RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA  – Cass., ord. 14 luglio 2023, n. 20322 – L’inammissibilità del ricorso avverso un diniego tacito di rimborso inibisce l’interposizione di un nuovo ricorso avverso il medesimo diniego tacito?

Di Giovanni Consolo -

L’inammissibilità del ricorso avverso un diniego tacito di rimborso inibisce l’interposizione di un nuovo ricorso avverso il medesimo diniego tacito? (*)

 

La massima della Suprema Corte

L’inammissibilità di un ricorso avverso un diniego tacito di rimborso (nella specie, per mancato deposito presso la Segreteria della competente del giudice tributario di merito) non pregiudica la possibilità di proporre altro e successivo ricorso contro il medesimo diniego tacito entro il termine prescritto dall’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992.

Il (tentativo di) dialogo.

Come risulta dalla massima, l’ordinanza in epigrafe ha ritenuto ammissibile l’impugnazione proposta avverso un diniego tacito di rimborso dopo che il contribuente aveva già proposto, avverso il medesimo silenzio-rifiuto, un altro ricorso che era stato dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 22, comma 1, D.Lgs. n. 546/1992, perché non depositato presso la Segreteria della (allora) competente Commissione tributaria provinciale.

La soluzione raggiunta dalla Corte è condivisibile, in pratica. Ma si presta a qualche puntualizzazione, sul piano sistematico.

E in effetti, essa appare condivisibile anche senza riserve di carattere teorico là dove si segua la tesi secondo cui il legislatore, nell’incanalare le azioni da rimborso nei moduli del processo di impugnazione, ha operato una forzatura dello schema impugnatorio, in quanto le azioni di rimborso sono volte all’accertamento del diritto di credito del contribuente e all’eventuale condanna al rimborso dell’Amministrazione (cfr. F. Tesauro, Profili sistematici del processo tributario, Padova, 1980, 133 e Id., Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 98). Questa tesi sembra, oggi più che mai, trovare conferma nel nuovo art. 7, comma 5-bis, D.Lgs. n. 546/1992, da cui s’inferisce, appunto, che le azioni avverso i dinieghi di rimborso vertono sull’accertamento del credito del contribuente, in funzione di condanna dell’Amministrazione.

Seguendo questa impostazione, posto che il termine per l’impugnativa del silenzio coincide con il termine di prescrizione del diritto al rimborso, è senz’altro corretto ritenere – come si legge nella pronuncia in commento – che “nella ipotesi un cui una sentenza passata in giudicato abbia definito il giudizio (…) e non sia entrata nel merito della causa, la statuizione sulla questione di rito, dando luogo soltanto al giudicato formale, ha effetto limitato al rapporto processuale nel quale è emanata e non è idonea a produrre gli effetti del giudicato in senso sostanziale, non precludendo così la riproposizione della domanda in altro giudizio” (in senso conforme v. Cass., sez. trib., 11 maggio 2012, n. 7303 e Cass., sez. trib., 9 settembre 2021, n. 24260).

Pur tuttavia, sotto il profilo della motivazione letterale e dell’inquadramento sistematico, l’ordinanza in commento palesa – al pari dei precedenti ivi richiamati – alcuni passaggi non del tutto coordinati e omogenei, in punto di qualificazione dei dinieghi taciti di rimborso e sulle inevitabili ricadute processuali che conseguono da tale qualificazione.

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Nell’ordinanza in epigrafe si legge, innanzitutto, che l’oggetto delle liti da rimborso, “di là dal meccanismo di formazione del silenzio-rifiuto e della relativa impugnazione, è propriamente quello di giudizio di accertamento negativo della non debenza di quanto versato, in cui il contribuente riveste la natura di attore in senso sostanziale”.

Con tale statuizione, la Suprema Corte sembra escludere la natura provvedimentale dei dinieghi taciti.

E infatti, essa equivale a riconoscere, da un lato, che la domanda giudiziale volta all’accertamento del diritto al rimborso è subordinata alla proposizione di una preventiva istanza amministrativa (che assurge a presupposto processuale indefettibile) e, dall’altro, che l’inerzia dell’Amministrazione per oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza (c.d. “spatium deliberandi” riservato per la risposta) funge da mera condizione di procedibilità della domanda giudiziale e non ha, dunque, valenza impositiva o provvedimentale in senso stretto.

Tale impostazione è condivisibile, ma risulta – a rigore – non del tutto armonica, sul piano sistematico, con due ulteriori statuizioni contenute nella medesima pronuncia.

La prima è quella con cui la Corte richiama, adesivamente, l’orientamento giurisprudenziale secondo cui la “mancata formazione di detto-silenzio rifiuto, che è il mezzo attraverso il quale pretese restitutorie fiscali sono azionabili nel giudizio tributario, che è tipico giudizio impugnatorio, comporta l’inammissibilità del ricorso per difetto di un indefettibile presupposto processuale del giudizio”.

Questa affermazione è – a rigore – distonica rispetto all’impostazione secondo cui il silenzio in materia di rimborso non avrebbe natura provvedimentale e i giudizi instaurati dopo la sua formazione sarebbero “giudizi di puro accertamento”, in quanto presuppone che le liti da rimborso possano essere validamente proposte soltanto a fronte di un previo intervento dell’Amministrazione, seppur tacito (rectius, che l’intervento anche tacito dell’Amministrazione non possa essere sostituito da una pronuncia giudiziale su ricorso dell’interessato), e, per conseguenza, che il silenzio in materia di rimborso sia qualificabile alla stregua di un provvedimento reiettivo dell’istanza e che le azioni avverso il silenzio siano “azioni di annullamento”. Numerose sono, infatti, le pronunce di legittimità che predicano l’inammissibilità di ricorsi proposti prima della formazione del silenzio-rifiuto proprio “per difetto dell’atto” o del “provvedimento impugnabile” (v., da ultimo,  Cass., sez. trib., ord. 15 giugno 2023, n. 17252 e Cass., sez. trib., 9 settembre 2021, n. 24260).

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La seconda statuizione da esaminare è quella con cui la Corte afferma che la conclusione rassegnata nel caso deciso sarebbe “conforme” al proprio consolidato orientamento secondo cui “nel processo tributario di primo grado non esiste il principio di consumazione dell’impugnazione (…), sia perché il principio di consumazione fissato dall’art. 60 del D.Lgs. 31.12.1992, n. 546, secondo cui l’appello dichiarato inammissibile non può essere riproposto, è circoscritto a tale grado di giudizio, sia in ragione dell’assenza di una corrispondente previsione relativa al primo grado di giudizio”.

Com’è noto, la questione relativa all’applicabilità dell’art. 60, D.Lgs. n. 546/1992, ai giudizi tributari di primo grado attiene all’esistenza di un generale principio di “reiterabilità” dei mezzi di impugnazione e, segnatamente, se essi siano riproponibili nei limiti in cui non vi ostino disposizioni espresse.

Tuttavia, se si accoglie la tesi secondo cui i giudizi avverso i dinieghi taciti sarebbero “giudizi di puro accertamento”, questo è, a ben vedere, più un argomento ad abundantiam che non un reale fondamento della decisione: se non si tratta di una “impugnazione” non può neanche porsi il problema se essa sia stata “consumata”.

Si tratta di lievi distonie sistematiche, che appare opportuno che lo studioso segnali, essendo suo compito il presidio della dogmatica, ma che non appaiono tuttavia inficiare la concreta condivisibilità della soluzione adottata dalla Suprema Corte.

(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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