giuridici. Dunque, il criterio direttivo previsto della delega, secondo il quale la decorrenza del termine decadenziale è quella del periodo d’imposta in cui si è verificato il fatto generatore, è certamente apprezzabile nei suoi fini, perché cerca di rispondere all’esigenza di porre rimedio ad un’evidente crisi della funzione nomofilattica e a quella che, a mio avviso, è una posizione non condivisibile del massimo consesso giudicante. Il tema che qui nello specifico rileva, tuttavia, è se questa previsione, per come è congegnata, sia davvero idonea a perseguire lo scopo ad essa assegnato, in considerazione dei suoi effetti nel tempo, e quale possa essere il suo impatto sulla sorte dei processi pendenti alla data della sua entrata in vigore. Qui vengono a mio avviso le note dolenti, giacché l’efficacia (solo) pro futuro della previsione che verosimilmente sarà adottata dal legislatore delegato rischia di consolidare la tesi espressa dalla sentenza delle Sezioni Unite nei giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della nuova disposizione (con eventuale salvezza, dunque, solo di quelli scaturiti dall’impugnazione di atti impositivi notificati dopo la sua entrata in vigore ed una conseguente disparità di trattamento). Senonché ravviso un’ulteriore insidia, correlata all’ipotesi in cui il Governo, avvedutosi dell’empasse, o del rischio insito nell’impossibilità che la disposizione produca effetti retroattivi o per altre ragioni, dovesse rinunciare a dare attuazione a questo specifico principio di delega. Ebbene: la mancata attuazione determinerebbe un effetto, se possibile, ancora più esiziale della sua attuazione, facendo consolidare (forse) irrimediabilmente l’opinabile posizione delle Sezioni Unite. La legge delega pone dunque l’Esecutivo dinanzi ad un dilemma quasi irresolubile, poiché entrambe le alternative determinano effetti insidiosi per gli assetti generali del sistema e della sua coerenza intrinseca.

Valutazioni parzialmente diverse emergono invece in relazione alle altre due questioni sulle quali mi soffermerò che attengono, a differenza di quella esaminata poc’anzi, alle cosiddette “presunzioni giurisprudenziali” in materia, rispettivamente, di congruità dei corrispettivi e di distribuzioni occulte da società a ristretta base partecipativa. In entrambi i casi, come dicevo, l’effetto che l’eventuale attuazione della delega singolarmente sembra determinare è quello di introdurre una presunzione di legge laddove essa non esisteva e di cui, devo dire francamente, non si sentiva nemmeno l’impellenza. Come cercherò di dimostrare, in entrambi i casi sarebbe apprezzabile una riflessione più approfondita da parte dell’Esecutivo in ordine all’opportunità di non dare attuazione a questa parte della delega.

3.2. Non credo di esagerare nell’osservare che la previsione di cui al n. 3) mi pare comporti una preoccupante insidia agli assetti generali del reddito d’impresa. Nel formalizzare la sindacabilità del Fisco sul piano quantitativo, oltre a legittimare un’intromissione dell’Amministrazione nell’area delle libere determinazioni dell’imprenditore, le cui “applicazioni” future non sono né prevedibili né rassicuranti, rende peraltro la sensazione che possa… far rientrare dalla finestra la nota questione attinente alla (ir)rilevanza dell’accezione quantitativa dell’inerenza, che negli ultimi tempi pareva stesse invece… definitivamente uscendo dalla porta: intendo dire che riapre l’incertezza sulla nozione stessa di inerenza che nei tempi più recenti sembrava essersi stabilizzata. A parte questo, si tratta di una previsione normativa che, se adottata dal legislatore delegato, formalizzerebbe nel diritto positivo una nozione, quella della valutazione della congruità dei corrispettivi, che non è mai stata, volutamente, disciplinata se non in casi enumerati ed estremamente circoscritti[20]. Si tratta insomma di una scelta che potremmo definire alquanto eccentrica, nel senso che introduce un elemento di difformità, rispetto all’assetto generale della disciplina del reddito d’impresa[21], del quale non si sentiva alcun bisogno.

La pervasività del concetto di antieconomicità è, infatti, prodotto esclusivo del formante giurisprudenziale. Le scarse assonanze con essa che si rinvengono nel Testo Unico delle Imposte sui Redditi prendono, come noto, la fisionomia del valore normale ma non sono rappresentative di alcuna generale priorità di quest’ultimo rispetto ai corrispettivi pattuiti tra le parti, in condizioni di libertà ed autonomia delle scelte imprenditoriali. Anzi, costituendo evidenti eccezioni, le disposizioni nelle quali il valore normale assume rilevanza sono state, sinora, proprio la controprova di un indirizzo normativo generale di segno opposto. La sproporzione tra prestazioni e controprestazioni infatti non ha interessato il legislatore se non in casi marginali per numero e, comunque, tassativi: si pensi ad esempio al transfer price, che attiene esclusivamente alle transazioni internazionali. Altrove, nel reddito d’impresa, riguarda solo le componenti positive e, tra queste, solo le cessioni dei beni[22]. Sul versante dei componenti negativi, invece, non se ne rinviene traccia: un costo anche largamente inferiore rispetto al valore di mercato di un bene, del resto, non è ragione di allarme con riferimento all’acquirente e, comunque sia, si tradurrà in un maggior prelievo al momento della cessione del medesimo bene; quando si sia in presenza di un bene strumentale il minor costo, poi, inciderà anche in termini di minori ammortamenti, ovvero ai fini delle altre disposizioni del Testo Unico che richiamano il costo dei beni ai fini della deducibilità di taluni componenti negativi di reddito. Dunque, il sistema dell’imposizione sui redditi, e del reddito d’impresa in particolare, è – a parte eccezioni enumerate – sostanzialmente refrattario ad intromissioni di valori eterodeterminati in luogo di quelli pattuiti tra le parti[23]. La nozione di antieconomicità si è letteralmente insidiata nel diritto vivente, con una certa gradualità ma con una progressione espressiva di un corrispondente abbandono della strada maestra tracciata dal legislatore e dunque espressiva di un grave disordine interpretativo, che ha messo a rischio l’impianto stesso del reddito d’impresa e la sua razionalità.

In origine, fu adottata come parametro di misurazione della ragionevolezza della condotta dell’imprenditore, in concorso con un ventaglio di ulteriori elementi conoscitivi idonei a dare dimostrazione dell’eventuale falsità dei dati dichiarati dal contribuente. Potremmo dire, in sintesi, che era considerata portatrice di una “attitudine indiziante”. Successivamente abbiamo assistito ad una manomissione della funzione originaria, emersa in parallelo con l’adozione di una sorta di automatismo applicativo. Inizialmente riferito alle singole operazioni poste in essere dall’imprenditore, siffatto automatismo è stato poi esteso all’attività nel suo complesso. Si pensi alla questione della congruità dei corrispettivi, che prese le mosse a partire dagli emolumenti degli amministratori[24]. Fu l’incipit della lunga querelle dell’inerenza quantitativa, che conduce fino alle più recenti posizioni della giurisprudenza di legittimità, connotate però, a loro volta, da molteplici contraddizioni. In una di esse la Corte ha ricordato l’arresto, nell’ambito di un proprio precedente, che è infine giunto a «ricollegare il principio di inerenza dei costi deducibili esclusivamente all’esercizio dell’attività d’impresa, con esclusione di ogni valutazione di tipo quantitativo»[25]. Un approdo certamente apprezzabile che rischia però di restare soltanto sulla carta perché immediatamente seguita da un’altra, più insidiosa, precisazione secondo la quale i parametri di congruità e antieconomicità vengono considerati «indici sintomatici dell’inesistenza del requisito dell’inerenza». È chiaro che, in questa prospettiva, l’alterità di antieconomicità e inerenza attiene ad un piano puramente sintattico mentre, nella sostanza, la Corte continua a legittimare riprese impositive nelle quali il giudizio di congruità e/o antieconomicità può giungere a spezzare il nesso di inerenza e concorre alla crisi dei principi fondanti il reddito d’impresa. In altri casi il ragionamento della Corte è ancora più esplicito e l’assorbimento nell’inerenza dei parametri quantitativi è stato manifestato persino più palesemente[26]. Qui il giudice di legittimità si spinge addirittura ad affermare che la nozione di inerenza implica un giudizio dei costi «sia in riferimento alla loro congruità, sia con riguardo alle utilità, ancorché solo potenziali» da essi derivanti, rinviando a orientamenti ben più risalenti e che erano oggettivamente sorpassati a partire dall’ordinanza n. 450/2018.

Il problema, dunque, è che se questo principio direttivo sarà implementato dal legislatore delegato, la “questione” valutativa passerà da un ambito puramente interpretativo (e assai controverso), della giurisprudenza, a pieno titolo nel diritto positivo, determinando una ulteriore ragione di instabilità della quale non si sentiva il bisogno.

3.3. Altra questione è quella (qui rileva il n. 4 della lett. h) attinente alla limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei confronti delle società di capitali a ristretta base partecipativa. Come noto, secondo una giurisprudenza di legittimità consolidata la semplice circostanza del ristretto numero di soci diventa elemento idoneo a presumere la distribuzione ad essi degli utili in nero[27], con l’onere della prova contraria (negativa, spesso diabolica!) a carico del socio[28].

Come efficacemente si è osservato in dottrina, la Cassazione è giunta ad esiti ormai fuori controllo[29], sino al punto di avallare accertamenti ai soci anche in palese assenza di risorse monetarie suscettibili di transitare anche astrattamente al socio. Il consueto, malcelato, “interesse fiscale prevalente” ha portato insomma la giurisprudenza di legittimità a ignorare che le sole violazioni di norme tributarie suscettibili di determinare distribuzioni occulte sono quelle che al contempo consentono anche di acquisire una liquidità che può essere distribuita. Ad esempio una contestazione di difetto di inerenza di un costo effettivamente sostenuto, proprio perché effettivamente sostenuto (pur non afferente all’attività d’impresa), non si può mai tradurre in una distribuzione occulta di utili, perché non vi sarebbe la possibilità materiale per carenza delle risorse monetarie da distribuire. Eppure la Cassazione è giunta persino a… portare a sintesi, singolarmente, gli effetti delle due presunzioni giurisprudenziali, attinenti alla sproporzione del costo, ritenuto perciò solo indeducibile, e di distribuzione occulta di utili costituiti da siffatto costo indeducibile (sic!) un vero e proprio effetto di abnormità moltiplicativa[30].

Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, come emerge anche dalle prime applicazioni giurisprudenziali, aveva risolto, come abbiamo visto ai paragrafi precedenti, questa aporìa, poiché richiede una “dimostrazione circostanziata e puntuale, in coerenza con la normativa tributaria”. E dunque non si ravvedeva alcuna necessità di un ulteriore intervento normativo. La giurisprudenza di merito ha infatti già avuto occasione di escludere l’operatività della presunzione proprio in un caso di contestazione di costi indeducibili – anticipando, dunque, l’effetto della norma che il legislatore della delega vorrebbe introdurre – sottolineando come occorra discostarsi dall’orientamento ormai invalso in senso alla giurisprudenza della Suprema Corte, «tanto più dopo il forte monito […] giunto dal Legislatore in punto di corretta applicazione dell’onere della prova». Di talché, in un caso come dicevo di contestazione di costi indeducibili in capo alla società a ristretta base, secondo la Corte «l’Agenzia avrebbe dovuto dimostrare, sia pure sulla base di presunzioni gravi precise e concordanti, che: i) il costo, ritenuto fiscalmente indeducibile, avrebbe fornito alla Società la liquidità sufficiente per distribuire ai soci il maggior reddito accertato in capo alla stessa; ii) lo stesso, sarebbe stato distribuito, pro quota, ai soci; ma l’intimata Agenzia non fornisce alcuna prova di come: i) la Società si sia procurata la provvista […]; ii) di come un tale ammontare di maggior reddito sia poi stato girato» al socio[31].

Anche in considerazione dei primi, apprezzabili, indirizzi giurisprudenziali di merito, davvero non si comprende la ragione di un principio direttivo[32] secondo il quale il legislatore delegato dovrà disciplinare «la limitazione della possibilità di presumere la distribuzione ai soci del reddito accertato nei riguardi delle società di capitale a ristretta base partecipativa ai soli casi in cui è accertata sulla base di elementi certi e precisi l’esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti ferma restando la natura di reddito finanziario conseguito dai predetti soci» che costituisce un inspiegabile passo indietro rispetto al rigore degli adempimenti probatori imposti agli Uffici grazie alla norma processuale di recente introduzione. Nel proporre una soluzione (forse solo parziale, tuttavia) al “secondo livello” della presunzione forgiata dalla Cassazione,… in realtà si procede ad una codifica del c.d. “primo livello” cioè la bastevolezza della ristretta base partecipativa a presumere la distribuzione, che invece dovrebbe essere sempre dimostrata da parte degli Uffici impositori, data la molteplicità delle ipotesi che si possono verificare, come insegna la vasta giurisprudenza di merito che si è discostata dalle posizioni della Cassazione.

Insomma, se questo principio trovasse attuazione da parte dell’Esecutivo, la sensazione è che la natura di presunzione legale della disposizione di attuazione vanificherebbe del tutto l’applicazione del comma 5-bis, riportando indietro la macchina del tempo, con una sorta di effetto di ritorno ad un futuro… distopico. Il che induce a ritenere consigliabile un serio ripensamento da parte del Governo in ordine all’opportunità di dare attuazione (anche) a questo criterio direttivo.

[1] Questione con riferimento alla quale mi sia consentito fare rinvio a Tundo F., Le torsioni della giurisprudenza sull’imposta di registro e la certezza del diritto, in Corr. trib., 2019, 11, 979 ss.

[2] Corte cost., sent. 6 aprile 1995, n. 111.

[3] Così Pino G., La certezza del diritto nello Stato costituzionale, in Apostoli A. – Gorlani M. (a cura di), Crisi della giustizia e (in)certezza del diritto, Napoli, 2018, passim. Ma v. anche Guastini R., La certezza del diritto come principio di diritto positivo?, in Le Regioni, 1986, 1095 ss.

[4] Corte cost., sent. 21 novembre 2019, n. 241.

[5] Fois S., Principio di legalità, in La crisi della legalità. Raccolta di scritti, Milano, 2010, passim. Per una recente analisi v. Zizzo G., Certezza del diritto e principio di legalità nel diritto tributario, in Neotera, 2023, 106 ss.

[6] Calamandrei P., Non c’è libertà senza legalità, Roma-Bari, 2013, passim.

[7] Questioni poste in evidenza già da Berliri A., Sulle cause dell’incertezza nell’individuazione e interpretazione della norma tributaria applicabile alla singola fattispecie, in Dir. prat. trib., 1979, I, 3 e che per molti versi sono di perdurante attualità.

[8] Cosciani C., La riforma tributaria, Firenze, 1950, passim.

[9] Emblematica dell’estemporaneità dell’iniziativa (vorrei dire della sua… improvvisazione) la circostanza che dopo le critiche degli studiosi, degli operatori, della Banca Centrale Europea (v. BCE, parere del 12 settembre 2023 relativo all’imposizione straordinaria agli enti creditizi, CON/2023/26) e persino di alcune componenti della medesima maggioranza di Governo, in sede di conversione in legge il provvedimento è stato modificato in misura consistente, ad opera di un c.d. maxiemendamento dello stesso Esecutivo. Al momento in cui si scrive, si attende la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del D.L. n. 104/2023, approvata in via definitiva dalla Camera dei Deputati il 5 ottobre 2023.

[10] V. Pajno A., Relazione all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, in Foro italiano, 2017, V, 145 ss.

[11] Betti E., Teoria generale dell’interpretazione, ed. a cura di Crifò G., Milano, 1990, II, 851 ss.

[12] Sul tema sia consentito fare rinvio a Tundo F., Le 99 piaghe del fisco. Una democrazia decapitata, Bologna, 2020, in part. cap. I, I frutti dell’albero dell’incertezza, 29 ss.

[13] Per la declinazione della certezza del diritto rispetto al principio di ragionevolezza, v. Corte cost., sent. 18 aprile 2023, n. 110.

[14] Gli artt. 16 e 17 e le loro correlazioni con gli altri criteri direttivi mi sembra prevalgano in termini di robustezza strutturale e a questa area mi sembra verosimile che saranno destinate ad ascriversi le misure più significative dei decreti delegati, così come i risultati principali della riforma.

[15] In proposito mi sia consentito di fare rinvio a Tundo F., La legge delega per la riforma tributaria e la ragionevolezza del sistema fiscale nella giurisprudenza costituzionale, in Rivista dei dottori commercialisti, 2023, 505 ss.

[16] Da tempo l’Agenzia delle Entrate ambisce ad esercitare, per così dire, una funzione “nomofilattica”: il pensiero torna ai celebri “principi di diritto”, che altro non sono che interpretazioni sincopate alle quali i contribuenti (e taluni loro professionisti) nel tempo si sono anche assuefatti, assegnando loro un rilievo ridondante. Ne ho parlato in Tundo F., Le 99 piaghe del fisco. Una democrazia decapitata, cit., in part. 195 ss.

[17] Sul punto, v. Carinci A., Revisione dello Statuto del contribuente, tra ambizioni e criticità, in il fisco, 2023, 37, 3467 ss.

[18] In proposito v. Tundo F., Un legislatore volitivo restituisce l’imposta di registro alla sua tradizione, in Corr. trib., 2019, 3, 274 ss.

[19] Cass. civ., SS.UU., sent. 25 marzo 2021, n. 8500 secondo cui il c.d. “fatto generatore” sarebbe dichiarato nuovamente ogni anno in cui viene imputata a reddito una quota del costo ad utilità pluriennale. Per una argomentata critica a tale pronuncia, v. Beghin M., Il rapporto tra fatti economici e documentazione contabile nella prospettiva dell’accertamento di fattispecie reddituali ad efficacia pluriennale, in GT – Riv. giur. trib., 2021, 8/9, 675 ss. Una parte minoritaria della dotttrina si era espressa in precedenza nel senso poi fatto proprio dalle Sezioni Unite. V. Schiavolin R., Termini di decadenza per l’accertamento relativo a costi pluriennali: una sentenza opinabilmente garantista, in Riv. dir. trib., 2018, 6, II, 281 ss.

[20] Al riguardo, v. Tundo F., Inerenza e antieconomicità nell’Iva: l’autosuggestione cosciente della Cassazione, in Riv. dir. trib. int., 2023, 1, 25 ss.

[21] Per un punto di vista ed un’analisi “complementare”, v. Beghin M., Gli accertamenti sull’antieconomicità tra potestà normativa e prova dell’evasione, in Corr. trib., 2023, 7, 616 ss.

[22] Accade, in tale contesto, con riferimento al regime delle destinazioni extra imprenditoriali per i soli beni merce o plusvalenti (e si tratta peraltro di disposizioni di rilevanza applicativa marginale).

[23] Per un ampio, recente studio, v. Pedrotti F., La congruità dei corrispettivi tra evasione ed elusione fiscale, Padova, 2023.

[24] L’accezione quantitativa fu coniata per consentire la contestazione della simulazione relativa dei corrispettivi da parte di Uffici che non erano in grado di intercettare i benefici di un disallineamento normativo tra deduzione (piena) in capo all’erogante e tassazione (in alcuni casi agevolata) in capo al percettore. V. Tundo F., I compensi agli amministratori tra indeducibilità ‘tout court’ e giudizio di inerenza quantitativa, in GT – Riv. giur. trib., 2010, 12, 1046 ss.

[25] Cass. civ., sez. V, sent., 28 febbraio 2023, n. 5983, che richiama a tal proposito Cass. civ., sez. V, ord. 11 gennaio 2018, n. 450.

[26] Potendosi leggere che l’orientamento inaugurato dalla già citata ordinanza n. 450/2018 «assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perché – ad una piana lettura – è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione», visto che «l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo, intesi evidentemente nella loro esclusività, non vuol significare che essi siano del tutto estranei al giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza». Cass. civ., sez. V, sent. 28 gennaio 2022, nn. 2596, 2597, 2598 e 2599.

[27] V., ad esempio, Cass. civ., sez. VI, ord. 12 novembre 2020, n. 25501 in il fisco, 2021, 1, 79 ss. con nota critica di Beghin M.

[28] V. Benazzi A., Fino a che punto si estende l’onere di fornire la prova  in capo alla società per il socio di società a ristretta base?, in Riv. dir. trib., 2015, 6, II, 379 ss.

[29] Contrino A., Irragionevolezze ordinamentali e innovazioni processuali (rilevanti) della recente riforma della giustizia tributaria, in Il nuovo diritto delle Società, 2023, 2, 299 ss.

[30] Cass. civ., sez. V, ord. 25 novembre 2022, n. 34876.

[31] CGT I grado di Reggio Emilia, sez. I, sent. 24 aprile 2023, n. 72. Nello stesso senso, cfr. CGT I grado di Reggio Emilia, sez. I, sent. 27 dicembre 2023, n. 281.

[32] Quello, appunto, dell’art. 17, comma 1, lett. h), n. 4 della Legge delega n. 111/2023.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Beghin M., Gli accertamenti sull’antieconomicità tra potestà normativa e prova dell’evasione, in Corr. trib., 2023, 7, 616 ss.

Beghin M., Il rapporto tra fatti economici e documentazione contabile nella prospettiva dell’accertamento di fattispecie reddituali ad efficacia pluriennale, in GT – Riv. giur. trib., 2021, 8/9, 675 ss.

Beghin M., Gli utili da ristretta base partecipativa nelle torbide acque dei ‘costi indeducibili’ (nota a Cass. sez. trib., 12 novembre 2020, n. 25501), in il fisco, 2021, 1, 79 ss.

Benazzi A., Fino a che punto si estende l’onere di fornire la prova  in capo alla società per il socio di società a ristretta base?, in Riv. dir. trib., 2015, 6, II, 379 ss.

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