La responsabilità “processuale” aggravata dell’Amministrazione finanziaria per atto di accertamento annullato in sede giurisdizionale

Di Tommaso Calculli -

(commento a/notes to Cass. civ., sez. VI, ord. 13 settembre 2022, n. 26920)

Abstract

L’ordinanza annotata ritiene ammissibile in casi eccezionali un’autonoma domanda di risarcimento dei danni per lite temeraria da parte di un contribuente che abbia già ottenuto l’annullamento giudiziale di un atto di accertamento. In questo senso depone l’interpretazione dell’oramai applicabile disciplina di cui all’art. 96 c.p.c., che al contrario non poteva essere invocato in materia tributaria nelle more del giudizio sulla validità dell’atto impositivo. In tale contesto si colloca la pronuncia della Suprema Corte, la quale si limita a richiamare un precedente delle Sezioni Unite che estende la responsabilità “processuale” aggravata anche alle condotte dell’ente impositore nella fase amministrativa, senza cogliere l’occasione per precisare la propria posizione sul rapporto tra lite temeraria e ordinario rimedio aquiliano. In ottica prospettica, peraltro, le disposizioni vigenti sembrerebbero suggerire la possibilità di adoperare l’istituto di cui all’art. 96, comma 3, c.p.c. anche nelle ipotesi in cui non sia risultata accoglibile la domanda ex art. 96, comma 1 c.p.c. per difetto dell’elemento soggettivo.

The aggravated “procedural” liability of Tax Authority for judicially annulled assessment notice. – The annotated ruling considers the autonomous claim for damages for malicious litigation to be exceptionally proposable by a taxpayer who has obtained the judicial annulment of an assessment notice. In this sense, the interpretation of the by now applicable civil procedural discipline pursuant to article 96 of the Code of Civil Procedure, which however could not be invoked in tax matters pending the judgment on the validity of the assessment. The ruling of the Supreme Court is located in this context, but it recalls only a judicial precedent by the Joint Chambers of the Court of Cassation which extends the aggravated “procedural” liability also to the conducts of the Tax Authority over the administrative phase, without taking the opportunity to clarify its position on the relationship between malicious litigation and ordinary Aquilian action. In perspective, however, the provisions in force would seem to suggest the possibility of employing article 96, paragraph 3 of the Code of Civil Procedure even in the exceptional cases in which the claim pursuant to article 96, paragraph 1 of the Code of Civil Procedure could not have been granted for the lack of the subjective element.

Sommario: 1. Introduzione. – 2. I termini della controversia. – 3. La responsabilità “processuale” aggravata in materia tributaria: dall’originaria inapplicabilità dell’art. 96 c.p.c. all’espresso richiamo in vigore dal 2016. – 4. L’autonomia della domanda di risarcimento dei danni per lite temeraria come extrema ratio: l’approdo e l’iter motivazionale. – 5. Il labile confine tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 96 c.p.c., comma 1 in relazione ai danni cagionati nella fase amministrativa. – 6. L’art. 96, comma 3, c.p.c. quale rimedio (solamente) equitativo a disposizione del giudice. – 7. Conclusioni.

1. La Corte di Cassazione con l’ordinanza in commento ha ritenuto proponibile dinanzi al giudice tributario un’autonoma domanda di risarcimento dei danni materiali e morali ex art. 96, comma 1, c.p.c. (c.d. “responsabilità aggravata”) nell’ipotesi in cui il ricorrente si sia trovato in una condizione di impossibilità materiale o giuridica di avanzare la medesima pretesa nell’ambito di un precedente giudizio in cui abbia ottenuto l’annullamento di un atto impositivo.

Il giudice tributario veniva adito per valutare ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.c. la condotta tenuta dall’ente impositore nel procedimento di adozione di un atto di accertamento sintetico, emesso anteriormente al 1993 e in seguito annullato con pronuncia passata in giudicato. Il giudizio sulla legittimità del provvedimento veniva instaurato e si esauriva in entrambi i gradi sotto la vigenza di una disciplina che non permetteva l’applicazione delle disposizioni processualcivilistiche sulle cc.dd. “spese di lite” (artt. 90-97 c.p.c.). Pertanto, il contribuente ha potuto attivare tale rimedio solamente a seguito del passaggio in giudicato della sentenza favorevole e, comunque, dopo l’entrata in vigore di un rinvio esterno al c.p.c. che ammettesse pacificamente l’applicazione nel processo tributario dell’art. 96 c.p.c. (c.d. “lite temeraria”).

L’ordinanza perviene ad approdi condivisibili con riferimento alla marginale fattispecie sottoposta alla cognizione della Corte, sebbene le tesi risultino sorrette da meri richiami testuali a precedenti di legittimità. Per contro, la pronuncia in esame risulta meritevole di commento in quanto offre una parziale ricognizione dello stato dell’arte giurisprudenziale sulla materia della responsabilità “processuale” aggravata, istituto idoneo altresì ad incidere prospetticamente sul corretto esercizio del potere impositivo.

Nella presente nota si tenterà di evidenziare come il collegio giudicante avrebbe potuto cogliere l’occasione per indagare funditus gli orientamenti giurisprudenziali citati e le criticità che emergono sul versante della tutela risarcitoria a fronte di condotte illecite dell’Amministrazione finanziaria. Sarà così passato in rassegna il tema che sarebbe potuto emergere da un esame critico delle pronunce ivi richiamate, ovverosia il discrimine tra la domanda di risarcimento danni per responsabilità “processuale” aggravata, il rimedio aquiliano tout court e l’eventuale liquidazione equitativa ex art. 96, comma 3, c.p.c.

 

2. La pronuncia trae origine dal ricorso per Cassazione presentato dal contribuente nel 2020 avverso la sentenza del giudice di seconde cure. Quest’ultima aveva confermato l’inammissibilità del ricorso con cui si domandava la condanna per lite temeraria in relazione all’emissione di un atto di accertamento annullato giudizialmente in via definitiva, ritenuti assenti i presupposti di cui all’art. 96, comma 1, c.p.c.

In particolare, la sentenza di primo grado era stata gravata nel 1993, anno nel quale non poteva ancora trovare applicazione l’istituto della lite temeraria giusto il disposto dell’art. 39 D.P.R. n. 636/1972. Infatti, a mente dell’articolo in questione, «[a]l procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applica[va]no, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le  singole imposte, le norme contenute nel libro I del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a 67, dell’art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97».

La disposizione appena citata veniva abrogata con il D.Lgs. n. 546/1992, contestualmente all’introduzione di un più ampio rinvio esterno al codice di procedura civile; d’altro canto, l’art. 80, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 fissava quale dies a quo di efficacia del nuovo corpo normativo «la data di insediamento delle commissioni tributarie provinciali e regionali». Da un punto di vista storico, ciò si è effettivamente verificato alcuni anni dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 546/1992, segnatamente il giorno 1° aprile 1996 (ai sensi del D.M. 26 aprile 1994; sul punto, anche in relazione alle prime conferme sull’estensione al giudizio tributario della responsabilità aggravata offerte da Cass. civ., 5 febbraio 1997, n. 1082, cfr. Ferraù G., Condanna per responsabilità aggravata della A.F. in caso di liti temerarie, in Corr. trib., 1997, 22, 1632 ss.).

Pertanto, il ricorrente versava nell’impossibilità di invocare l’applicazione dell’istituto della lite temeraria anche nelle more del secondo grado del giudizio principale. Infine, ottenuta la pronuncia definitiva di annullamento, a distanza di tempo e con riferimento alla medesima vicenda, veniva articolata apposita domanda in separato giudizio ai sensi dell’art. 96, comma 1, c.p.c., nel vigore del rinvio esterno di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992.

3. Chiarito l’antefatto processuale, preme ora delineare un quadro sintetico sulla disciplina invocata dal contribuente, senza tralasciare le disposizioni sopravvenute e oggi applicabili nel giudizio tributario.

Fino al 1° aprile 1996, l’art. 39 D.P.R. n. 636/1972 è rimasto produttivo di effetti nella parte in cui escludeva espressamente il rinvio esterno alla materia delle spese di lite come delineata nel codice di procedura civile. Una simile soluzione aveva peraltro ricevuto l’avallo da parte della Corte costituzionale durante gli anni Ottanta (cfr. Corte cost., 24 novembre 1982, n. 120, con nota di Consolo C., Le spese processuali e la responsabilità da lite temeraria davanti ai giudici speciali: riflessioni indotte dalla altalenante giurisprudenza della Corte costituzionale, in Rass. trib., 1989, 1, 39 ss.).

Diversamente, la disposizione plausibilmente vigente ed efficace al momento dell’introduzione della lite in esame (la cui data non è specificata) è l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992. L’articolo in disamina impiega la tecnica del rinvio esterno per colmare le lacune normative del corpus al quale appartiene, prevedendo quale limite una valutazione di compatibilità rispetto alle peculiarità del giudizio tributario (in tal senso Bellè B., Le spese del giudizio, in Aa.Vv., Il processo tributario, in Tesauro F., diretto da, Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, Torino, 1998, 302 ss., nonché la sopravvenuta circ. 31 marzo 2010, n. 17/E). In dottrina si è giunti ad affermare la piena riferibilità del rinvio generale alla materia della lite temeraria, nonostante la “specialità” del giudizio tributario (cfr. per tutti Marianetti G. – Sepio G., Il risarcimento per lite temeraria nel processo tributario, in Riv. giur. trib., 2009, 11, 911 ss., con postilla di Glendi C., La richiesta di risarcimento da lite temeraria non è proponibile dinanzi al giudice tributario).

Al legislatore della “mini riforma” del 2015 (cfr. l’art. 9 D.Lgs. n. 156/2015) è parso opportuno specificare a chiare lettere che l’art. 96 c.p.c. potesse trovare applicazione in materia tributaria, limitatamente ai commi 1 e 3. In particolare, l’art. 15, comma 2-bis, è ora chiaro nello stabilirne espressamente l’estensibilità al giudizio tributario (cfr. Glendi C., Commento sub art. 15 del D.Lgs. n. 546/1992, in Glendi C. – Consolo C. – Contrino A., a cura di, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 2016, 152 ss.).

Invero, anche l’art. 96, comma 2, c.p.c. risultava e risulta applicabile, come testimoniato proprio dai precedenti richiamati nell’ordinanza annotata. La disposizione attiene alle procedure esecutive e prevede che «il giudice che accerta l’inesistenza del diritto per cui è stato eseguito un provvedimento cautelare, o trascritta domanda giudiziale, o iscritta ipoteca giudiziale, oppure iniziata o compiuta l’esecuzione forzata, su istanza della parte danneggiata condanna al risarcimento dei danni l’attore o il creditore procedente, che ha agito senza la normale prudenza». A fondamento di tale esclusione si potrebbe ravvisare una (risalente) concezione dell’esecuzione in senso lato come materia estranea alla cognizione del giudice tributario, assunto poi smentito dai costanti spostamenti dei confini della giurisdizione (da ultimo Cass. civ, Sez. Un., ord. 14 aprile 2020, n. 7822, con nota di Basilavecchia M. – Buttus S. – Fransoni G. – Guidara A. – Odoardi F., Esecuzione forzata e riparto di giurisdizione, in Rass. trib., 2020, 3, 821 ss.).

Tanto premesso, si rende opportuna una breve analisi delle disposizioni espressamente richiamate dall’art. 15, comma 2-bis, D.Lgs. n. 546/1992. In particolare, ai sensi del comma 1 del predetto art. 96 c.p.c., «[s]e risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza». Dunque, la legge assume a presupposto della condanna per lite temeraria sia la soccombenza (totale) di una parte, sia l’istanza della parte vincitrice. Inoltre il danno deve essere allegato e provato da colui che invoca la disposizione in commento, sebbene generalmente si tenda ad alleviare l’onere probatorio almeno sul quantum (cfr. la richiamata Cass. civ., 30 novembre 2012, n. 21570, ove si discorre di somme liquidate in via equitativa a titolo di risarcimento danni da lite temeraria). Sul versante del requisito soggettivo, l’istituto presuppone l’accertamento della mala fede nell’esercizio del proprio diritto di difesa (consapevolezza dell’infondatezza della pretesa o della difesa) ovvero la colpa grave (possibilità di avvedersi con immediatezza di siffatta infondatezza).

Diversamente, l’art. 96, comma 3, c.p.c., introdotto mediante la L. n. 69/2009 con finalità deflattiva del contenzioso “audace” e passato indenne al vaglio della Consulta (cfr. Corte cost., 6 giugno 2016, n. 139), prevede che, «[i]n ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata». La disposizione postula la condanna alle spese di lite, ma non sembrerebbe enumerare presupposti applicativi ulteriori: il legislatore ha impiegato l’espressione “in ogni caso” ponendo enfasi sulla maggiore rilevanza dell’iniziativa del giudice, che può provvedere anche d’ufficio, condannando il soccombente ad una somma determinata secondo equità e non parametrata ad un danno accertato giudizialmente. Invero, il comma 3 è stato interessato anche da una sentenza delle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 5 luglio 2017, n. 16601), che lo ha annoverato tra le ipotesi di danni punitivi legislativamente previsti, coerentemente con la statuizione del giudice delle leggi, che ne aveva affermato una natura mista tra misura sanzionatoria e istituto indennitario.

Da quanto precede, in dottrina si è diffuso il convincimento che la disposizione contempli il requisito implicito dell’accertamento di un coefficiente minimo di colpevolezza (si veda per tutti Balena G., Istituzioni di diritto processuale civile. Vol. 1, Bari, 2019, 316 ss.).

4. La tesi dell’autonoma proponibilità della domanda ex art. 96 c.p.c., prospettata dalla parte ricorrente in relazione al caso di specie, viene fatta propria dal collegio sulla scorta di citazioni giurisprudenziali assunte in maniera acritica, come dimostrato da alcuni refusi. Infatti, accogliendo l’unico motivo del ricorso, il giudice rinvia la causa, anche per le spese del giudizio, all’allora Commissione tributaria regionale della Calabria, fissando il principio di diritto secondo il quale «[l]’istanza di condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c. non può essere proposta in sede di cognizione nel giudizio presupposto, qualora sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto all’articolazione della domanda in tale sede – come allorquando i gradi di merito del giudizio di merito si siano esauriti ancor prima dell’insediamento delle commissioni tributarie e provinciali, in base al combinato disposto dell’art. 80 d.lgs. n. 546/1992 e del d.m. 26.4.1996 – nel qual caso ne è consentita la proposizione in un giudizio autonomo». Invero si tratta di un riadattamento di quanto già espresso in una recente pronuncia di legittimità (Cass. civ., Sez. Un., 21 settembre 2021, n. 25478), al quale l’arresto risulta testualmente informato, come si desume dal riferimento alla disposizione applicabile a quel giudizio (comma 2) e mai citata dalle parti.

La trama argomentativa si concreta in una pedissequa riproposizione di un noto precedente a Sezioni Unite datato 2013 (Cass. civ., Sez. Un., ord. 3 giugno 2013, n. 13899, con nota di Tabet G., Verso l’estensione dell’istituto della responsabilità aggravata nel processo tributario, in Corr. trib., 2013, 30, 2381 ss., nonché di Dalla Bontà S., Verso una maggiore autoresponsabilizzazione del Fisco con l’applicazione al processo tributario della responsabilità aggravata, in Riv. giur. trib., 2013, 12, 946 ss.), che si fonda sull’assunto che il contribuente sia stato forzato ad instaurare un processo “ingiusto” per evitare il consolidamento dell’atto impositivo. Tale aspetto rappresenta una peculiarità della responsabilità aggravata nei settori dell’ordinamento ove si assiste all’esercizio del potere mediante provvedimenti amministrativi unilaterali e imperativi. In altri termini, nella prevalente ipotesi di giudizio di annullamento, sarebbe l’Amministrazione finanziaria a rappresentare l’attore in senso sostanziale: la pronuncia conferma così l’orientamento secondo il quale la condotta posta in essere con mala fede o colpa grave nell’agere amministrativo può fondare la responsabilità dell’Amministrazione per lite temeraria, in quanto costringe il contribuente ad insorgere avverso l’atto impositivo (il principio è stato di recente ribadito in Cass. civ., 17 dicembre 2020, n. 29017).

Da tanto discende la peculiare declinazione che la disciplina delle spese di giudizio subisce in subiecta materia, inducendo il giudice ad intendere l’aggettivo “processuale” come riferito anche alle condotte poste in essere ante iudicium da parte dell’Amministrazione finanziaria.

Tanto ribadito, la parte motiva prosegue concentrandosi sulla soluzione di tre questioni di ordine prevalentemente processuale: il referente normativo che legittima la condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria nel giudizio tributario; il rapporto tra l’art. 96 c.p.c. e la responsabilità civile dell’Amministrazione finanziaria ex art. 2043 c.c.; l’individuazione del giudice a cui proporre la domanda ex art. 96, comma 1, c.p.c..

Con riguardo al primo profilo, la disposizione ritenuta rilevante è l’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, sebbene l’art. 15, comma 2-bis del medesimo decreto fosse vigente da circa sei anni al momento del deposito dell’ordinanza. Tale inesattezza dipende dalla circostanza che il precedente citato risalga al 2013: si può pertanto ritenere che oggi la disposizione rilevante in materia sia il predetto art. 15.

Il secondo aspetto riguarda la responsabilità “processuale” aggravata, che si porrebbe in un rapporto di «specialità» e di non «concorso, [ne]anche alternativo» rispetto al rimedio aquiliano. Ne consegue che l’applicabilità dell’art. 96 c.p.c. si traduce nell’impossibilità di invocare il più generale art. 2043 c.c., ancorché in presenza delle condizioni di legge e dinanzi a diverso giudice. In altri termini, la ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 96 c.p.c., come interpretato estensivamente con riferimento alla fase procedimentale, impone al danneggiato di attivare tale rimedio processuale (specialità) e solo quello (divieto di concorso, anche alternativo).

L’ultimo punto dell’iter argomentativo della Corte si incentra su una questione definita tradizionalmente “endoprocessuale” e, dunque, ritenuta slegata da profili di competenza: il collegio osserva che risulta opportuno un esame complessivo della vicenda da cui sorge l’affermazione di responsabilità, da condursi a cura dello stesso giudice che già conosce della pretesa impositiva al fine di prevenire contrasti tra giudicati.

Nel caso di specie, però, il giudice reputa verificata una condizione di impossibilità di fatto o di diritto a far valere la pretesa risarcitoria nell’ambito di tutti i gradi del giudizio sulla validità dell’atto. Pertanto, in linea con la propria giurisprudenza (da ultimo cfr. Cass. civ., ord. 31 dicembre 2021, n. 42119), la Cassazione ritiene eccezionalmente ammissibile l’autonoma istanza di condanna ex art. 96, comma 1, c.p.c., ferma restando la sua ordinaria accessorietà rispetto alla domanda principale. Lo spazio applicativo delle ipotesi di eccezionale autonomia della domanda ex art. 96, comma 1, c.p.c. appare quindi piuttosto ristretto e sembra necessitato da una lettura costituzionalmente orientata che salvaguardi il diritto di difesa ex art. 24 Cost. Di talché risulta arduo intravedere un’apertura in favore di deroghe generalizzate alla proponibilità dinanzi al giudice tributario di autonome istanze risarcitorie.

 

5. Appare invece problematica la conferma degli orientamenti giurisprudenziali richiamati, che paradossalmente sembrano incompatibili con la logica garantista posta a fondamento dell’eccezionale autonomia riconosciuta alla domanda ex art. 96, comma 1, c.p.c.

Nonostante un’autorevole opinione dissenziente fondata sullo jus imperii che permea la materia tributaria (in tal senso Tesauro F., In tema di responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria e dei suoi funzionari, in Boll. trib., 1984, 323 ss.), da tempo dottrina e giurisprudenza tributaria concordano sull’applicabilità dell’art. 2043 c.c. e del più generale principio del neminem laedere, sia per i diritti patrimoniali consequenziali all’esercizio illegittimo del potere sia per i diritti soggettivi del tutto estranei allo stesso (in tal senso Cass. civ., Sez. Un., 11 ottobre 2016, n. 20426; in dottrina cfr. Gioè C., Profili di responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria, Padova, 2007, 8 ss.).

I relativi profili processuali vedono la letteratura tradizionalmente divisa sulla giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (sulla contrapposizione tra la tesi autonomista e la teoria dell’accessorietà, anche in chiave interdisciplinare, si rinvia a Fantozzi A., Nuove forme di tutela delle situazioni soggettive nelle esperienze processuali: la prospettiva tributaria, in Riv. dir. trib., 2004, I, 3 ss.; Manzon E. – Monodolo A., La tutela giudiziale del contribuente avverso la illegalità istruttoria ed i comportamenti illeciti dell’amministrazione finanziaria nell’attività impositiva: considerazioni sulla giurisdizione in materia tributaria, in Riv. dir. trib., 2001, I, 243 ss.), mentre la giurisprudenza sembra pacifica in tal senso. Sin dalla nota Cass. civ., Sez. Un., 15 ottobre 1999, n. 722, costituisce orientamento consolidato quello secondo il quale l’illegittimo esercizio del potere può risultare idoneo a cagionare danni (cc.dd. “diritti patrimoniali consequenziali”), in relazione ai quali investire il giudice ordinario; tale approdo è ancor più fermo qualora si tratti di «una posizione di diritto soggettivo, del tutto indipendente dal rapporto tributario» (cfr. da ultimo Cass. civ., 15 settembre 2021, n. 24890).

In tale prospettiva risulta agevole evidenziare alcune differenze sostanziali e processuali tra l’art. 2043 c.c. e la lite temeraria in ambito tributario. In primo luogo, l’illecito civile risulta strutturalmente più ampio (rectius generale) rispetto all’art. 96, comma 1, c.p.c.: la disposizione civilistica presuppone infatti una condotta illecita, l’assenza di cause di giustificazione, un coefficiente soggettivo (colpa o dolo) e un danno causalmente legato alla condotta illecita (per un inquadramento complessivo del tema con riferimento alla fattispecie dell’atto impositivo illegittimo si rinvia a Rossi P., Il risarcimento del danno provocato al contribuente da atti illegittimi dell’Amministrazione Finanziaria, in Rass. trib., 2009, 6, 1611 ss.; Salvati A., La responsabilità civile da atto impositivo illegittimo, in Rossi P., a cura di, La responsabilità civile dell’amministrazione finanziaria. Questioni teoriche e politiche, in Quad. riv. dir. trib., Milano, 2009, 5, 65 ss.). La letteratura ha anche posto in evidenza come l’art. 96 c.p.c. sia ontologicamente connaturato al giudizio “ingiusto” e richieda l’accertamento di mala fede o dolo (vero elemento specializzante; in tal senso cfr. Tabet G., Verso l’estensione dell’istituto della responsabilità aggravata nel processo tributario, cit., 2384).

In secondo luogo, da un punto di vista processuale, alla (necessaria) autonomia della domanda ex art. 2043 c.c, si contrappone l’accessorietà dell’istanza ex art. 96 c.p.c. rispetto all’azione di annullamento (così sin da Cass. civ., 18 aprile 2007, n. 9297). Al riguardo, anche la dottrina (cfr. Basilavecchia M., Funzione impositiva e forme di tutela. Lezioni sul processo tributario, Torino, 2018, 108; Tabet G., Verso l’estensione dell’istituto della responsabilità aggravata nel processo tributario, cit., 2385) aveva accolto con favore tale impostazione, enunciando diverse ragioni a sostegno dell’accessorietà della domanda (e.g. concentrazione della tutela presso il giudice tributario e valorizzazione dell’autonomia della giurisdizione tributaria).

In questo quadro, assumere il criterio di specialità quale elemento di selezione della fattispecie rilevante è utile ad evitare che la duplicazione di processi presso giurisdizioni diverse possa condurre a giudicati contrastanti o ad indebiti arricchimenti del danneggiato. D’altro canto, non appare un espediente particolarmente corretto nella misura in cui preclude una forma di tutela per il soggetto che possa invocare solamente la fattispecie generale ex art. 2043 c.c. e non possa allegare e/o provare gli elementi specializzanti (e.g. ricorre una condotta lievemente colposa, in assenza di mala fede e dolo). Risulterebbe paradossale la circostanza che la presenza di un giudizio “ingiusto” conduca a circoscrivere la tutela del contribuente, eliminando in radice l’accesso al rimedio generale: ne discende che, a dato normativo invariato, un orientamento giurisprudenziale non può ridurre la portata della tutela risarcitoria aquiliana. In particolare, ove si dovesse ritenere inapplicabile l’art. 2043 c.c. per le condotte illecite tenute nella fase amministrativa, si lascerebbe non presidiata in toto la vasta area della colpa lieve.

Anche il richiamo ai primi arresti sul punto (Cass. civ., 26 novembre 2008, n. 28226; Cass. civ., 3 marzo 2010, n. 5069) sembra poco pertinente, in quanto trattasi di pronunce afferenti alla materia civile, ove invero non si assiste all’esercizio di potere amministrativo e non vi sono giurisdizioni speciali (in senso critico, anche con riguardo alla giurisprudenza poi stratificatasi, Cordopatri F., Un principio in crisi: victus victori, in Riv. dir. proc., 2011, 2, 265 ss.).

Dunque, l’eccessivo ampliamento della fattispecie speciale “esclusiva” rappresenta un’interpretazione contra legem, nella misura in cui reca un vulnus al diritto di difesa: la scelta di limitare il raggio di azione della norma generale in ragione del criterio di specialità (strutturale) confligge direttamente con la stretta interpretazione che dovrebbe essere riservata alle disposizioni che precludono la tutela giurisdizionale dei propri diritti ai sensi dell’art. 24 Cost., nonché dalla normativa sovranazionale e internazionale (e.g. l’art. 6 CEDU).

Infatti, per escludere o aggravare oltremodo la tutela civilistica del contribuente a fronte di illeciti compiuti con colpa lieve, occorre un preciso interesse contrapposto che sia anche positivizzato (cfr. ad esempio l’art. 2236 c.c. in relazione alla responsabilità del prestatore d’opera per la «soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà»). Inoltre, nell’ambito della giustizia amministrativa, nonostante la recente Corte cost., 4 maggio 2017, n. 94, viene spesso messa in dubbio la scelta discrezionale del legislatore di rendere più gravoso l’accesso alla tutela aquiliana mediante disposizioni di natura processuale: tuttora particolarmente controversa appare la decisione di assoggettare l’esercizio dell’azione di risarcimento danni per lesione di interessi legittimi ad un termine decadenziale inferiore all’ordinario quinquennio (in merito all’art. 30, comma 3, D.Lgs. n. 104/2010, assume una posizione critica Police A., Giurisdizione amministrativa 1. Giurisdizione di legittimità, in Diritto online – Treccani, 2015).

Anche in letteratura è stato osservato che la soluzione di individuare nel criterio di specialità il discrimine tra l’art. 2043 c.c. e la lite temeraria appare problematica se associata alla unicità del rimedio ammissibile (al riguardo cfr. Boletto G., L’azione di responsabilità aquiliana nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, in Rass. trib., 2008, 1, 58-59). Si è allora tentato di offrire una lettura che conciliasse tali profili, discorrendo a tal riguardo di una «tutela de residuo» (Tabet G., Verso l’estensione dell’istituto della responsabilità aggravata nel processo tributario, cit., 2384), ovverosia auspicandosi un’azionabilità dell’art. 2043 c.c. per le ipotesi in cui l’art. 96 c.p.c. non risulti invocabile.

Applicando tale soluzione al caso di specie, però, ci si rende conto degli ostacoli processuali che si possono riscontrare nell’ottenimento di una tutela piena. Difatti, il giudice del rinvio potrebbe ritenere infondata nel merito la domanda ex art. 96, comma 1, c.p.c. per carenza del coefficiente soggettivo: dunque ci si domanda quale tutela spetti al contribuente per le ipotesi di illecito perpetrato con colpa lieve a fronte di un atto già annullato.

Di certo non si può attribuire la cognizione al giudice tributario sulle ipotesi di condotte illecite poste in essere con colpa lieve, travalicando il chiaro enunciato letterale dell’art. 96, comma 1, c.p.c., che costituisce ostacolo inamovibile.

Allora, ferma restando la giurisdizione del giudice ordinario sulle domande ex art. 2043 c.c. fondate sulla colpa lieve, delle due l’una: o si consente una seconda azione dinanzi all’A.G.O., che però potrebbe condurre potenzialmente agli effetti negativi tipici del doppio binario (e.g. due pronunce favorevoli al contribuente ovvero giudicati contrastanti); o si ritratta l’estensione della lite temeraria alla fase ante judicium, con la devoluzione dell’intera lite al giudice civile. A nostro avviso, la seconda rappresenta la soluzione comparativamente privilegiabile, con il caveat che si valutino con attenzione gli abusi nella scelta del giudice da investire mediante l’allegazione della colpa lieve.

Le considerazioni svolte inducono allora ad affermare che la Corte di Cassazione non ha affrontato una questione di competenza né tantomeno un profilo endoprocessuale, bensì ha tentato di risolvere una complessa questione di giurisdizione (sul rapporto tra la responsabilità processuale e l’individuazione del corretto plesso giurisdizionale cfr. Pepe F., Osservazioni in tema di risarcimento danni da “lite temeraria” ed asserito difetto di giurisdizione, in Dir. prat. trib., 2010, 3, 705 ss.). Tali aspetti sono stati oggetto di discussione anche in altri settori più maturi dell’ordinamento, come il diritto amministrativo, ove si è giunti con difficoltà alla codificazione di tali profili processuali. In ottica prospettica, ci sembra auspicabile recepire mutatis mutandis l’evoluzione sperimentata dalla giustizia amministrativa, ove l’azione di danno può essere esercitata insieme all’azione di annullamento ovvero autonomamente dalla stessa (cfr. l’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 104/2010), sebbene la disciplina favorisca de facto la proposizione congiunta nella sede più naturale, dinanzi a magistrati specializzati sensibili all’esercizio del potere.

6. In attesa di un dato normativo chiaro ovvero di importanti revirement da parte della Corte di Cassazione, possiamo proporre un più ponderato utilizzo dell’art. 96, comma 3, c.p.c. quale istituto di temperamento delle illustrate criticità in un’ottica de jure condito.

In letteratura sono stati indagati i rapporti tra i commi 1 e 3 dell’art. 96 c.p.c., che ad oggi sembrano tra loro cumulabili e non alternativi anche nella specifica materia tributaria (in tal senso Dalla Bontà S., Ammesso il cumulo delle condanne per responsabilità da lite temeraria. Sulla responsabilità aggravata nel processo tributario: rapporto tra condanne ai sensi del primo e terzo comma dell’art. 96 c.p.c., in Riv. giur. trib., 2013, 8-9, 673 ss.). Ne discende che il contribuente rimane raramente privo di tutela, in quanto il giudice ben potrebbe attivarsi al fine di liquidare equitativamente una somma a favore del contribuente per soddisfare parzialmente la pretesa ex art. 2043 c.c. per eventuali danni cagionati con colpa lieve.

Per una più agevole comprensione della tesi sostenuta, applichiamo nuovamente la nostra impostazione alla fattispecie che assume rilievo. Nel giudizio di legittimità tale rimedio non avrebbe comunque potuto trovare applicazione in quanto la Corte di Cassazione non avrebbe potuto “invadere” il merito della controversia e, in ogni caso, le pronunce dei giudici territoriali avevano solamente stabilito l’inammissibilità del ricorso, senza nulla aggiungere sulla condotta dell’Amministrazione. Diversamente, il giudice del rinvio potrà adoperare il comma 3 dell’art. 96 c.p.c. come strumento correttivo dei vuoti di tutela già descritti: qualora dovesse ritenere assenti profili di mala fede o colpa grave, potrebbe utilizzare il comma 3 accertando almeno la colpa lieve. In tal modo, la parte privata risulterebbe (parzialmente) soddisfatta e potrebbe non cercare nuove forme di tutela.

Non si può ignorare come tale soluzione risulti fondamentale tanto nell’ottica di reintegrare la sfera patrimoniale del danneggiato quanto nella prospettiva di prevenire potenziali condotte dannose ed inefficienti da parte dell’Ente. Difatti, il comma 3 potrebbe cagionare benefici di varia natura: processuali, in virtù della rimozione di ostacoli che si frappongono all’emersione di condotte illecite dell’Amministrazione; patrimoniali, stante la riparazione, anche solo parziale, dei pregiudizi subiti dal contribuente stesso in assenza degli elementi specializzanti della lite temeraria; organizzativi in senso lato, mediante la disincentivazione (rectius la sanzione) di condotte difformi rispetto ai canoni ex art. 97 Cost. da parte dei funzionari dell’Amministrazione finanziaria, potenzialmente responsabili a vario titolo (si pensi alla sopravvenuta Cass. civ., ord. 28 febbraio 2023, n. 5984 che ha dichiarato i funzionari responsabili in solido verso il contribuente a fronte di macroscopiche inesattezze che avevano causato l’esercizio (infruttuoso) dell’azione penale; in dottrina, da ultimo cfr. Dalla Bontà S., Verso una maggiore autoresponsabilizzazione del Fisco con l’applicazione al processo tributario della responsabilità aggravata, cit., 956, ove sul punto si richiama Marrucci F., Il risarcimento da lite temeraria a favore della parte vittoriosa, art. 96 c.p.c., è riconosciuto anche per danni non patrimoniali: principio applicabile nel processo tributario, in il fisco, 2011, 46, 7506 ss.; Ficarelli T., L’istituto della responsabilità processuale aggravata nel processo tributario, in Riv. giur. trib., 2003, 11, 1086 ss.).

Una simile soluzione non sconterebbe neanche il rischio di arbitrio del giudice, che spesso si associa all’attribuzione di poteri fondati su requisiti poco definiti, se non proprio equitativi. Invero, il comma 3 postula la necessaria soccombenza dell’Amministrazione e la condanna alle spese della parte pubblica, nella maggior parte dei casi derivante dall’illegittimità dell’atto (con i profili di criticità messi in luce in Marini G., La condanna alle spese nel processo tributario. Compensazione delle spese in caso di soccombenza dell’erario: rispondenza ai dettami di legge o mero retaggio culturale?, in Riv. trim. dir. trib., 2019, 3, 533 ss.). Dunque, questa forma di lite temeraria c.d. “attenuata” dispone di una base legislativa, ha ottenuto un riconoscimento da parte della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e trova precipua applicazione qualora l’Amministrazione abbia adottato un atto illegittimo.

Il reale tallone d’Achille di siffatto impianto teorico si manifesta invece nel caso in cui il contribuente non ritenga che la somma equitativamente determinata a suo favore abbia riparato la deminutio patrimoniale subita e – a fronte della difficile sindacabilità di quanto liquidato ai sensi del comma 3 (sul punto cfr. Dian F., Abuso del processo: condanne pesanti per l’Amministrazione e l’agente della riscossione. Applicazione dell’art. 96 c.p.c. tra responsabilità aggravata e nuovo 3° comma, in Dir. prat. trib., 2011, 5, 1076 ss.) – si determini a far valere aliunde la responsabilità dell’Ente. Allo stato, però, trattasi di un’evenienza molto remota, in quanto ad oggi il contribuente fronteggerebbe l’orientamento giurisprudenziale confermato nell’ordinanza in commento, fermo nel ritenere inammissibile il concorso tra i rimedi.

 

7. Quanto illustrato consente di avviarci alle conclusioni e ribadire il nostro pensiero.

L’ordinanza annotata non manifesta alcun dubbio in ordine all’applicabilità dell’art. 96, comma 1, c.p.c. nel processo tributario, anche in relazione alle condotte stragiudiziali dell’Amministrazione finanziaria che sono culminate con l’adozione di un atto già dichiarato illegittimo in sede giurisdizionale.

Proprio la conferma della maggiore estensione della lite temeraria in ambito tributario impone di rileggere la pronuncia tenendo presenti l’esigenza di concentrazione della tutela (demolitoria e risarcitoria) e i confini con l’ordinario rimedio aquiliano. Detta concentrazione viene realizzata presso il giudice tributario attraverso l’affermazione del rapporto di ordinaria accessorietà dell’art. 96 c.p.c. rispetto all’azione di annullamento, ampiamente condivisibile anche nell’ottica di favorire l’esame congiunto delle pretese, promuovere economie processuali e prevenire contrasti tra giudicati.

Suscita invece qualche perplessità l’acritica riproposizione del rapporto di specialità tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 96 c.p.c., al quale il giudice di legittimità riconnette nuovamente il divieto di concorso, anche alternativo, tra i rimedi. Se da una parte ciò appare opportuno qualora nel caso concreto vi sia piena sovrapponibilità tra le fattispecie (ad esempio, condotta posta in essere con mala fede o dolo), dall’altra si traduce in un vuoto di tutela in assenza degli elementi specializzanti della fattispecie speciale (ad esempio, la colpa lieve). L’ordinanza in commento de facto conferma un’interpretazione giurisprudenziale che limita un diritto di rango costituzionale (art. 24 Cost. e art. 6 CEDU) a fronte di un istituto civilistico e di un principio generale del neminem laedere che in ambito tributario sono pacifici e non risultano circoscritti dal legislatore alle ipotesi di mala fede e dolo.

Nelle more di un intervento legislativo simile a quello che ha interessato la giustizia amministrativa, ci auspichiamo che in futuro non venga trascurato l’esercizio dei poteri officiosi ex art. 96, comma 3, c.p.c., anche in un’ottica disciplinante dell’agere amministrativo. Infatti, l’impiego di tale strumento potrebbe astrattamente giovare al contribuente, sortendo al contempo un effetto deterrente nei confronti del funzionario che in concreto potrebbe adottare l’atto impositivo illegittimo (e diseconomico).

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