Cessione di opere artistiche e il trittico “collezionista”, “speculatore occasionale” e “mercante d’arte” ai fini delle imposte dirette

Di Emanuele Artuso e Inge Bisinella -

(commento a/notes to Cass., ord. 8 marzo 2023, n. 6874)

Abstract

Un tema di particolare attualità attiene all’eventualità che dalla vendita di oggetti d’arte, da collezione, ecc. derivino conseguenze sul piano delle imposte dirette: la Suprema Corte, con l’ordinanza 8 marzo 2023, n. 6874, è intervenuta sul tema chiarendone presupposti e limiti.

Transfer of artistic works and the triptych “collector”, “occasional speculator” and “art dealer” for the purposes of direct taxes. – A particularly topical issue concerns the possibility that the sale of art objects, collectibles, etc. consequences arise in terms of direct taxes: the Supreme Court, with order dated 8 March 2023, n. 6874, intervened on the topic by clarifying its assumptions and limits.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Il trittico “collezionista” vs. “speculatore occasionale” vs. “mercante d’arte”. – 3. Riflessioni compendiose sulla più recente giurisprudenza. – 4. La prospettiva erariale: la possibile ascrizione del differenziale a reddito diverso, ritratto da attività commerciale non esercitata abitualmente (lo “speculatore occasionale”). – 5. L’impostazione della Corte di Cassazione nella recente ordinanza 8 marzo 2023, n. 6874. – 6. Sintetiche osservazioni conclusive.

1. Sul versante normativo, interpretativo ed accertativo, un particolare tema sta acquisendo sempre maggiore attualità, ossia se e a quali condizioni dalla vendita di oggetti d’arte, da collezione, ecc. derivino conseguenze sul piano delle imposte dirette.

In tempi recenti, è intervenuta anche una pronuncia della Suprema Corte, vale a dire l’ordinanza 8 marzo 2023, n. 6874, che – ad avviso di chi scrive – potrà ben rappresentare un valido paradigma esegetico per chi nel futuro si accosterà a tale materia, anche alla luce della “Riforma fiscale” in itinere.

Infatti, essa recepisce e “mette a sistema” gli addentellati interpretativi già fioriti in precedenti pronunce di merito e di legittimità, facendo finalmente chiarezza, in particolare, sulle diversità che connotano il trittico “collezionista” vs. “speculatore occasionale” vs. “mercante d’arte”.

2. Per meglio mettere a fuoco il tema, ed il clima di incertezza normativa ed interpretativa in cui si colloca, giova rilevare che nella precedente versione del Testo Unico era contenuta – inter alia – una specifica disposizione “di chiusura” che imponeva di tassare i guadagni realizzati mediante operazioni poste in essere con intento speculativo (art. 76, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597). Soprattutto, vigeva una presunzione assoluta, secondo cui venivano considerate come “speculative” le plusvalenze derivanti dalla vendita di oggetti d’arte, qualora il periodo di tempo intercorrente tra l’acquisto e la vendita fosse non superiore ai due anni (art. 76, comma 3).

Ora, nell’attuale formulazione del Testo Unico la disposizione “di chiusura” non è stata riproposta, lasciando quindi campo aperto alle interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate e della giurisprudenza che si è formata sull’argomento.

Riducendo all’osso la categorizzazione, da tale elaborazione esegetica negli ultimi anni si è delineato un “trittico” di soggetti, in relazione a chi vende l’opera d’arte:

  1. il collezionista (per il quale non emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette);

  2. il venditore occasionale (emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, quale reddito diverso); trattasi di categoria “sfumata” tra le due, collocandosi in una sorta di limbo di sospensione ed essendo stata coltivata negli ultimi tempi dall’Amministrazione finanziaria;

  3. il mercante d’arte (emerge reddito imponibile ai fini delle imposte dirette, quale reddito d’impresa).

Provando ad analizzare nel dettaglio queste tipologie di soggetti, emerge sin da subito la problematicità di distinguere aprioristicamente la figura del collezionista da quella del mercante d’arte, in quanto il discrimen è squisitamente fattuale.

Tuttavia – anche attingendo alle più autorevoli impostazioni invalse in dottrina e giurisprudenza, sulle quali si indugerà nel prosieguo – si può affermare quanto segue.

Da un lato, si pone il mercante d’arte, il quale svolge “professionalmente” un’attività di intermediazione nella circolazione di opere d’arte, acquistandole col fine di rivenderle sul mercato e ritrarne un lucro (sin dall’acquisto, il bene è inteso verso una destinazione esterna).

Dall’altro lato, si colloca il collezionista, il quale non esercita “professionalmente” un’attività di intermediazione nella circolazione di opere d’arte, in quanto le sue operazioni sono volte a soddisfare in primis un desiderio squisitamente estetico e personale: infatti, l’acquisto non è preordinato alla successiva rivendita sul mercato ed assume perciò una destinazione meramente privata, tanto che l’opera d’arte può essere considerata una parte del patrimonio personale del collezionista (v., in dottrina, v. Stevanato D., La vendita frazionata di una collezione d’arte configura una “attività commerciale occasionale”?, in Dialoghi dir. trib., 2004, 1, 65 ss.; Scarioni P. – Angelucci P., La tassazione delle opere d’arte, Milano, 2014, 87 ss.; Leo M., La necessità di regole più chiare per la tassazione del mondo dell’arte, in Corr. trib., 2021, 10, 830 ss.; Artuso E. – Bisinella I., Note sulla fiscalità diretta delle cessioni di opere d’arte, tra “collezionista”, “mercante d’arte” e “speculatore occasionale”, in Riv. tel. dir. trib., 2019, 2, VIII, 391 ss.; Bagarotto E.M., Regime tributario della cessione di opere d’arte, in Rass. trib., 2019, 2, 290 ss., Artuso E. – Bisinella I., Le conseguenze, ai fini delle imposte dirette, della vendita di beni da collezione, in Dir. prat. trib., 2021, 3, II, 1351 ss.).

In altre parole, se vogliamo più semplicistiche, l’obiettivo del collezionista non è ritrarre un “utile”, bensì fruire della disponibilità, della vista dell’opera. D’altro canto, il collezionista non svolge ponderose attività funzionali e/o propedeutiche alla (ipotetica) rivendita, bensì – a tutto concedere – perfeziona cessioni “atomistiche” (non solo nel senso di “sporadiche”, di “non abituali”, bensì anche di “sganciate” da un’attività intesa come pluralità di atti provvisti fra loro di collegamento funzionale), e pertanto non tassabili.

Al mercante d’arte, dal punto di vista tributario, non vi è dubbio che sia applicabile l’art. 55 TUIR relativo al reddito d’impresa, in forza del rinvio operato all’art. 2195 c.c. che include tra le attività commerciali l’attività di intermediazione nella circolazione dei beni: realizzano quindi reddito d’impresa i soggetti che compravendono opere d’arte per professione abituale, che cioè svolgono tale attività in modo non occasionale bensì con stabilità e regolarità nel tempo.

Occorre precisare che a tal fine non rileva (i) né il fatto che l’attività sia esclusiva – per cui si può essere imprenditore “fiscalmente” anche se si svolgono ulteriori attività – (ii) né il requisito dell’organizzazione, la cui ricorrenza non è necessaria per configurare la sussistenza di un’attività imprenditoriale ai fini IRPEF, allorquando si sia in presenza di attività riconducibili all’art. 2195 (cfr. art. 55, comma 1, TUIR; quanto al requisito organizzativo, di diverso tenore è invece il comma 2).

Per quanto concerne invece il collezionista, vale notare che la mancata imponibilità di una somma che, da un punto di vista economico costituisce indubbiamente un incremento patrimoniale, non pare asistematica: ciò, anche considerato che il Legislatore dell’odierno TUIR (invece di porre riferimento univoco alla nozione di “reddito entrata” vs. di “reddito prodotto” vs. di “reddito consumo”) ha preferito “cesellare” in modo casistico le fattispecie imponibili – in specie per i redditi diversi, di cui all’art. 67 – omettendo di identificare una ratio univoca (per l’effetto, già mettendo in conto eventuali “smagliature”, intese come forme di arricchimento che sfuggono a tassazione).

Insomma, allo stato attuale manca l’espresso riconoscimento normativo dell’intento speculativo che porterebbe ad escludere da imposizione le plusvalenze derivanti dalla cessione degli oggetti d’arte (per alcune indicazioni circa gli elementi di prova da parte del fisco circa l’appartenenza a una “collezione” degli oggetti d’arte o di rilevanza storica oggetto di cessione, v. Ingrao G., Diritto tributario, Padova, 2023, 225).

Di talché – come si vedrà più diffusamente – non di rado l’Amministrazione finanziaria fa leva sulla ricostruzione dello schema del reddito commerciale di natura occasionale, per certi versi implicito in talune fattispecie, vuoi per le caratteristiche dell’operazione e della tempistica, vuoi per la tipologia di bene oggetto di investimento, con ciò qualificando il collezionista quale venditore occasionale (posizione intermedia tra collezionista e mercante d’arte), le cui vendite generano plusvalenze incasellabili quali redditi diversi.

3. La disamina della più recente giurisprudenza può rivelarsi di giovamento, permettendo di fissare alcuni punti, connessi tra loro:

  • è fisiologico che un collezionista acquisti e venda opere d’arte allo scopo di cambiare ed arricchire la propria collezione: porre in essere – anche in modo significativo – acquisti e vendite, infatti, risponde al mutamento della percezione estetica, non al fatto che si sta ponendo in essere attività imprenditoriale. In altre parole, la dedizione nel tempo alla creazione ed al mantenimento della propria collezione, e l’esperienza via via accumulata in materia artistica, non integrano la ripetizione sistematica di atti di commercio tipici dell’esercente professionale un’attività imprenditoriale (sul punto, cfr. ad esempio Comm. trib. reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412);

  • pertanto, la distinzione tra il “collezionista” ed il “mercante d’arte” comporta una – non semplice – valutazione tra (i) chi acquista un bene d’arte per fini speculativi, e (ii) l’amatore che compra un’opera per tenerla per sé, ma successivamente la rivende e guadagna senza aver avuto di mira il lucro, magari per acquistare altra opera d’arte che più lo appassiona (è, appunto, il noto concetto del “rinnovamento” della collezione). La linea di demarcazione tra i menzionati soggetti è rappresentata dalla presenza o meno dei requisiti della commercialità, integrata qualora la vendita venga realizzata in via professionale ed abituale: questi ultimi requisiti devono emergere dalla frequenza e reiterazione con cui il soggetto realizza atti economici finalizzati al raggiungimento di uno scopo, non già dal perfezionamento di sporadiche cessioni (sul punto, cfr. ex pluribus Cass., sez. trib., 20 ottobre 2011, n. 21776; Comm. trib. prov. Pisa, 13 gennaio 2004, n. 33; Comm. trib. reg. Palermo, 13 gennaio 2012, n. 2; Comm. trib. I grado Trento, 8 ottobre 2013, n. 83; Comm. trib. reg. Firenze, 9 maggio 2016, n. 826);

  • insomma, altro è la dismissione di opere d’arte da parte del collezionista proprietario, altro è lo svolgimento di un’attività imprenditoriale nell’ambito della compravendita di opere d’arte. Nello smembrare un patrimonio, le ragioni possono essere le più varie, quali la necessità di reperire liquidità per immetterla in proprie diverse attività imprenditoriali, sostenere ingenti spese giudiziarie di carattere personale, pianificare la successione tra gli eredi, così evitando future controversie, ecc. (cfr., per questa eterogenea casistica, ex multis Comm. trib. reg. Venezia, 22 febbraio 2016, n. 279; Comm. trib. I grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191; Comm. trib. prov. Torino, 19 aprile 2018, n. 351; Comm. trib. reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412; Comm. trib. reg. Torino, 14 maggio 2019, n. 637);

  • il trascorrere di un significativo arco temporale tra acquisto e vendita depone verso l’assenza di una finalità imprenditoriale o speculativa, intesa nel senso di acquisto quale atto prodromico posto in essere, sin da subito, con la finalità di perfezionare una successiva rivendita (cfr. Comm. trib. I grado Venezia, 2 giugno 1994, n. 323; Comm. trib. I grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191; Comm. trib. reg. Torino, 18 settembre 2018, n. 1412);

  • il conseguimento di prezzi inferiori a quelli di mercato è sintomatico dell’assenza di uno scopo lucrativo (cfr. Comm. trib. prov. Torino, 19 aprile 2018, n. 351, trovatasi a giudicare di un’unica vendita di più automobili di pregio ad un’unica società acquirente con l’inevitabile contenimento dei prezzi stabiliti per ciascuno dei beni, rispetto a quelli conseguibili con una vendita parcellizzata, sviluppata verso più controparti; ed ancora, cfr. Comm. trib. reg. Venezia, 22 febbraio 2016, n. 279, secondo cui nel caso controverso erano stati effettivamente conseguiti corrispettivi inferiori a quelli di mercato, come da risultanze di apposite perizie).

In ogni caso, vale notare che secondo Comm. trib. I grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191, la ricerca del maggior ricavo possibile è comunque del tutto legittima per il collezionista, anche in presenza di una operazione che, più che occasionale, può definirsi “unica”, senza che tale circostanza dia luogo a reddito imponibile;

  • la modalità di cessione tramite casa d’aste può ampiamente giustificarsi per l’originalità e la particolarità dell’operazione (cfr. Comm. trib. I grado Venezia, 2 giugno 1994, n. 323; Comm. trib. I grado Trento, 27 novembre 2017, n. 191, secondo cui un quadro di particolare rilevanza non può essere affidato a “mani inesperte” né si può pensare possa facilmente cedersi tra privati);

  • l’attività commerciale occasionale, rilevante ai fini reddituali, per essere apprezzata deve presentare una duplice, congiunta caratteristica. In primo luogo devono essere positivamente riscontrati continui e molteplici rapporti con i terzi sia al fine di organizzare i fattori produttivi (l’acquisto), sia al fine di scambiare i prodotti o servigi creati (la vendita); in secondo luogo, la presenza di una alimentazione finanziaria creditizia esterna anche temporanea, che ne costituisca supporto non disgiunto dalla professionalità necessitata, non potendosi anche nell’attività commerciale elidere il requisito di una seppure minima organizzazione, essendo all’evidenza irrilevante, assumere a riferimento una auto-organizzazione cioè una organizzazione di se stesso senza il pur minimo contributo esterno (così Comm. trib. prov. Brescia, 2 luglio 2020, n. 261).

Riepilogando, nel corso del tempo i casi concreti trattati dalla giurisprudenza hanno evidenziato alcuni eterogenei “indicatori di commercialità” (badges of trade) tali da far ricadere (o meno) l’attività di vendita dell’opera in quella del mercante d’arte, ovvero in quella dello speculatore occasionale, ovvero ancora (ed infine) in quella del collezionista, qui elencati rapsodicamente:

  • la finalità contingente della vendita (ad esempio, dismissione patrimoniale per esigenza di liquidità);

  • il perfezionamento di un acquisto preordinato “a monte”;

  • l’arco temporale intercorso tra l’acquisto e la rivendita degli stessi beni (ad esempio, nel medesimo periodo d’imposta);

  • lo svolgimento di un’attività promozionale, pubblicitaria (esposizione delle opere al pubblico o su cataloghi, ecc.);

  • la numerosità delle operazioni;

  • il numero degli acquirenti;

  • la “complessità” dell’attività (molteplicità delle fasi che la compongono);

  • il ricorso al credito per sostenere l’attività in esame;

  • la precedente esperienza nel settore;

  • l’ammontare dell’investimento;

  • l’esistenza di una organizzazione latamente intesa (collaboratori, mezzi trasporto, sito internet, ecc.).

4. In alcuni recenti casi, l’Amministrazione finanziaria ha tentato di superare l’originaria dicotomia tra “collezionista” e “mercante d’arte”, ascrivendo il guadagno realizzato dal collezionista con la vendita di un’opera d’arte non più a reddito d’impresa, bensì a reddito diverso, derivante da “attività commerciali non esercitate abitualmente” (art. 67, comma 1, lett. i, TUIR). Pertanto, alimentando la categoria intermedia di cui si accennava retro.

Ciò in quanto il collezionista svolgerebbe comunque – seppur in modo occasionale – un’attività commerciale di intermediazione nella circolazione dei beni (acquisto e rivendita di un’opera, anche laddove tra le due operazioni intercorra un non trascurabile intervallo temporale).

In ciò, il Fisco valorizza l’esistenza di una serie di attività asseritamente finalizzate all’acquisto ed alla rivendita con l’intento di realizzare un profitto, così riscontrando una “preordinazione” tra le predette fasi quali operazioni caratterizzate dalla loro combinazione funzionale, peraltro stressando il concetto – tutt’altro che piano – di “valorizzazione”.

In altre parole, secondo la prospettiva erariale la tassazione è giustificabile se “a monte” viene implementata una qualche attività, latamente intesa, volta ad accrescere il valore dell’opera. In definitiva, la vendita dell’opera potrebbe quindi dare luogo, in capo al collezionista (assurto a “speculatore occasionale”), ad un reddito tassabile ai fini IRPEFi. Proprio a questo filone interpretativo è riconducibile, ad esempio, l’accertamento poi vagliato dalla Comm. trib. prov. Brescia, 2 luglio 2020, n. 261.

5. Come si diceva in precedenza, la recente ordinanza Corte Cass., 8 marzo 2023, n. 6874, costituisce una sorta di summa sistematizzata degli approdi giurisprudenziali appena citati, forgiando in maniera nitida il trittico di categorie sopra enucleato.

A tal fine, giova riproporre i passaggi nodali della chiara e condivisibile pronuncia: «preso atto che il Testo Unico delle Imposte sui Redditi non prevede una normativa specifica sulla tassazione delle compravendite di opere d’arte effettuate dai privati, va definito come mercante di opere d’arte colui che professionalmente e abitualmente ne esercita il commercio – anche in maniera non organizzata imprenditorialmente – col fine ultimo di trarre un profitto dall’incremento del valore delle medesime opere; come speculatore occasionale, chi acquista occasionalmente opere d’arte per rivenderle allo scopo di conseguire un utile. Il collezionista è, infine, chi acquista le opere per scopi culturali, con la finalità di incrementare la propria collezione e possedere l’opera, senza l’intento di rivenderla generando una plusvalenza».

Il Supremo Collegio precisa ulteriormente quanto segue, con riferimento al collezionista: «L’interesse del collezionista è quindi rivolto non tanto al valore economico della res quanto a quello estetico-culturale, per il piacere che il possedere le opere genera, per l’interesse all’arte, per conoscere gli artisti, per vedere le mostre».

Da ciò, vengono tratte queste conseguenze sul piano tributario: «Con riguardo alla casistica di cui sopra, il sistema fiscale italiano prevede, come anticipato, conseguenze differenti: per il primo (il mercante d’arte) si è in presenza di redditi d’impresa ex artt. 55 ss. TUIR e di passività ai fini IVA come previsto dall’art. 4 del DPR 633/72. Lo speculatore occasionale potrà generare i redditi diversi di cui all’art. 67, c. 1, lett. i), TUIR non trovando però assoggettamento ai fini IVA per mancanza del requisito dell’abitualità. Il collezionista invece non sarà soggetto ad alcuna imposizione. La dottrina ha enucleato gli elementi su cui fondare la diversa qualificazione, quali: lo scopo dell’acquisto, la frequenza e il numero delle transazioni, la durata del possesso, le attività finalizzate a facilitare la vendita e infine l’esame delle ragioni che hanno portato all’alienazione.

La giurisprudenza ha individuato il discrimine sulla base del requisito dell’abitualità, di cui all’art. 55 TUIR sopra richiamato in tema di reddito d’impresa. Questa Corte ha così rinvenuto l’esistenza di un’attività commerciale in ragione di elementi significativi idonei a dimostrare la sistematicità e la professionalità dell’attività d’impresa: numero delle transazioni effettuate, importi elevati, quantitativo di soggetti con cui venivano intrattenuti rapporti, varietà della tipologia di beni alienati, statuendo che non rileva, ai fini impositivi, che il profitto conseguito venga capitalizzato in beni e non in denaro, in quanto porta sempre intrinsecamente un arricchimento del patrimonio personale del soggetto (Cass. 31 marzo 2008, n. 8196). È così stata rinvenuta un’attività commerciale in presenza simultaneamente della rilevanza dell’investimento e dell’esclusione dell’utilizzo nella sfera personale dei beni oggetto di compravendita (Cass. 20 dicembre 2006, n. 27211)».

Movendo da queste lineari premesse, altrettanto piana (e condivisibile) pare la conclusione cui addiviene il Supremo Collegio nel caso concretamente scrutinato: «Nella fattispecie la sentenza impugnata, in coerenza con gli indicati principi, ha qualificato il contribuente come mercante e non come collezionista in base ad una serie univoca di elementi dimostrati dall’ufficio, quali: l’alienazione di opere di artisti di rilievo (Morandi, Severini, Paladino, Botero, Lichtenstein, Carrà); “la cadenza regolare negli anni e per importi notevoli, le interviste dove lo stesso contribuente si qualificava come mercante d’arte, partecipazione di incontri in tale veste”, a fronte dei quali ha considerato “vane le affermazioni del privato circa la propria natura di mero collezionista”: la valutazione del giudice di merito poggia pertanto su un quadro di elementi indiziari in grado di fondare la prova presuntiva secondo i canoni degli artt. 2727 e 2729 c.c.».

Insomma, abbracciando un approccio tanto sistematico quanto curvato sul caso concreto, il Supremo Collegio ha valorizzato, cristallizzandoli, i principali indici già emersi nella precedente produzione giurisprudenziale.

6. In ultima battuta, vale quindi ribadire che a tutt’oggi permane una consistente alea di dubbio in merito alla tassabilità (o meno), ai fini IRPEF, delle cessioni di opere d’arte perfezionate da persone fisiche: secondo chi scrive, solo la riconduzione “a sistema” e la valorizzazione del caso concreto consentono di sciogliere le tutt’altro che trascurabili scivolosità del tema.

Piuttosto, considerato il sempre maggior numero di casi controversi e la difficoltà ad inquadrare il tema, val la pena rilevare che da più parti e da tempo si invoca una “riforma” volta a tracciare con certezza la disciplina della fiscalità diretta riconducibile alla cessione delle opere d’arte, dei beni da collezione, ecc.; per l’effetto, eliminando in radice – per quanto possibile – i margini di “scivolosità” che a tutt’oggi incombono sulle fattispecie de quibus.

Non a caso, tra gli elementi sui quali l’imminente “Riforma fiscale” interverrà, figura proprio il tema in commento, dal momento che, per i redditi diversi, costituirà principio e criterio direttivo l’introduzione di una disciplina sulle plusvalenze conseguite, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa, dai collezionisti di oggetti d’arte, di antiquariato o da collezione nonché, in generale, di opere dell’ingegno di carattere creativo appartenenti alle arti figurative, escludendo i casi in cui è assente l’intento speculativo, compresi quelli di plusvalenza relativa a beni acquisiti per successione o donazione, nonché esonerando i medesimi da ogni forma dichiarativa di carattere patrimoniale (così art. 5, comma 1, lett. h, n. 3, L. 9 agosto 2023, n. 111)ii.

L’ipotesi di un intervento legislativo può essere vista con favore, a patto che il concreto assetto ispiratore dei casi di assenza di intento speculativo sia modellato su basi di sistema, di certezza e di ragionevolezza, finalizzate ad un’ottica semplificatoria che, anche alla luce dei sistemi di tassazione oggi riscontrabili sul piano internazionale, riesca a rendere la disciplina italiana sul punto maggiormente competitiva sul piano fiscale.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Artuso E. – Bisinella I., Le conseguenze, ai fini delle imposte dirette, della vendita di beni da collezione, in Dir. prat. trib., 2021, 3, II, 1351 ss.

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Falsitta G., Alcune puntualizzazioni in tema di “attività commerciali non abituali”, di operazioni speculative isolate e di “capital gains”, in Rass. trib., 1990, I, 93 ss.

Falsitta G., La tassazione delle plusvalenze e delle sopravvenienze nelle imposte sul reddito, Milano, 1986, passim

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Stevanato D., La vendita frazionata di una collezione d’arte configura una “attività commerciale occasionale”?, in Dialoghi dir. trib., 2004, 1, 65 ss.

Note

i Avallando una siffatta ricostruzione, non dovrebbero essere tuttavia attratti a tassazione i capital gains conseguiti dalla vendita di opere ricevute gratuitamente, ossia per eredità o per donazione. In tali ipotesi, infatti, il soggetto (erede o donatario), non pone in essere una particolare, preordinata operazione di acquisto “a monte”, di talché nel rivendere non svolgerebbe alcuna attività commerciale (seppur a carattere occasionale), compiendo bensì un atto di semplice dismissione patrimoniale. Incentrata su una fattispecie similare, in tal senso offre spunti utili la ris. 24 gennaio 2001, n. 5/E, che affronta il caso di un’associazione senza scopo di lucro che dismetteva opere d’arte ricevute, quali conferimenti in natura, dagli autori ciò, al fine di garantirsi un polmone di liquidità per la sussistenza. Secondo l’Amministrazione finanziaria, siffatta operazione si incardina in una mera dismissione patrimoniale, in quanto tale non assoggettabile a tassazione. Peraltro, in questa direzione pare dirigersi anche il contenuto della “Riforma fiscale”, sulla quale verranno spese alcune riflessioni in sede conclusiva.

ii Per ulteriori ed ampi riferimenti, si rinvia ai seguenti link ed ai documenti ed approfondimenti dagli stessi recati: https://temi.camera.it/leg19/provvedimento/il-disegno-di-legge-di-delega-per-la-riforma-fiscale.html#:~:text=Il2016%20marzo%202023%20il,referente%20il%205%20luglio%202023 https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/19/DDLPRES/0/1382738/index.html?part=ddlpres_ddlpres1-articolato_articolato1

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