Lavoro da remoto transnazionale e stabile organizzazione dopo la circolare sullo smart working

Di Federico Franconi e Antonino Giacobbe -

Abstract

Premessa una riflessione sul rapporto tra smart working e stabile organizzazione, il presente contributo analizza le novità da ultimo derivanti dalla circolare dell’Agenzia delle Entrate 18 agosto 2023, n. 25/E relativa ai profili fiscali del lavoro da remoto, che, al fine di rimediare alle lacune della prassi sul tema, contiene un apposito paragrafo sulle interrelazioni proprio tra remote working e stabile organizzazione. Gli Autori evidenziano che tale circolare presenta (poche) luci e (molte) ombre, derivanti dalla circostanza che le indicazioni in materia paiono comunque assai generiche, e sono meritano un ulteriore chiarimento le numerose aree grigie che residuano in ordine al rapporto tra il concetto di stabile organizzazione e il remote working.

Transnational remote working and permanent establishment following the “circolare” on smart working. – Following a preliminary reflection on the relationship between smart working and permanent establishment, the present paper analyses the latest innovations deriving from the Circolare of the Italian Tax Administration no. 25/E of 18 August 2023, concerning the tax profiles of remote working, which, in order to remedy the gaps on the subject, contains a special section on the interrelationship between remote working and permanent establishment. The authors point out that this docuemnt presents (a few) lights and (many) shadows, due to the fact that the provisions on the subject appear to be very general, and the many grey areas that remain regarding the relationship between the concept of permanent establishment and remote working deserve to be further clarified.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Rapporto tra il concetto di stabile organizzazione e il remote working. La posizione dell’OCSE. 3. Le recenti indicazioni contenute nella circolare n. 25/E/2023. – 4. LUCI (poche) e ombre (molte) delle istruzioni della circolare in tema di stabile organizzazione. – 5. Considerazioni conclusive.

1. La pandemia da Covid-19 ha segnato la modifica delle abitudini dell’intera popolazione mondiale anche in ambito lavorativo. Mentre i governi dei singoli Paesi cercavano di arginare, per quanto possibile, la diffusione dei contagi, adottando misure di distanziamento sociale più o meno incisive, si assisteva ad un progressivo svuotamento degli uffici. Il lavoro da casa nel c.d. home office, da ipotesi sostanzialmente eccezionale, è diventata regola, talvolta in forza delle misure cogenti adottate per contenere la pandemia. Il successo del suddetto processo di “remotizzazione” del lavoro, che ha consentito di limitare le conseguenze pregiudizievoli della pandemia, ne ha determinato la sopravvivenza anche al venir meno delle misure di distanziamento sociale, cosicché allo stato il remote working può a tutti gli effetti ritenersi una comune modalità di svolgimento delle mansioni lavorative. Nel contesto transnazionale, il remote working ha poi trovato terreno fertile nelle formule organizzative del gruppo societario multinazionale che, come notato da autorevoli commentatori, ormai può essere considerato un “imprenditore unico a cavallo di più Stati” (cfr. Assonime, circolare n. 30/2022, 4), laddove la ripartizione delle funzioni tra dipendenti del gruppo non è più necessariamente vincolata alla localizzazione geografica del singolo.

Lo svolgimento, da parte del dipendente, di lavoro da remoto a beneficio di un datore di lavoro estero porta con sé implicazioni fiscali a vari livelli. Tra questi, assume senz’altro particolare importanza l’eventualità che il dipendente e le funzioni che lo stesso svolge nello Stato di prestazione dell’attività lavorativa rappresentino una stabile organizzazione del datore di lavoro, sulla base della corrispondente nozione dettata dalle normative nazionali e, eventualmente, convenzionali.

Negli ultimi anni il tema del remote working transnazionale è trattato dall’Agenzia delle Entrate in diversi documenti di prassi (cfr. circ. n. 33/E/2020, nonché le Risposte a interpello nn. 596 del 16 settembre 2021, 3 del 7 gennaio 2022 e 55 del 31 gennaio 2022). Tuttavia, sino a tempi assai recenti, il focus dell’Amministrazione finanziaria si manteneva sull’applicazione del regime fiscale dei c.d. impatriati (di cui all’art. 16 D.Lgs. 14 settembre 2015, n. 147) ai dipendenti di un datore di lavoro estero che trasferiscano la residenza fiscale nel territorio italiano, mentre la questione circa la configurabilità di una stabile organizzazione dell’impresa/datore di lavoro non residente nello Stato italiano per effetto del rapporto di lavoro era trattata solo in via incidentale. Finalmente, la circolare dell’Agenzia delle Entrate 18 agosto 2023, n. 25/E relativa proprio ai profili fiscali del lavoro da remoto, contiene un apposito paragrafo sulle interrelazioni tra remote working e stabile organizzazione, che intende rimediare alle lacune della prassi sul tema. Senonchè, come si vedrà di seguito, le indicazioni della circolare in materia paiono assai generiche, e sono ancora numerose le aree grigie che residuano in ordine al rapporto tra il concetto di stabile organizzazione e il remote working che meritano di essere chiarite.

2. La problematica circa la sufficienza di un home office ad integrare una stabile organizzazione materiale di un’impresa non residente era già analizzata dall’OCSE prima dello scoppio della pandemia. In particolare, nel Commentario al Modello di Convenzione, l’OCSE ha stabilito che i requisiti della stabile organizzazione materiale delineati nell’art. 5, par. 1 del Modello di Convenzione OCSE (corrispondenti a quelli previsti dall’art. 162, comma 1, TUIR nell’ordinamento italiano) – ovverosia, la sussistenza di una sede di affari a disposizione dell’impresa non residente, dotata di una certa permanenza e presso la quale sia svolta l’attività economica di quest’ultima (sulla nozione di stabile organizzazione in generale, si vedano, senza pretesa di completezza, Gaffuri A.M., Studio sulla funzione e sul concetto di stabile organizzazione nelle imposte sul reddito, Torino, 2021; Avolio D., La stabile organizzazione, in Avolio D., a cura di, Fiscalità internazionale e dei gruppi, Milano, 2021, 135 ss.; Della Valle E., La nozione di stabile organizzazione del nuovo Tuir, in Rass. trib., 2004, 5, 1597 ss.; Cerrato M., La definizione di stabile organizzazione nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in Sacchetto C. – Alemanno L., a cura di, Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, 93 ss., 137 ss.) – potessero ritenersi integrati nel caso di un lavoratore dipendente che svolgesse le proprie mansioni dalla sua abitazione, in uno Stato diverso da quello di residenza dell’impresa/datore di lavoro.

Il tema viene trattato nei parr. 18 e 19 del Commentario all’art. 5 del Modello di Convenzione. L’OCSE osserva come non si possa automaticamente ritenere che un’impresa non residente abbia a sua disposizione una sede d’affari per il mero fatto che l’attività di tale impresa venga svolta nell’home office di un dipendente. Ai fini della verifica circa l’effettiva disponibilità dell’home office, l’OCSE ritiene necessaria un’analisi casistica. In linea generale, secondo l’OCSE, qualora lo svolgimento di attività lavorativa da remoto sia su base intermittente ed incidentale, l’home office non potrebbe dirsi a disposizione dell’impresa non residente. D’altro canto, qualora un home office venga usato su base continuativa per svolgere un’attività economica per un’impresa e risulta chiaro che l’impresa ha richiesto al lavoratore di utilizzare tale luogo per svolgere la suddetta attività, l’home office potrebbe essere considerato a disposizione dell’impresa non residente. A riguardo, un criterio cui fa riferimento l’OCSE per comprendere se, effettivamente, l’impresa abbia richiesto al lavoratore di utilizzare il proprio home office per svolgere un’attività economica, è rappresentato dal fatto che l’impresa non fornisca un ufficio al dipendente in situazioni laddove la natura dell’attività lo richieda chiaramente.

Dunque, secondo l’OCSE, sussiste la disponibilità dell’home office nel caso di un consulente non residente che sia presente per un periodo di tempo significativo in uno Stato e che si avvalga di un home office ove svolga la maggior parte delle attività della propria impresa di consulenza. Invece, qualora un lavoratore frontaliero svolga la maggior parte delle proprie attività dalla sua abitazione situata nel suo Stato di residenza, anziché dall’ufficio posto a sua disposizione nello Stato di insediamento del datore di lavoro, l’abitazione del dipendente non dovrebbe essere ritenuta a disposizione del datore di lavoro perché questi non ne ha richiesto l’uso per lo svolgimento dell’attività d’impresa.

A ogni modo, la stessa OCSE, nel Commentario, evidenzia come le fattispecie in cui l’home office potrebbe rappresentare una stabile organizzazione dovrebbero essere eccezionali, in quanto la gran parte dei dipendenti è residente nello Stato in cui il datore di lavoro ha a disposizione delle sedi cui i dipendenti medesimi si riferiscono, e il lavoro nell’home office è, generalmente, svolto su base intermittente. Inoltre, l’OCSE segnala come l’esenzione da stabile organizzazione prevista per le attività ausiliarie o preparatorie dall’art. 5, par. 4 del Modello di Convenzione dovrebbe trovare spesso applicazione nel contesto dello svolgimento di mansioni lavorative presso l’home office (sulla posizione dell’OCSE in tema di home office quale stabile organizzazione, cfr. Della Valle E., La fiscalità dei “lavori agili”, in Riv. dir. trib., 2022, 1, I, 12-14).

Se questo era vero nel contesto pre-pandemico, per effetto delle limitazioni alla libertà di circolazione determinate dalla legislazione emergenziale adottate dai Governi e dai Parlamenti di tutto il mondo, la fattispecie dell’home office è diventata giocoforza tutt’altro che eccezionale. E proprio per fornire chiarimenti in ordine, tra l’altro, all’esistenza di una stabile organizzazione ai tempi della pandemia, è intervenuto nuovamente l’OCSE – rectius, il Segretariato dell’organizzazione – che, nell’aprile 2020, ha emesso l’ormai noto documento “OECD Secretariat Analysis of Tax Treaties and the impact of the COVID-19 Crisis”, poi aggiornato il 21 gennaio 2021 (per un commento , cfr. Stradiotti C., Lavoro “a distanza” e stabile organizzazione: profili evolutivi e stato dell’arte, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, VIII, 348 ss.). In tale documento, è stato generalmente escluso che un home office rappresenti una stabile organizzazione qualora il dipendente lavori da remoto in uno Stato diverso da quello di residenza del datore di lavoro, in quanto costretto a ciò dalla legislazione emergenziale.

Nel dettaglio, l’OCSE ha analizzato in maniera approfondita la fattispecie dell’home office, richiamando i passaggi del Commentario sopra illustrati ed escludendo che l’home office possa rappresentare una stabile organizzazione materiale ove trovi causa ed origine nel contesto emergenziale, in quanto tale modalità di lavoro dovrebbe avere finalità temporanea e l’abitazione del lavoratore non potrebbe essere considerata una sede d’affari “a disposizione” dell’impresa estera. In particolare, nota l’OCSE come, in vigenza delle misure di distanziamento sociale, tutti i lavoratori erano costretti a lavorare dalle proprie abitazioni, e di certo non per volontà dell’impresa/datore di lavoro. È agevole comprendere, dunque, che in un contesto emergenziale l’home office non potrebbe rappresentare una stabile organizzazione del datore di lavoro, non fosse altro che per la causa di forza maggiore che imponeva, tanto al lavoratore quanto al datore di lavoro, che la prestazione venisse svolta dall’home office.

Nel predetto documento, tuttavia, l’OCSE sembra limitare tali conclusioni al solo periodo emergenziale. Qualora il lavoro da remoto continui anche su base ordinaria, tornerebbero applicabili i criteri delineati dal Commentario di cui sopra. In particolare, assumerebbe rilevanza centrale il fatto che l’impresa abbia richiesto al lavoratore di utilizzare il proprio home office per svolgere un’attività economica, di cui risulterebbe indicatore l’assenza di un ufficio messo a disposizione dall’impresa ove le circostanze lo rendano ragionevole .

Va comunque notato che le osservazioni dell’OCSE di cui al predetto documento, seppur con riguardo alla differente questione dell’assoggettamento ad imposta in Italia del reddito da lavoro dipendente percepito dal remote worker, sono state considerate quali aventi rilevanza limitata nell’ordinamento italiano dall’Agenzia delle Entrate. In particolare, nella Risposta ad interpello n. 458 del 7 luglio 2021, l’Agenzia ha ritenuto che il principio per il quale i giorni lavorati nell’altro Stato per ragioni eccezionali si considerano come giorni lavorati nello Stato in cui ordinariamente era prestata l’attività lavorativa vale unicamente in presenza di appositi accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni in tema di reddito da lavoro autonomo recati dai Trattati, a condizione di reciprocità – accordi che l’Italia ha stipulato solamente con i Paesi confinanti (Francia, Svizzera e Austria).

3. Come accennato sopra, la circ. n. 25/E/2023 è il primo documento di prassi che reca indicazioni specifiche relative al rapporto tra stabile organizzazione e smart working. In particolare, nel paragrafo 4.3. della circolare, l’Amministrazione finanziaria tratta la questione circa la configurabilità di una stabile organizzazione di un’impresa non residente, ovvero di una base fissa di un lavoratore autonomo non residente (avente presupposti analoghi alla stabile organizzazione ), per effetto delle prestazioni svolte in regime di remote working nel territorio nazionale.

L’Agenzia delle Entrate, riprendendo il Commentario all’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE, richiama i requisiti per l’integrazione di una stabile organizzazione materiale, quale presupposti per la tassazione, in Italia, di attività d’impresa o di lavoro autonomo da parte di soggetti non residenti, ossia:

  • l’esistenza della sede d’affari nella disponibilità dell’impresa o del lavoratore autonomo;

  • la fissità spaziale e temporale della sede d’affari; e

  • lo svolgimento dell’attività d’impresa o professionale in tutto o in parte per mezzo della sede fissa d’affari.

Ebbene, l’Amministrazione finanziaria afferma che «I requisiti suesposti si ritengono integrati anche nel caso di una persona fisica che svolge, nel territorio dello Stato, attività d’impresa o di lavoro autonomo da remoto». Secondo l’Agenzia, la prestazione di lavoro da remoto non altera i criteri tradizionali di attribuzione della potestà impositiva previsti dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni.

L’Agenzia, a titolo esemplificativo, fa riferimento al caso di un architetto che dispone di uno studio professionale in un altro Stato e decida di trascorrere parte dell’anno in Italia dove continua a elaborare progetti che poi spedisce tramite email ai committenti con i quali effettua videochiamate. In tale ipotesi, secondo l’Agenzia, «occorre valutare l’esistenza di una base fissa».

L’Agenzia, infine, rappresenta che i chiarimenti contenuti nella circolare non devono ritenersi rilevanti per la presunzione di indipendenza di cui all’art. 162, comma 7-ter, TUIR, neo-introdotta dalla Legge di bilancio 2023 al fine di stabilire un’esenzione da stabile organizzazione nel contesto delle strutture estere di gestione collettiva del risparmio a condizione della sussistenza, per l’appunto, di una relazione di indipendenza e autonomia (giuridica ed economica) tra veicolo estero di investimento e fund manager – c.d. investment management exemption (su cui cfr. la Assonime, circolare 6 aprile 2023, n. 10).

4. Come accennato sopra, sul tema del rapporto tra stabile organizzazione e remote working, le indicazioni della circolare risultano generiche. Ed infatti, seppure sia apprezzabile l’intento dell’Agenzia delle Entrate di affrontare una questione che, prima della circolare, era stata trattata solo in via incidentale, i chiarimenti non paiono sufficienti a fornire un indirizzo preciso agli operatori su quando, nella pratica, una stabile organizzazione possa ritenersi sussistente in considerazione della prestazione di lavoro da remoto da parte di un dipendente nel territorio nazionale.

In effetti, il remote working presenta delle specificità che, specie alla luce della dematerializzazione dell’economia e del fenomeno del digital nomadism accentuatosi dopo la parentesi pandemica, necessitano un adattamento della stessa nozione di stabile organizzazione materiale. Se è vero che la prestazione di lavoro da remoto non altera i criteri tradizionali di attribuzione della potestà impositiva previsti dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni – e dunque la rilevanza della stabile organizzazione quale criterio di collegamento per la tassazione dei business profit nello Stato della fonte -, è altrettanto vero che i requisiti “tradizionali” della stabile organizzazione materiale devono essere declinati tenuto conto delle peculiarità del remote working.

Lo stesso esempio cui si riferisce l’Agenzia delle Entrate nella circolare, pur chiaro nella sua essenzialità, ha una scarsa rilevanza pratica qualora il remote working non sia prestato “in proprio” dall’imprenditore o dal professionista non residente che permanga nel territorio nazionale per un periodo apprezzabile di tempo, ma da un dipendente di un’impresa non residente cui venga attribuito un limitato perimetro di mansioni. E proprio per queste fattispecie sarebbero importanti dei chiarimenti specifici.

Le specificità del remote working sono particolarmente evidenti se si pensa al presupposto della “disponibilità” dell’home office in capo all’impresa/datore di lavoro non residente. A riguardo, sorprende che l’Agenzia delle Entrate non si rifaccia alle indicazioni del Commentario OCSE che, come ricordato sopra, individuano quale criterio principale per l’integrazione del presupposto della disponibilità di cui sopra la circostanza che l’impresa non residente richieda al lavoratore di svolgere le proprie mansioni dall’home office. Trattasi di un requisito di carattere sostanziale – coerente con l’approccio generalmente seguito dall’OCSE nel Commentario sul tema della disponibilità della sede – per la cui integrazione non è evidentemente necessario vantare un titolo legale sull’abitazione. Insomma, come anche confermato dai documenti pandemici dell’OCSE, va enfatizzato l’input da parte del datore di lavoro nello stabilire che il dipendente presti le proprie mansioni dall’home office, di talché, qualora il lavoro da remoto non sia richiesto dal datore di lavoro (come nel caso delle limitazioni alla libertà di circolazione stabilite dalla legislazione emergenziale), non dovrebbe sussistere il requisito della disponibilità dell’home office.

Ai fini di verificare che l’impresa abbia imposto al lavoratore di utilizzare il proprio home office per svolgere le proprie mansioni, l’OCSE ritiene un indicatore rilevante l’assenza di un ufficio messo a disposizione dall’impresa ove le circostanze lo rendano ragionevole. Ma nemmeno a tale parametro si fa riferimento nella circolare.

In materia, peraltro, si registrano ormai numerose prese di posizione da parte di Amministrazioni fiscali e di Corti estere, da cui si sarebbe potuto attingere per fornire indicazioni circa l’integrazione del requisito della disponibilità rilevante ai fini della stabile organizzazione nelle ipotesi di remote working. Ciò anche considerando che, viste le moderne modalità di lavoro a distanza, la necessità di un ufficio in senso tecnico potrebbe essere esclusa e, conseguentemente, l’indicatore proposto dall’OCSE nel Commentario potrebbe non essere più attuale.

Ad esempio, sono note due pronunce, non troppo recenti, della Tax Court del Canada (Knights of Columbus v. Queen e American Income Life Insurance Company v. Queen, entrambe del 16 maggio 2008), secondo cui rappresentano degli indicatori da cui desumere se l’abitazione di un dipendente possa configurare una stabile organizzazione del datore di lavoro estero le seguenti circostanze: a) il canone di locazione o le utenze sono a carico del datore di lavoro, che proceda direttamente al pagamento o rimborsi i costi al dipendente; b) il datore di lavoro ha la possibilità di ispezionare l’abitazione; c) all’interno dell’home office sono presenti dei segni distintivi che possono ricondurre all’impresa estera (cfr. cfr. Cass. 29 gennaio 2020, n. 1977). Si pone sulla falsariga delle sentenze canadesi l’Amministrazione fiscale svedese, che ritiene che un home office sia a disposizione del datore di lavoro estero qualora quest’ultimo paghi o rimborsi il canone di locazione al lavoratore ovvero retribuisca diversamente il lavoratore quale corrispettivo della disponibilità di uno spazio all’interno della sua abitazione.

Si può altresì ricordare la posizione dell’Amministrazione finanziaria danese che ha negato l’integrazione del requisito della disponibilità qualora la richiesta di svolgere l’attività lavorativa dalla propria abitazione provenga dal lavoratore stesso. Infine, è rilevante un caso trattato dall’Autorità fiscale belga, secondo cui l’home office sito in Belgio di un manager di una società non residente non costituisce una stabile organizzazione, in quanto il datore di lavoro non avrebbe il potere di disporre dell’abitazione del dipendente (potendo egli venderla ed acquistarne un’altra) e non essendo il manager contrattualmente obbligato a svolgere la propria attività lavorativa presso l’abitazione, quando l’indirizzo dell’abitazione del manager non risultava né dalla sua business card, né nel sito web del datore di lavoro (cfr. il Ruling del 15 ottobre 2011).

Quelli appena indicati sono solo alcuni esempi, ma gli orientamenti emersi a livello internazionale sul tema del rapporto tra remote working e stabile organizzazione sono molteplici (per una rassegna di tali orientamenti, si veda Reggiani S., Stabile organizzazione e home office: alcune riflessioni, in Amm. fin., 2022, 7, 3 ss.). Sarebbe stato dunque opportuno che l’Agenzia delle Entrate cogliesse l’occasione della circolare per meglio declinare la questione, tenendo a mente il quadro internazionale sopra sommariamente descritto.

Sempre con riguardo al particolare atteggiarsi dei presupposti della stabile organizzazione nel caso del lavoro da remoto, l’Agenzia delle Entrate tace del tutto in ordine al quantum temporale di presenza nel territorio dello Stato che dovrebbe assumere rilievo, tale da integrare il requisito della “permanenza”. Seppure sia comprensibile la difficoltà di individuare un parametro temporale preciso, esigenze di certezza del diritto imporrebbero di fornire almeno delle linee guida di carattere generale, considerando che, nella gran parte dei casi, il lavoro da remoto transnazionale è prestato su base temporanea. Sul punto, l’OCSE ha notato, sulla base dell’osservazione empirica, che il requisito della permanenza è generalmente associato ad una presenza nel territorio dello Stato di almeno sei mesi. Anche in assenza di una soglia temporale fissata ex lege così come previsto per la c.d. stabile organizzazione da cantiere, l’Agenzia delle Entrate avrebbe potuto richiamare l’orientamento OCSE quale indicazione di massima, riservando agli organi accertatori un’analisi caso per caso sulla base delle specifiche caratteristiche dell’attività svolta in Italia .

Infine, la circolare nulla dice in merito alla possibile qualificazione dell’attività svolta nell’home office quale avente natura ausiliaria o preparatoria, tale così da escludere l’esistenza di una stabile organizzazione anche qualora l’home office possa rappresentare una sede fissa d’affari a disposizione dell’impresa non residente per lo svolgimento di attività d’impresa sulla base dell’art. 162, comma 4, TUIR e delle corrispondenti disposizioni convenzionali. Su tale questione, la stessa OCSE nel Commentario sottolinea come l’esenzione dovrebbe, in linea di principio, trovare ampia applicazione proprio nel caso in cui un dipendente svolga le proprie attività presso l’home office. Il chiarimento dell’OCSE dovrebbe assumere rilevanza anche nell’attuale contesto di progressiva diffusione dell’home office, in quanto, seppure sia sempre necessaria un’analisi del caso concreto e, in particolare, delle funzioni svolte dal dipendente nel periodo di permanenza in Italia, in linea di principio non pare inverosimile che l’attività svolta da un singolo lavoratore nel proprio home office abbia carattere ausiliario o preparatorio così come intesa nella prassi internazionale, ovverosia sia così remota rispetto all’effettiva realizzazione di profitti da rendere complessa l’attribuzione di utili alla presunta stabile organizzazione (cfr. il par. 58 del Commentario all’art. 5 del Modello di Convenzion). Anzi, sembrerebbero eccezionali le situazioni in cui l’esenzione suddetta non troverebbe applicazione, situazioni che potrebbero ipotizzarsi solamente nel caso in cui ad occupare l’home office sia un lavoratore che rivesta ruoli dal profilo strategico estremamente significativo nell’impresa e/o nel gruppo di appartenenza.

5. Alla luce della disamina sopra effettuata, emerge un quadro ancora incerto su quali siano le condizioni perché un home office venga considerato una stabile organizzazione di un’impresa non residente. Gli orientamenti in sede OCSE, per quanto forniscano spunti agli operatori, non sembrano del tutto attuali, non tenendo in conto della diffusione del remote working.

In tale contesto, sarebbe stato apprezzabile un maggiore dettaglio da parte dell’Agenzia delle Entrate nella circolare in commento, vista la centralità della stabile organizzazione nel panorama della fiscalità internazionale e il frequente ricorso all’istituto nella prassi accertativa degli Uffici finanziari.

L’assenza di una disciplina espressa nel nostro ordinamento con riferimento alla rilevanza del remote working per l’integrazione di una stabile organizzazione presuppone uno sforzo nell’interpretazione delle disposizioni fiscali nazionali e convenzionali che si rivela notevole, senza che la circolare possa effettivamente essere d’ausilio specie nelle situazioni più incerte.

E’ dunque auspicabile che nell’ormai imminente attuazione della Legge di delega per la riforma fiscale, i decreti delegati forniscano indicazioni specifiche sul punto. In effetti, il legislatore delegante ha fatto riferimento al lavoro agile transfrontaliero con riguardo alla revisione della disciplina della residenza fiscale delle persone fisiche, delle società e degli enti diversi dalle società, stabilendo comunque la necessità di coordinare tale disciplina con quella della stabile organizzazione (cfr. art. 3, comma 1, lett. c), L. n. 111/2023). Pertanto, sembrerebbe sussistano le basi affinché il legislatore possa procedere in tal senso.

Nel frattempo, lo scenario resta incerto e, considerati i rischi connessi alla possibile configurazione di una stabile organizzazione nel contesto del remote working transnazionale, è opportuno che le imprese tengano a mente la questione ove decidano di fare ricorso a modalità di lavoro agile nel contesto cross-border.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Assonime, circolare 6 aprile 2023, n. 10

Assonime, circolare 12 dicembre 2022, n. 30

Avolio D., La stabile organizzazione, in Avolio D. (a cura di), Fiscalità internazionale e dei gruppi, Milano, 2021, 135 ss.

Cerrato M., La definizione di stabile organizzazione nelle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in Sacchetto C. – Alemanno L. (a cura di), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, 93 ss.

Della Valle E., La fiscalità dei “lavori agili”, in Riv. dir. trib., 2022, 1, I, 1ss.

Della Valle E., La nozione di stabile organizzazione del nuovo Tuir, in Rass. trib., 2004, 5, 1597 ss.

Gaffuri A.M., Studio sulla funzione e sul concetto di stabile organizzazione nelle imposte sul reddito, Torino, 2021

Reggiani S., Stabile organizzazione e home office: alcune riflessioni, in Amm. fin., 2022, 7, 1 ss.

Stradiotti C., Lavoro “a distanza” e stabile organizzazione: profili evolutivi e stato dell’arte, in Riv. tel. dir. trib., 2023, 1, VIII, 348 ss.

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