LA FARMACIA DEI SANI – EPISODIO 5 – Grande la confusione sotto al cielo. Provocazioni – scandalose – sul dilagare del concetto di “frode” nel diritto penale tributario

Di Alberto Marcheselli -

Abstract

Il concetto di “frode”, correlato a fittizietà, falsità o inesistenza, concettualmente chiaro, appare invece oggetto di un inquadramento confuso, ondivago e pernicioso, anche nella pratica applicativa del diritto penale tributario. Se ne analizzano alcuni “casi pilota”, in materia di abuso del diritto, operazioni soggettivamente o oggettivamente inesistenti e pretesa correlazione con il concetto di inerenza.

Italian criminal tax law distinguishes between various forms of crime, depending on whether or not there is “tax fraud”. However, the concept of tax fraud is the subject of great uncertainties, to which this paper is dedicated.

 

Sommario: 1. Introduzione. 2. L’armonia interiore del d. lgs. 74/2000. 3. L’ambiguità della parola “frode” e l’importanza del guardare la Luna. 4. Abuso del diritto e frode penale. 5. Il carosello delle frodi e il sabba del diritto penale tributario. 6. Inesistenza soggettiva e inerenza: questo matrimonio non s’ha da fare!

 

1. Uno dei modi belli di affrontare il diritto è cercare di costruirvi – o riconoscervi – qualcosa di proporzionato, armonico e giusto.

Cosa che non sempre è possibile.

E che non sempre paga: tutte le volte che interpretare il diritto è lo strumento per raggiungere un fine esterno (far assolvere un proprio cliente, raggiungere un obiettivo di budget, dimostrare che un’indagine non era sbagliata), letture miopi, asimmetriche, disarmoniche, o anche astruse – ma suggestive – possono essere molto più utili.

Viviamo nel mondo reale, distanti dalla purezza e dalla Santità, ma non per questo ideali di proporzionalità e giustizia meritano di andare in soffitta o essere relegati nel recinto degli idealisti, un po’ disadattati e un po’ freak.

Del resto, amo ripeterlo, Italo Calvino ammoniva che, se il mondo è un Inferno, si può reagire in due modi. Il primo è adattarvisi e (far finta di non) vederlo più, magari traendone qualche vantaggio materiale. Il secondo (che riesce difficile), riconoscere quel che Inferno non è, e impegnarsi per fargli spazio e farlo crescere.

Una premessa altisonante, per introdurre un tema, tra i tanti, sui quali un musicista dotato di orecchio (o un giurista dotato di una buona cultura e sensibilità – non è obbligatorio essere fessi per studiare diritto, diceva un mio antico professore) avverte non poche stonature. Il problema è che le stecche – in musica – disturbano (o, al limite, se ripetute, diventano un arrangiamento geniale, diceva Frank Zappa), ma in diritto, dove sono in gioco diritti e libertà, possono fare danni.

Ma sto di nuovo divagando: il tema è quello del concetto di inesistenza, fittizietà o mezzo fraudolento nel diritto tributario.

Tema che, come l’aperitivo biondo, fa impazzire il mondo.

Tema ampio, che meriterebbe volumi monografici.

Per questa volta, ci accontenteremo di trattarne, cogliendo fior da fiore, nell’ambito penalistico, per tentare di formulare – è questo il core business della rubrica – qualche riflessione di buon senso logico.

E, si sa, nulla è, oggi, più scandaloso e rivoluzionario del buon senso.

2. Innanzitutto e cominciamo con un’altra affermazione fuori dal coro: per una volta, a me sembra, la legge è buona e il legislatore è stato bravo.

Il Legislatore, abituale destinatario degli strali di tutti i commentatori, e capro espiatorio di tutte le magagne dell’universo mondo giuridico italiano, almeno in questo caso, mi sembra al sopra di ogni sospetto.

Il d. lgs. 74/2000, che prevede il sistema del diritto penale tributario, mi pare una ottima legge, non ostanti i tentativi degli interpreti di rovinarla.

Ciò, almeno, nel senso che sembra ispirata a un disegno, per una volta, logico, coerente e armonioso.

Il sistema è, infatti, costruito come una piramide proporzionata, salendo la quale aumenta la gravità della aggressione agli interessi erariali e, di conseguenza, aumenta la severità della risposta sanzionatoria: il tratto decisivo è costituito dal grado di pericolosità e insidiosità della condotta del colpevole.

In questo quadro, le condotte meno gravi, le violazioni di primo livello, sono quelle dove l’evasione fiscale viene realizzata “senza nascondere nulla” in termini fattuali, quelle dove, per individuare la debenza di una imposta maggiore di quella liquidata nella dichiarazione dei redditi, è sufficiente applicare il regime giuridico corretto ai fatti che il contribuente ha rappresentato genuinamente. In queste ipotesi, la scoperta della evasione fiscale non richiede alcuna attività di istruttoria o di intelligence sul fatto: per applicare la giusta imposta è sufficiente applicare le norme corrette a tali fatti. Correlativamente, l’aggressione del contribuente si è limitata a violare le norme (o a interpretarle in modo errato), senza occultare, né, tantomeno, travisare la situazione di fatto. A tali aggressioni si applica tendenzialmente solo la sanzione amministrativa (ad esempio, art. 1, comma 2, D. Lgs. 471/1997), salvo che per l’IVA e le ritenute.

Il quadro muta – e si aggrava una prima volta, violazioni di secondo livello – quando l’evasione venga realizzata avvalendosi anche di condotte che occultano o travisano i fatti: in questo caso si sottrae al Fisco materia imponibile “nascondendo” dei fatti. L’aggressione aumenta di insidiosità, perché è più maliziosa la condotta (non ci si limita a violare le norme ma si cela il fatto cui esse vanno applicate) e la risposta sanzionatoria è più severa perché, per scoprire l’evasione, si costringe l’Amministrazione Finanziaria a una attività di contrasto più dispendiosa (se manca la dichiarazione dei redditi o essa contiene affermazioni menzognere o incomplete è necessario, per avvedersene, una attività di istruttoria in fatto, che non era necessaria nelle aggressioni del primo tipo). Ne consegue che tali violazioni costituiscono reato, al raggiungimento di determinate soglie (articoli 4 e 5 D. Lgs. 74/2000).

Il quadro muta ulteriormente – e si aggrava una seconda volta, violazioni di terzo livello – quando l’evasione venga realizzata, non soltanto violando le norme, non soltanto nascondendo dei fatti, ma anche avvalendosi, per tale occultamento, dello strumento di una frode. In tali ipotesi, da un lato, la condotta è ancora più articolata e insidiosa [constando: 1) della violazione delle norme; 2) della menzogna, e anche 3) dell’artificio e, dall’altro, è ancora più complessa l’attività di contrasto richiesta alla Amministrazione Finanziaria]. Essa, per disarmare l’evasione, deve, non solo applicare le norme, non solo scoprire ciò che è stato occultato, ma anche superare lo “schermo” di un artificio ingannevole. Coerente con la maggiore gravità della condotta, da un lato, e la maggiore difficoltà a disarmarla, dall’altro, è il fatto che sia ancora più severa la risposta sanzionatoria, che prevede pene più elevate che nel caso precedente e soglie di punibilità più basse (art. 3 D. Lgs. 74/2000).

Il quadro muta ancora – e si aggrava fino a raggiungere il livello massimo, violazioni di quarto livello – quando  l’evasione venga realizzata, non soltanto violando le norme, non soltanto nascondendo dei fatti, non soltanto avvalendosi, per tale occultamento, dello strumento di una frode, ma anche avvalendosi dello strumento, particolarmente pericoloso, della falsificazione di documenti ad efficacia probatoria privilegiata. In tali ipotesi, da un lato, la condotta è articolata e insidiosa al massimo livello [constando: 1) della violazione delle norme; 2) della menzogna, 3) dell’artificio e, 4) dell’utilizzo malizioso e fraudolento di documenti a efficacia privilegiata] e, dall’altro, è ancora più complessa l’attività di contrasto richiesta alla Amministrazione Finanziaria. Essa, per disarmare l’evasione deve, non solo applicare le norme, non solo scoprire ciò che è stato occultato, non solo superare lo “schermo” di un artificio ingannevole, ma anche demolire l’efficacia probatoria privilegiata che la legge tributaria attribuisce a speciali “documenti”. Coerente con la maggiore gravità della condotta, da un lato, e la maggiore difficoltà a disarmarla, dall’altro, è il fatto che sia ancora più severa la risposta sanzionatoria, che non prevede soglie di punibilità (art. 2 D. Lgs. 74/2000).

3. Se le cose stanno così, e non solo mi sembra che stiano così, ma anche che debbano stare così, altrimenti essendo irragionevoli, ne consegue che la categoria della frode, fittizietà e inesistenza in senso forte (come mezzo fraudolento) possa comprendere solo le condotte che si trovano, per così dire, al terzo o quarto piano della piramide.

Certo, le parole sono ambigue e, ad esempio, nel diritto della Unione Europea si parla di frode come sinonimo di “evasione” ma noi dobbiamo tenere d’occhio le idee e non le parole: il giurista non lavora con le parole, ma coi concetti, così come per un pittore conta il colore, il tratto e il disegno, non (solo) il pennello.

Quando il Saggio indica la Luna (l’idea), non si deve guardare il dito (io, quando il Saggio indica la Luna, mi controllo il portafoglio, ma questa è un’altra storia).

Ebbene, se questa è la premessa, il diritto penale tributario applicato, qualche volta,  sembra volersi candidare a Paradiso dell’Incoerenza e Circo a Tre Piste della Disarmonia.

Scelgo qualche esempio paradigmatico, uno più teoretico, gli altri più pratici.

4. Il primo esempio è quello della costante tensione verso l’inquadramento dell’abuso del diritto nei mezzi fraudolenti penalmente sanzionati, non ostante l’art. 10 bis dello Statuto del contribuente.

Parliamoci chiaro, il fine della manovra interpretativa è evidente e anche comprensibile. Non sembra giusto, a chi la tenta, che chi abusa possa provarci senza rischi: se non viene scoperto, porta a casa il risparmio indebito. Se viene scoperto, non risparmia e non ottiene il suo obiettivo, ma non viene punito (penalmente). Gli amici Pubblici Ministeri con cui ogni tanto mi azzuffo amichevolmente sul tema obiettano che “è troppo comodo” o, più elegantemente, che il sistema manca di deterrenza.

Innanzitutto, va ribadito che è la legge a escludere la sanzione penale.

Se poi, ciò fosse irrilevante, a me sembra che si possa rispondere che: a) ci sono comunque significative sanzioni amministrative e, soprattutto, che b) chi elude non viola le norme, ma approfitta di loro inefficienze. Chi abusa non disubbidisce al diritto e ai suoi comandi, ma approfitta delle sue carenze. Certo, non è una bella cosa, ma altrettanto certamente, non la violazione di un precetto specifico. Oddio, se fossimo nel giudizio morale, forse chi abusa è addirittura più malizioso di chi evade (in fondo, ottiene lo stesso risultato del delinquente, ma senza delinquere), ma siamo nel diritto e contano le regole e il principio di legalità. È giusta la sanzione penale per chi non integra le regole del diritto contro di sé?

L’operazione ermeneutica è, quindi, comprensibile ma, secondo me, non del tutto giustificabile.

Ciò non ostante, il tema è sempre di moda e non manca chi distingue tra abuso del diritto fraudolento, e non. Per carità, se chi è accusato di abusare usa dei documenti falsi per ingannare, merita certamente la sanzione penale, ma non perché abusa, ma perché falsifica. Ma, per definizione, chi abusa non falsifica.

Qualcuno, molto ingegnosamente, afferma che sarebbe falsificato il bilancio, che non sarebbe conforme alla necessità di rappresentare la sostanza economica. Ma torniamo al punto di partenza: froda chi si nasconde dietro una apparenza ingannevole: chi abusa non si nasconde: tutte le tessere per ricostruire l’abuso sono sotto gli occhi: basta guardarle.

Il bilancio non nasconde nulla: usa trasparentemente un altro criterio.

Può non essere semplice ricostruire un abuso, ma non c’è una indagine per superare lo schermo di una finzione.

Non è che fare una cosa complicata, ma vera, sia ingannare!

Altrimenti, anche i paragrafi che seguono, sarebbero… fraudolenti.

5. Un altro tema classico con cui confrontarsi sono le c.d. frodi carosello.

In senso ampio, ormai si denominano, impropriamente e genericamente, così, le evasioni dell’IVA perpetrate attraverso l’omesso versamento: un cliente versa l’IVA al fornitore e questo non la versa allo Stato. Viene strumentalizzata la neutralità, perché alla detrazione del cliente non corrisponde il versamento del fornitore.

La frode può essere, innanzitutto, circolare o carosello in senso proprio: un bene o un servizio gira in tondo, senza arrivare al consumo, e torna al punto di partenza. Qui il trucco è che dai passaggi emerge un IVA che qualcuno detrae e il prenditore non versa allo Stato, come sopra.

Pressoché tutti i giuristi, all’unisono, ravvisano nella fattispecie una serie di fatture per operazioni inesistenti, inquadrabili negli articoli 2 e 8.

Lo so che quello che sto per dire turberà le coscienze e mi provocherà insulti e mormorii di disapprovazione, ma, concettualmente, a me pare proprio sbagliato.

Intanto, perché per ottenere il risultato di rubare l’IVA, non è affatto necessario fingere di far circolare il bene: l’asimmetria detrazione/mancato versamento è del tutto indipendente da qualsiasi fittizietà. E, soprattutto, perché l’evasione non è affatto nascosta dietro una finzione. Se faccio finta di comprare (acquisto da cartiera), fingo di spendere il costo e l’IVA, ed evado solo se è l’operazione è finta (e i soldi mi rientrano), quindi, per scoprirmi, devi accertare che non è vero. Nella frode carosello, invece, il fornitore evade anche se l’operazione è vera. Non solo, per scoprire l’evasione, basta verificare se il fornitore ha versato l’IVA: cosa riscontrabile immediatamente e automaticamente, senza scomodare Poirot o Miss Marple o mega tecnologie investigative.

Già che ci siamo, notiamo che anche il profitto è diverso tra le due operazioni, e che anche i provvedimenti di sequestro e confisca in materia mi sembrano, spesso, logicamente sbagliati (a seguire le premesse). Per chi compra dalla cartiera, il profitto è, effettivamente, l’imposta risparmiata. Per chi partecipa a una frode carosello circolare, come cliente, il profitto è l’utile che si ottiene dalle compravendite inserite nel carosello (e la quota di utile che spetta a ciascuno è – sostanzialmente – la fetta di IVA che ci si spartisce e riservata ad ognuno).

Né cambiano le cose per le c.d. frodi lineari, dove il bene va realmente al consumo, ma dopo un passaggio dove l’Iva, pagata dal cliente, non viene versata dal fornitore che la riscuote (e dove, a rigore, il carosello manca: quindi perché chiamarle carosello).

Il fornitore ruba l’IVA semplicemente non versandola e, che l’operazione sia vera o finta, è irrilevante.

Come sopra, l’evasione non dipende da una finzione (su chi sia il reale contraente) e non è per niente nascosta da una transazione finta: per scoprirla basta vedere se c’è stato il versamento dell’IVA allo Stato.

Come sopra, il cliente, a differenza che nella cartiera, mica si arricchisce dell’IVA (che effettivamente, in ipotesi, versa al fornitore): di norma il suo vantaggio è che lucra sulle vendite, con volumi e costi spesso vantaggiosi perché c’è una frode a monte.

Dove sta l’origine di quello che a me pare un errore evidente? Nel fatto che al cliente si nega, sulla base della giurisprudenza UE, la detrazione. Ma mica perché l’operazione è finta, o tra parti finte, e mica perché il cliente non l’abbia versata o l’abbia rubata, ma solo perché la detrazione dipende non solo dal fatto – obiettivo – di averla sostenuta, ma anche da quello – soggettivo – di essere stati diligenti.

Al limite, se fornitore e cliente si sono accordati che l’IVA non sarà versata, si può sostenere che quella esposta in fattura non sia imposta ma parte del prezzo, e, quindi, che la detrazione non spetta per la materiale ragione che l’imposta non è mai stata pagata dal cliente (era tutto prezzo). Ma, anche in questo caso, mica si tratta di operazione non realmente avvenuta, né si tratterebbe di elementi passivi fittizi, come richiesto dall’art. 2.

Proprio l’opposto, invece: viene nascosto dell’imponibile, semmai (parte del prezzo)!

Restano, allora, due domande.

La prima domanda è se quanto sosteniamo priverebbe le frodi carosello di efficace risposta penale. E la risposta è: no, assolutamente e anzi l’accertamento del reato è più semplice.

Il delitto c’è, comunque.

Innanzitutto, si può certamente configurare l’omesso versamento dell’IVA da parte del fornitore.

Resta, però, impunito il cliente?

Ma per niente: egli è il concorrente necessario del fornitore (se non comprasse non ci sarebbe IVA da rubare!) e, addirittura, la prova del reato è più semplice: non serve il dolo specifico come nell’art. 2, ma basta anche il dolo generico: cioè comprare accettando il rischio di comprare da un evasore. Al limite, se, come appena rilevato, c’è un accordo tra le parti secondo il quale l’IVA esposta in fattura non verrà versata, potrebbe ipotizzarsi che sia stata nascosta parte del prezzo e interrogarsi se non ricorra una ipotesi di dichiarazione fraudolenta di cui all’art. 3.

La seconda domanda è: perché si ricorre alla configurazione in base all’art. 2? Il dubbio è che sia una cosa, comprensibilmente, strumentale: perché, per chi cerca le prove e accusa, l’art. 2 attribuisce mezzi più efficaci: sono possibili intercettazioni e fermo, oltre che le misure cautelari più coercitive, se non erro. Esse, tuttavia, sono applicabili, mi pare, anche nel quadro dell’art. 3, configurabile nei casi più gravi.

Il fatto che molta parte della giurisprudenza pubblicata riguardi misure cautelari, dove la delibazione è, giustamente, più frettolosa, forse, non aiuta una riflessione approfondita.

6. Qualche approfondimento si impone, poi e ancora, sul concetto di inesistenza soggettiva.

Inesistenza soggettiva significa che l’operazione non avviene tra le parti apparenti. Quando c’è una evasione, in questi casi?

Dal lato dell’emittente, cioè analizzando la condotta di chi emette la fattura soggettivamente falsa, la cosa è facile. Se è finto l’emittente, è probabile che si voglia nascondere e, quindi, far evadere, il reale venditore. Se è finto il destinatario, è probabile che si voglia far dedurre il costo o detrarre l’IVA a un soggetto cui la deduzione o detrazione non spetterebbe.

Visto che l’articolo 8 punisce chi vuol fare evadere un terzo, non ci sono molti problemi.

I problemi ci sono, invece, se si guarda la inesistenza soggettiva dal lato di riceve la fattura. Se chi la riceve non è la parte effettiva, è tutto a posto: finge di essere lui a comprare e a sostenere il costo o l’IVA – deducibile o detraibile – e il reato è di facile configurazione.

Ma se il falso è sulla persona che vende (da cui si compra)?

A rigore, il compratore evade solo se dalla persona del venditore dipende il diritto di dedurre o detrarre, ovvero la aliquota della imposta o la percentuale di deduzione. Ma, se non ricorrono queste condizioni, il compratore che compra dalla parte finta non agisce per evadere. Non parrebbe, quindi, sussistere il reato di cui all’art. 2, perché ne difetta un  elemento strutturale. Eppure questo è il caso più frequente nel quale si ha applicazione, nella pratica, dell’art. 2 a operazioni ritenute soggettivamente inesistenti.

La giurisprudenza, infatti, tende ad aggirare tale ostacolo per arrivare sempre e comunque ad applicare tale ultima norma.

Per quanto riguarda la detrazione dell’IVA, si afferma che l’IVA non sarebbe detraibile perché la fattura non sarebbe corretta, non riportando le parti vere: quindi il delitto sussisterebbe perché si evaderebbe l’IVA.

L’errore logico mi pare evidente: l’art. 2 punisce chi evade nascondendosi dietro una fattura finta. Qui è l’esatto opposto, non è consentita la detrazione perché la fattura è finta: la finzione non è lo strumento per  nascondere l’evasione e renderla particolarmente odiosa e insidiosa, ma è, al contrario, il motivo che rende indetraibile l’IVA, che sarebbe pienamente detraibile. Non si inganna per evadere impunemente e subdolamente, ma non si può detrarre perché la fattura non indica le parti giuste.

Ciò non ostante, le imputazioni in questi casi, persistono imperterrite.

Per quanto riguarda le imposte dirette, c’è addirittura un ostacolo in più.

Il fatto che la legge fiscale espressamente preveda la deduzione del costo (se l’operazione almeno oggettivamente esiste), non ostante la fattura rechi le parti sbagliate. La giurisprudenza qui, talora, fa un salto logico a mio avviso ancora più ardito. Poiché l’operazione sarebbe illecita sul piano IVA, la deduzione del costo ai fini delle imposte dirette sarebbe preclusa perché si tratterebbe di un costo illecito, non deducibile perché non inerente (la presenza di un delitto renderebbe il costo estraneo alla sfera professionale e imprenditoriale).

Al mio orecchio qualcosa non torna. Anzi, più di qualcosa. Anzi, a dirla tutta, mi pare vera cacofonia.

In premessa abbiamo già rilevato che non pare sussistere il delitto neppure in materia di IVA, perché non si froda né si inganna per evadere.

Ma, anche se non fosse vero questo, sussisterebbe una ulteriore serie di ostacoli giuridici e, soprattutto, logici.

Il primo è che la deduzione del costo illecito è preclusa solo, alla lettera, per i beni direttamente utilizzati per commettere l’illecito. Qui l’illecito non riguarda in alcun modo il bene o servizio acquistato, e nemmeno l’attività. L’illecito – che non pare comunque sussistere, a monte – riguarderebbe solo il regime fiscale IVA: come si fa ad applicare la norma sulla indeducibilità del costo per le attività illecite quando l’illecito sta a valle della attività?

La giurisprudenza disapplica, insomma, consapevolmente la norma fiscale che prevede l’indeducibilità solo per i costi dei beni direttamente utilizzati per delinquere, a favore di una nozione penalistica di costo deducibile che non pare avere alcuna base legale.

Ma sembra mancare anche la base logica. Questa base di giustificazione non può essere, per vero, almeno a me sembra umilmente evidente, trovata nel principio di inerenza, sovente evocato al capezzale di una fattispecie accusatoria che appare malaticcia.

E non mi pare possa essere trovata perché, anche a questo riguardo, ci sono due ulteriori ostacoli, e mica piccoli.

Il primo ostacolo è che l’inerenza è la non estraneità del costo alla attività. È già dubbio che un costo immorale non sia inerente (occorre ritenere che l’inerenza inglobi un elemento etico e valoriale, ed è dubbio), ma, comunque, non si comprende come possa diventare immorale un costo, effettivo e legale, semplicemente corrispondente a una fattura con l’indicazione di una parte non vera.

E non basta, c’è un ulteriore ostacolo, completamente insormontabile, a mio  modestissimo avviso. Se anche il costo corrispondente a una fattura irregolare sul piano soggettivo non fosse inerente, starebbe comunque il fatto, invincibile, mi sembra, che l’art. 2 punisce – lo ripetiamo alla nausea – chi evade nascondendosi dietro una finzione.

Allora, ancora una volta, qui saremmo fuori dal seminato: non ci sarebbe una fattura falsa che nasconde una operazione non inerente (cosa che configurerebbe il delitto, è corretto), ma, esattamente all’inverso, una fattura soggettivamente falsa che renderebbe – secondo la discutibile giurisprudenza appena descritta – il costo non inerente.

Insomma, grande la confusione sotto al cielo.

E, a differenza che nella Cina di Mao, la situazione non è eccellente.

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