Note a margine di una recente ordinanza di rimessione alle SS.UU. in tema di sottoscrizione digitale del ricorso in Cassazione

Di Piera Santin -

Abstract

Il commento analizza, anche con riferimento ai potenziali riflessi sul processo tributario, l’ordinanza interlocutoria della V Sezione della Corte di Cassazione che auspica l’intervento delle Sezioni Unite per chiarire quali siano gli effetti della mancata sottoscrizione digitale del ricorso notificato telematicamente.

Notes to a recent interlocutory ordinance of the Supreme Court of Cassation on the subject of digital signature of the appeal in Cassation. – The comment analyses, also with reference to the potential effects on the tax trial, the interlocutory ordinance of the V section of the Court of Cassation which calls for the intervention of the United Sections to clarify the effects of the failure to digitally sign the appeal notified electronically.

 

 

Sommario: 1. Inquadramento della vicenda – 2. Le SS.UU del 2018: un precedente “storicamente determinato” – 3. La mancanza assoluta di sottoscrizione digitale del ricorso e le diverse prospettive interpretative – 4. I possibili effetti sulla giurisprudenza di merito – 5. Considerazioni conclusive.

1. Nel giugno 2023 la V sezione della Corte di Cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite un quesito relativo alle conseguenze della mancata sottoscrizione del ricorso introduttivo del giudizio di Cassazione notificato telematicamente e depositato analogicamente dall’Avvocatura dello Stato in qualità di assistente tecnico necessitato dell’Agenzia delle Entrate. Si tratta, in particolare, di ricorso presentato dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di appello con cui la CTR del Lazio aveva affermato l’estraneità del resistente ad una frode carosello legata a operazioni oggettivamente inesistenti. La società contribuente ha resistito con controricorso, con cui eccepiva l’improcedibilità del giudizio a fronte della mancata sottoscrizione dell’atto, nativo digitale, notificatole telematicamente. Il ricorso notificato in via telematica alla società, infatti, era stato trasmesso a mezzo PEC nella forma di un documento telematico, dunque non un cartaceo scansionato, ma privo di firma digitale. Il contribuente sostiene, l’applicabilità al caso di specie della consolidata interpretazione giurisprudenziale, pur riferita a processi esclusivamente analogici, secondo cui il ricorso privo della sottoscrizione dell’avvocato deve considerarsi giuridicamente inesistente e, quindi, inammissibile, in applicazione del principio generale sancito dall’art. 161, comma 2, c.p.c.

A questa lettura l’Avvocatura dello Stato ha opposto un’interpretazione alternativa, basata su una massima estratta da una pronuncia delle SS.UU. di Cassazione n. 22348/2018, in forza della quale «in tema di giudizio per cassazione, in caso di ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica, l’atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto steso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo».

I giudici di legittimità, quindi, si interrogano sulla possibilità di applicare direttamente al caso di specie la massima citata dall’Avvocatura dello Stato, estrapolata, come detto, da un precedente a Sezioni Unite del 2018, che riguardava effettivamente la procedibilità di un ricorso nativo digitale, sottoscritto e notificato telematicamente ma depositato in Cassazione in copia analogica, stante l’assenza, all’epoca, delle infrastrutture digitali per il processo telematico davanti alla Suprema Corte.

L’ordinanza in commento merita di essere analizzata sotto due distinti punti di vista: da un lato l’assimilabilità del caso di specie, ossia l’omessa sottoscrizione del ricorso depositato dall’Avvocatura, alla vicenda decisa nel 2018 e, quindi, l’applicabilità al primo delle massime tratte dal secondo; d’altro canto, il possibile impatto della decisione assunta dalla Cassazione sui giudizi tributari di merito e specificamente sull’individuazione dei limiti dell’improcedibilità a fronte di vizi collegati alla firma digitale.

2. È interessante notare come molta parte dell’ordinanza di rimessione è dedicata dai giudici all’esposizione delle ragioni per cui, pur in assenza di un conflitto interpretativo e, viceversa, in presenza di un precedente a Sezioni Unite pronunciato ex art. 363 c.p.c., dunque con un esclusivo intento nomofilattico, il Collegio ritenga necessario un nuovo intervento del massimo consesso.

Per capire le ragioni di questa scelta è necessario un, pur breve, approfondimento del contesto in cui è maturata la pronuncia del 2018, nonché dei suoi approdi interpretativi. La sentenza evocata dall’Avvocatura di Stato come fondamento per una nuova interpretazione del vizio di mancata sottoscrizione digitale, nasce, infatti, in un contesto peculiare e risponde all’esigenza di arginare il contenzioso che sarebbe potuto nascere da una aporia tecnico-sistematica. Fino all’entrata in vigore della riforma Cartabia, e dal momento in cui è divenuto ammissibile anche per i ricorsi in Cassazione la notifica telematica, si veniva a creare una situazione per cui l’atto originale notificato alla controparte avrebbe dovuto essere completamente dematerializzato e firmato digitalmente, senza che, però, fosse possibile il deposito di un atto digitale presso la Cancelleria della Cassazione. Di conseguenza il dubbio, affrontato e risolto proprio dalla sentenza del 2018, in ordine alla procedibilità di un ricorso di cui fosse stata depositata copia analogica informe, non sottoscritta con firma autografa dei difensori, insieme alle copie cartacee del massaggio di PEC e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna prove dell’attestazione di conformità ex art. 9 commi 1-bis e 1-ter, L. n. 53/1994.

In quella circostanza la Suprema Corte ha affrontato il problema con ragionevole pragmatismo, e si è risolta per un’interpretazione che viene definita liberale, in quanto tesa a superare la rigorosa sanzione dell’inesistenza dell’atto e della conseguente improcedibilità del giudizio in un’ottica di tutela dei principi costituzionali ed europei del diritto di difesa e del giusto processo. I giudici, infatti, hanno rilevato allora come il deposito della copia “non autentica” fosse un’inevitabile conseguenza strutturale dell’assenza, in Cassazione, delle infrastrutture necessarie alla realizzazione del processo civile telematico.

Un documento, e in specie un atto giudiziario, nato digitale e digitalmente sottoscritto, infatti, fonda il suo riconoscimento di originalità, nonché la sua utilizzabilità in sede processuale sull’utilizzo di una tecnologia che l’ordinamento (art. 20 CAD) qualifica come “firma digitale”. Detto sistema si basa su un meccanismo di criptaggio e decrittaggio del contenuto del documento firmato, in forza del quale l’autore, firmando, cripta il file e lo dota di un chiave pubblica di lettura, trasmessa ai destinatari del file medesimo. In tal modo chiunque ne sia destinatario potrà accedere al suo contenuto con la duplice garanzia sia dell’origine dell’atto, sia della sua originalità, posto che l’apposizione della firma digitale ne impedisce ogni modifica successiva.

Una volta stampato, il documento perde entrambe queste garanzie, che sono intrinseche alla sua natura e alla sua fruizione, entrambe digitali. Né si sarebbe potuto affermare che il documento stampato e sottoscritto analogicamente fosse lo stesso notificato alla controparte, giacché le disposizioni relative alle notifiche telematiche fanno riferimento all’originale firmato digitalmente. La mancanza di infrastrutture, quindi, avrebbe potuto determinare un’empasse potenzialmente suscettibile di colpire un largo numero di processi davanti la Corte di Cassazione, con la conseguente lesione del diritto di difesa e accesso al giudizio. La preoccupazione dei giudici, quindi, è stata quella di spendersi per un bilanciamento tra la sanzione radicale derivante dalla mancanza di un elemento formale e l’esigenza di tutela di detti diritti e principi fondamentali, in particolare alla luce del fatto che si trattava di un’aporia sistematica non riconducibile alla condotta delle parti.

In quest’ottica, e avendo ben presente le circostanze strutturali, le Sezioni Unite hanno qualificato il tempestivo deposito della sola copia analogica del ricorso nativo digitale notificato come una fattispecie a formazione progressiva, che viene ad esaurirsi in un lasso temporale da reputarsi proporzionato e ragionevole. In particolare, l’articolato principio di diritto enunciato dalla Cassazione nell’interesse della legge prevede che in caso di deposito tempestivo della copia analogica, senza attestazione di conformità o con attestazione di conformità priva di sottoscrizione autografa sia sufficiente che il controricorrente si costituisca, sia che depositi la copia analogica autenticata del ricorso notificatogli, sia che non lo faccia, per ritenere il vizio sanato per fatti concludenti. Se, invece, il destinatario della notificazione rimanga solo intimato sarà necessario, pena l’improcedibilità del ricorso, che il ricorrente depositi asseverazione di conformità all’originale della copia analogica depositata

3. La circostanza del caso che ha dato origine all’ordinanza in commento è diversa: l’assenza di sottoscrizione del ricorso notificato non è contestata, né bilanciata dal deposito telematico dell’originale firmato digitalmente, poiché al momento dell’instaurazione del giudizio non era ancora entrata in vigore la già citata riforma Cartabia, con la conseguente telematizzazione anche del giudizio di legittimità.

Dal punto di vista della ricerca dell’originale, presidio della paternità e della legittimità dell’azione legale esercitata, la condizione di fatto è alquanto diversa da quella del 2018 e sembrerebbe più vicina a quell’assenza radicale di sottoscrizione che dovrebbe condurre ad un giudizio di inesistenza giuridica dell’atto. È appunto sulla base di queste considerazioni che i giudici rimettenti argomentano la richiesta di un nuovo intervento delle Sezioni Unite. A maggior ragione ove si consideri che, nel caso della difesa assunta dall’Avvocatura, com’è nel caso di specie, neppure vi sarebbe la possibilità di ricorrere, ai fini dell’attribuzione della paternità certa dell’atto, alla firma per autentica in calce alla procura speciale, poiché quest’ultima non è necessaria nell’ipotesi in cui la parte sia abilitata ad avvalersi, appunto, dell’Avvocatura dello Stato.

È, dunque, opportuno rileggere la massima citata dall’Avvocatura alla luce del contesto così descritto, con riferimento sia al caso che ha dato origine all’ordinanza in commento, sia alle circostanze delle SS.UU. nel 2018. Si deve sottolineare che il passaggio massimato, sebbene non possa essere considerato un obiter dictum, rappresenta però uno snodo del ragionamento dei giudici intrinsecamente collegato alle circostanze. Tutta la motivazione della sentenza, infatti, è tesa a sostenere la tesi interpretativa secondo cui la sanzione dell’inesistenza e la conseguente improcedibilità del ricorso devono essere adeguate proporzionalmente alle circostanze e all’esigenza di garantire il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale e al giusto processo. Non solo, tale conclusione muove, giova ricordarlo ancora una volta, dal presupposto per cui esiste un ricorso originale di indubbia attribuzione, di cui però, per ragioni indipendenti dalla volontà e financo dalla diligenza del ricorrente, è stata depositata una mera copia informe.

La massima estratta, quindi, rientra in una porzione dell’argomentazione specificamente tesa a ribadire l’importanza della sottoscrizione dell’originale notificato telematicamente per la corretta instaurazione del processo, diversamente da quanto avviene per il deposito in Cancelleria per cui è ammissibile la copia informe con attestazione di conformità depositata ex post. Viceversa, il riferimento alla possibilità di riconoscere aliunde la paternità dell’atto non viene ulteriormente sviluppato nel ragionamento. Siffatto riferimento, quindi, può essere compreso solo se integrato nel più ampio ragionamento che vuole evitare la sanzione dell’inesistenza tutte le volte in cui ci siano delle circostanze tali da renderla sproporzionata. Si può immaginare, in un contesto più ampio, come un rinvio alla presenza dell’autentica in firmata digitalmente della firma dell’assistito, o, più facilmente, al deposito in Cancelleria del documento sottoscritto, una volta completata la transizione al processo telematico anche in Cassazione.

La compiuta contestualizzazione della massima citata dal ricorrente consente, quindi, di concludere nel senso della piena ragionevolezza dei dubbi sollevati dalla V Sezione nell’ordinanza in commento, anche alla luce dell’obiettivo di fare chiarezza sui limiti formali del processo telematico di Cassazione, ormai a regime. Non solo, l’analisi circostanziata conduce anche all’auspicio dell’elaborazione di un principio di diritto che valorizzi adeguatamente il concetto di “documento originale” e che gradui adeguatamente gli effetti in base alla sua verificabilità.

4. La scelta ermeneutica che verrà presa dalla Corte di Cassazione, a maggior ragione se a Sezioni Unite, avrà un impatto anche sui giudizi di merito. Sin dal 2019 il processo tributario è integralmente telematico e, di conseguenza, interessato dai problemi relativi alla mancanza di firma digitale degli atti, in particolare del ricorso introduttivo del giudizio. Come noto, e a prescindere dall’avvento del processo tributario telematico, l’art. 18 D.Lgs. n. 546/1992 prevede in modo esplicito l’obbligo di sottoscrizione del ricorso a pena di improcedibilità.

Detta previsione, con la conseguente, più grave sanzione dell’improcedibilità, è stata però mitigata nel tempo dal consolidarsi di una giurisprudenza, sebbene ancora riferita al processo analogico, secondo cui l’inesistenza del ricorso deve essere rilevata solo nei casi di difetto assoluto di sottoscrizione. Ne deriva la possibilità di ritenere sottoscritti i ricorsi in cui fosse presente la sola sottoscrizione del conferimento del mandato o dell’originale notificato (analogicamente) e non della copia depositata. Detto altrimenti, pur con riferimento a processi cronologicamente precedenti all’entrata in vigore del processo tributario telematico, la giurisprudenza sia di merito sia di legittimità ha iniziato a dare applicazione a quell’approccio liberale resosi necessario a seguito degli interventi della Corte costituzionale e delle Corti europee. L’idea è, infatti, che l’obbligo di sottoscrizione di cui all’art. 18 D.Lgs 546 del 1992 sia giustificato se e nella misura in cui è teso a garantire la tutela dell’identità e del ricorrente e del suo difensore, non espleti una funzione meramente “tecnica”. Di conseguenza, la possibilità di individuare con certezza la paternità dell’atto e, al contempo, l’esistenza di una versione originale del documento, sebbene quella depositata e non quella notificata, si dovrebbe poter tradurre in una sanabilità del vizio derivante dalla mancata sottoscrizione e, quindi, dalla possibilità di proseguire il giudizio. Come si legge in Cass. n. 3089/2019, si tratta dell’applicazione particolare del principio generale secondo il quale «è necessario, difatti, dare alle norme processuali […] una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia che è istituzionalmente propria del processo e, però, consenta, per quanto possibile, di limitare al massimo l’operatività di irragionevoli sanzioni d’inammissibilità in danno delle parti che di quella garanzia dovrebbero giovarsi».

Al contempo, l’art. 16-bis del Testo Unico rinvia alle disposizioni regolamentari di carattere tecnico la cui osservanza è essenziale per verificare il rispetto della norma. Esse, in particolare, prevedono che la notifica telematica debba avvenire con la trasmissione via PEC di documenti telematici, per la cui attestazione di originalità è prevista l’apposizione della firma digitale. Non basta, perché le disposizioni attuative, e in particolare il decreto del Direttore generale delle finanze 4 agosto 2015, all’art. 10, lett. c) prevedono che gli atti del processo telematico debbano essere necessariamente atti redatti tramite l’utilizzo di appositi strumenti software senza restrizioni per le operazioni di selezione e copia di parti, con la conseguenza di considerare inammissibili i documenti scansionati.

Sulla base di questo inquadramento normativo è andata formandosi una giurisprudenza di merito particolarmente restrittiva sul punto, in forza della quale non sarebbero ammissibili i ricorsi notificati e depositati nella forma di un pdf-immagine, cioè un documento stampato e scansionato, seppure firmato digitalmente. Ciò perché un pdf-immagine, seppure in formato PADES o CADES, in ragione della firma digitale apposta, non corrisponderebbe alla citata descrizione di cui all’art. 10 del decreto direttoriale del 2015. Sotto questo aspetto, però, la posizione dei giudici di merito sembra piuttosto dogmatica e più rigida di quella assunta con riferimento ai processi analogici. Non è dato, infatti, rinvenire una giustificazione che sia diversa da quella dell’incompatibilità con le disposizioni regolamentari, vincolanti in forza del rinvio diretto presente nell’art. 16-bis.

Tuttavia, siffatta interpretazione rigorosa, sembra opinabile sotto il profilo sia teleologico, sia sistematico. Se l’obiettivo dell’obbligo di sottoscrizione è quello di consentire la verifica dell’assunzione di responsabilità dell’esercizio dell’azione legale, allora non è chiaro come la firma digitale posta sul documento scansionato possa rappresentare un ostacolo. L’apposizione della firma, infatti, cripta il contenuto del file, dunque in questo caso un’immagine, con la conseguenza di vincolarne il contenuto, esattamente come nel caso di un documento nativo digitale. Ne consegue che, dal punto di vista dell’identificazione della paternità dell’atto, non v’è alcuna significativa differenza rispetto all’ipotesi di firma apposta su di un documento puramente digitale. Al contempo, detto approccio ultra-positivista pone dei problemi sotto il profilo del rispetto dell’art. 23 della Costituzione. Limitare l’esercizio di un diritto costituzionalmente tutelato sulla base del mancato rispetto di un requisito tecnico previsto da un decreto direttoriale rappresenta una scelta ermeneutica talmente restrittiva da poter costituire una violazione anche della riserva di legge, oltre a confliggere con la già richiamata interpretazione liberale propugnata dalla giurisprudenza costituzionale ed europea.

È chiaramente diversa, invece, l’ipotesi in cui l’atto notificato e depositato sia la mera scansione di un documento firmato analogicamente ma privo di sottoscrizione digitale. In questo caso, infatti, non c’è modo, all’interno di un processo telematico, di avere prova dell’originalità del documento, di tal che la situazione potrebbe giustificatamente essere qualificata come una delle ipotesi di assenza totale di sottoscrizione, tali da giustificare il giudizio di inesistenza dell’atto e conseguente improcedibilità.

La seconda questione affrontata dai giudici di merito con riferimento alla sottoscrizione digitale degli atti del processo tributario telematico è quella relativa all’ipotesi di deposito del ricorso sottoscritto ma notifica della copia priva di firma digitale. La giurisprudenza maggioritaria sembra propendere per l’inammissibilità dell’atto che venga notificato in assenza di sottoscrizione digitale, pur nell’ipotesi (d’altro canto tutt’altro che remota, visto che il caricamento di una copia non sottoscritta del ricorso rappresenta per il SIGIT un’anomalia bloccante) di deposito in Cancelleria dell’atto su cui sia stata apposta la firma digitale. La giustificazione è, ancora una volta, basata sul già richiamato vincolo posto all’art. 18, da cui consegue che la firma digitale «è l’equivalente elettronico della tradizionale firma autografa su carta, in quanto è associata stabilmente al documento elettronico sulla quale è apposta e ne attesta con certezza l’integrità, l’autenticità e la non ripudiabilità».

Ora, se è indubbio che i documenti nativi digitali, firmati appunto digitalmente, devono essere considerati del tutto equivalenti ai cartacei sottoscritti manualmente, non è chiaro quale sia la ragione per cui anche questa ipotesi debba essere risolta diversamente a seconda che si tratti di processi analogici o telematici. Deve nuovamente richiamarsi l’interpretazione, di merito e di legittimità, per cui il deposito dell’originale a fronte della notifica della copia è stata considerato ammissibile perché consente sia al giudice sia al resistente di verificare corrispondenza, veridicità e paternità del contenuto del ricorso. È però vero che il controllo del giudice è sempre, necessariamente, ex post, vale a dire in un momento in cui l’atto telematico è già stato portato a conoscenza di tutti i suoi destinatari, da parte del medesimo soggetto ricorrente. Di conseguenza, dal punto di vista della verifica pubblicistica dell’originalità e corrispondenza dell’atto, non sembrerebbe esserci una significativa differenza tra le due modalità di svolgimento del processo. Quantomeno, non una disparità tale da giustificare un approdo interpretativo opposto, come invece sembra emergere dall’attuale giurisprudenza di merito.

5. In questa fase di consolidamento a regime del processo telematico, sia di merito sia di legittimità, l’auspicato intervento delle Sezioni Unite a chiarire quale siano i limiti degli effetti prodotti dalla mancanza di firma digitale negli atti introduttivi del giudizio è di particolare importanza. Sia per quel che concerne il giudizio di Cassazione, la cui telematizzazione è, ancora, una relativa novità, sia per quel che concerne i principi interpretativi applicabili al processo tributario.

Sotto il primo profilo, superate le difficoltà derivanti da un sistema a infrastruttura mista, in cui si contrapponeva la possibilità di effettuare notifiche telematiche all’obbligo di deposito cartaceo in Cancelleria, l’importanza della pronuncia attesa riguarda il valore della firma e della presenza di un originale che attesti l’autenticità e la paternità dell’azione giudiziaria. Al contempo, per quel che concerne il diverso tema dell’impatto sui giudizi di merito, l’intervento nomofilattico della Cassazione potrebbe imprimere un significativo cambio di tendenza a scelte interpretative fortemente influenzate dai vincoli tecnico-informatici.

In entrambi i casi la ricerca del vero passa attraverso la possibilità di individuare un atto originale, di indubbia paternità, che consenta di verificare l’attribuibilità dell’azione al ricorrente, da un lato, e l’integrità del ricorso depositato in Cancelleria, dall’altro. Come già nel processo analogico, quindi, tutte le volte in cui la presenza di un originale, sia esso notificato o depositato, in formato nativo digitale o di pdf-immagine, renda possibile l’esperimento di queste due funzioni il giudizio dovrebbe considerarsi procedibile.

Se letto in quest’ottica, pertanto, il riferimento alla sanabilità del vizio di mancata sottoscrizione, previa ricostruzione aliunde della paternità dell’atto, dovrebbe auspicabilmente trovare una sua sistematizzazione nell’invocato intervento delle Sezioni Unite. Sistematizzazione che, però, è auspicabile consenta ai giudici anche di individuare i limiti necessari all’applicazione dell’interpretazione liberale. Primo fra tutti l’assoluta assenza di un’originale, sia esso notificato o depositato, com’è nel caso della controversia che ha dato origine alla pronuncia oggi in commento.

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