Alla ricerca degli “extraredditi”: il revirement della Cassazione sull’applicabilità dell’addizionale del 10 per cento sui bonus e sulle stock option riconosciuti ai dirigenti delle holding industriali (… con buona pace della certezza del diritto).

Di Loredana Carpentieri -

Abstract

L’imposta addizionale prevista dall’art. 33 del decreto-legge n. 78 del 2010 sugli emolumenti riconosciuti ai dirigenti sotto forma di bonus e stock option si applica nei confronti dei dirigenti delle imprese operanti nel settore finanziario, con clausola generale riferita al settore finanziario inteso nella sua globalità, così da ricomprendere anche soggetti (holding industriali) non necessariamente sottoposti a vigilanza e/o che svolgono attività rivolta al pubblico.

In search of “extra-income”: the Court of Cassation’s review on the applicability of the additional 10% on bonuses and stock options granted to managers of industrial holding companies (… with due respect for legal certainty). – The additional tax provided for by art. 33 of Decree-Law No. 78 of 2010 on emoluments granted to managers in the form of bonuses and stock options applies to executives of companies operating in the financial sector, with a general clause referring to the financial sector as a whole, so as to include subjects (industrial holding companies) not necessarily subject to supervision and/or carrying out activities aimed at the public.

  

Sommario: 1. Il tema oggetto della pronuncia. – 2. L’addizionale del 10 per cento su bonus e stock options erogati ai dirigenti del settore finanziario. – 3. L’ambigua formulazione della norma e la sua discussa interpretazione. – 4. La Corte costituzionale e le prime pronunce dalla Cassazione. – 5. L’interrogazione parlamentare n. 5-07238 del 12 gennaio 2022. – 6. L’inversione di rotta operata dalla Cassazione. – 7. Le conseguenze in punto di certezza del diritto.

1. Dopo la discussa previsione normativa, per gli anni 2022 e 2023, dei contributi straordinari sui presunti extraprofitti delle imprese del settore energetico e petrolifero, sembra continuare, anche in giurisprudenza, la “caccia agli extraredditi”: con le recenti sentenze n. 16785 e 18549 del 2023 la Cassazione, cambiando radicalmente il proprio precedente orientamento, ha infatti ampliato a sorpresa il perimetro soggettivo di applicazione dell’addizionale del 10 per cento, introdotta dall’ormai lontano art. 33 del decreto-legge n. 78 del 2010 (recante Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e competitività economica) per colpire i compensi erogati sotto forma di bonus e stock options ai dirigenti e ai collaboratori coordinati e continuativi del settore finanziario.

2. L’addizionale sui compensi erogati sotto forma di bonus e stock options ai dirigenti del settore finanziario è stata introdotta nel 2010 (cfr: relazione illustrativa al decreto-legge n. 78 del 2010 e circolare dell’Agenzia delle entrate n 4/E del 2011, par. 13) per rispondere agli “… effetti distorsivi, prodotti sul sistema finanziario e sull’economia mondiale dal riconoscimento di bonus e stock options collegati agli andamenti del mercato ai manager e agli amministratori di banche ed istituti finanziari, evidenziati nel corso delle riunioni del G20”. Il singolare riferimento alle “decisioni assunte in sede di G20”, contenuto nel comma 1 dell’art. 33 del citato decreto-legge n. 78, si riferisce agli accordi presi in esito al vertice internazionale svoltosi a Pittsburgh nel settembre 2009, nel quale i capi di Stato e di Governo da un lato riconoscevano che “Major failures of regulation and supervision, plus reckless and irresponsible risk taking by banks and other financial institutions, created dangerous financial fragilities that contributed significantly to the current crisis” e, dall’altro lato, si impegnavano “to reach agreement on an international framework of reform” (cfr.: https://www.oecd.org/g20/summits/pittsburgh/G20-Pittsburgh-Leaders-Declaration.pdf ).

Proprio in quest’ottica, i convenuti al vertice di Pittsburgh evidenziavano, tra le aree di possibile intervento nel mondo della finanza, l’opportunità di disincentivare le manovre speculative e, tra queste, di contenere i bonus dei dirigenti entro una determinata percentuale dei profitti totali netti, così da mantenere la corresponsione dei suddetti bonusin armonia con il mantenimento di una solida base di capitale”; ciò al fine di ridimensionare le retribuzioni dei possibili responsabili del collasso finanziario dell’epoca, ancorandole ai risultati di lungo periodo dell’impresa, per evitare di esporre a ulteriori rischi di tenuta del sistema le banche, gli istituti finanziari e, soprattutto, i loro clienti. In linea con la suddetta ratio, nella relazione illustrativa al decreto-legge n. 78 del 2010 si chiariva che l’applicazione dell’addizionale doveva ritenersi circoscritta al personale c.d. risk taker, cioè ai soggetti la cui attività fosse stata suscettibile di impattare sui profili di rischio dei soggetti finanziari.

La disciplina della suddetta addizionale – inizialmente applicabile sui compensi, a titolo di bonus e stock options, eccedenti il triplo della parte fissa della retribuzione – è stata modificata nel corso del tempo: in sede di conversione del decreto-legge n. 98 del 2011, il maxiemendamento governativo ha infatti aggiunto, all’art. 33 del decreto-legge n. 78, un comma 2-bis per prevedere che l’addizionale si applicasse tout courtsull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”.

3. La disposizione dell’art. 33 del decreto-legge n. 78 ha destato più di una perplessità sia sotto il profilo della corretta individuazione della base imponibile dell’addizionale, sia sotto il profilo del perimetro soggettivo di applicazione della norma.

Quanto al primo profilo, alcuni dubbi sono nati proprio dall’ambigua formulazione letterale del comma 2-bis dell’art. 33, come introdotto dalla ricordata novella normativa del 2011 per innalzare il gettito dell’addizionale (in origine applicabile, come accennato, solo ai compensi variabili eccedenti il triplo della retribuzione fissa). Il suddetto comma 2-bis dell’art. 33 prevede che “per i compensi di cui al primo comma, le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione”. Si è notato, al riguardo (cfr.: Leo M., Le imposte sui redditi nel testo unico, Milano, 2011, 380-381) che “l’inserimento di uno specifico comma aggiuntivo potrebbe portare a ritenere non integralmente superato il primo comma della disposizione modificata con la conseguenza che si potrebbe concludere che l’aliquota addizionale si applichi sull’ammontare dei compensi eccedenti la retribuzione base, ma a condizione che la retribuzione variabile ecceda il triplo della parte fissa della retribuzione. Questa tesi potrebbe essere avallata proprio da un esame testuale delle due disposizioni; si potrebbe argomentare, infatti, che se il legislatore avesse voluto semplicemente ridurre il parametro di riferimento (portandolo dal triplo all’eccedenza rispetto alla retribuzione fissa) avrebbe potuto, molto più semplicemente, modificare direttamente il comma 1 dell’art. 33 del decreto-legge n. 78 del 2010”.

L’Agenzia delle entrate (cfr.: circolare n. 41/E del 2011, poi confermata dalla risposta ad interpello n. 146 del 2018) ha invece sostenuto che “la modifica normativa ha l’effetto di ampliare la quota di compensi variabili su cui applicare l’addizionale del 10 per cento dato che la base imponibile è ora pari all’ammontare della retribuzione variabile che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione.” Tale interpretazione, in effetti, appare maggiormente conforme alla ratio della novella normativa, posto che anche nella relazione al maxiemendamento che ha condotto alla modifica dell’art. 33 si evidenziava come tale modifica determinasse “un importante effetto di ampliamento della base imponibile in oggetto, anche in considerazione del fatto che ne risulta allargata la platea dei soggetti sottoposti all’addizionale.”

Ulteriori perplessità sono poi nate in ordine al perimetro soggettivo di applicazione della norma. La lettera dell’art. 33 del decreto-legge n. 78, nella misura in cui si limita a fare riferimento tout courtai dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti del settore finanziario nonché ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore”, a prescindere dal ruolo effettivamente rivestito dal dirigente o dal collaboratore e dalla sua incidenza sui profili di rischio per l’impresa, potrebbe aver “frainteso” la ratio alla base dell’introduzione dell’addizionale. In base alla formulazione letterale della norma, il perimetro applicativo dell’addizionale finisce infatti per essere ricollegato in automatico alla qualifica dirigenziale indicata nel contratto di lavoro, a prescindere dal “peso” del dirigente sui profili di rischio per l’impresa; e tale impostazione “oggettiva” è stata rimarcata dall’Agenzia delle entrate (nella circolare n. 4/E del 2011, par. 13.2) la quale non ha mancato di sottolineare che “l’addizionale trova applicazione nei confronti dei dipendenti che rivestono la qualifica di dirigenti e dei collaboratori che operano nel settore. Il riferimento ad una specifica categoria di lavoratori subordinati … comporta che il requisito di appartenenza alla categoria … non essendo oggetto di specifica previsione normativa, è demandato al contratto di lavoro”.

Nella stessa sede, l’Agenzia ha inoltre affermato, sempre in ordine all’ambito soggettivo di applicazione dell’addizionale, che esso deve essere individuato, in assenza di una espressa definizione del settore finanziario, “nelle banche e negli altri enti finanziari, nonché negli enti e nelle altre società la cui attività consista in via esclusiva o prevalente nell’assunzione di partecipazioni”, aggiungendo che nell’ambito del settore finanziario devono essere ricondotte “le banche, nonché, ad esempio, le società di gestione (SGR), le società di intermediazione mobiliare (SIM), gli intermediari finanziari, gli istituti che svolgono attività di emissione di moneta elettronica, le società esercenti le attività finanziarie indicate nell’art. 59, comma 1, lett. b) del Testo unico bancario, le holding che assumono e/o gestiscono partecipazioni in società finanziarie, creditizie o industriali” (posizione poi ribadita dall’Agenzia, nonostante le intervenute modifiche legislative del settore finanziario, anche nella successiva risposta a interpello n. 106 del 2018, sulla quale criticamente Rossi L. – Ampolilla M., La nozione di intermediari finanziari ai fini IRES, IRAP e dell’addizionale del 10% su bonus e stock option, Il fisco, 2019, p. 313).

La sostenuta ricomprensione delle holding industriali, e conseguentemente dei loro dirigenti e collaboratori, nell’ambito di applicazione dell’addizionale del 10 per cento ha subito sollevato notevoli perplessità (cfr.: circolare Assonime n. 27 del 2011, pp. 7 ss.; nota Assoholding del 21 febbraio 2011) se rapportata alla ratio della previsione normativa come emergente sia dalla relazione illustrativa che dalla relazione tecnica del citato decreto-legge n. 78.

La relazione illustrativa chiariva, infatti, la derivazione della previsione normativa dalle decisioni del citato G20 e la relazione tecnica, a sua volta, riferiva chiaramente la disciplina in questione ai soli dipendenti del settore “intermediazione monetaria e finanziaria”, coerentemente alla finalità della norma, nata per colpire i soggetti in grado di “gonfiare” artificiosamente i bilanci di banche e istituti di investimento al solo fine di ottenere i bonus legati alle suddette performance, aggravando la crisi economico-finanziaria dei suddetti enti.

Ma al di là delle suddette ragioni sistematiche, anche sotto il profilo normativo l’inserimento delle holding industriali – cioè delle holding la cui attività è prevalentemente diretta nei confronti delle società del gruppo industriale e che quindi non si configurano quali soggetti in grado di produrre effetti di destabilizzazione dell’economia – nell’ambito dei soggetti del settore finanziario poteva essere oggetto di contestazione, posto che la disciplina degli intermediari finanziari dettata dal decreto legislativo n. 141 del 2010, come modificato dal successivo decreto legislativo n. 218 dello stesso anno, aveva istituito un regime di riserva per la sola attività di concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico – soggetta ad autorizzazione ed esercitabile solo previa iscrizione nell’apposito albo unico – disponendo l’irrilevanza, agli stessi fini, dell’attività di intermediazione in cambi e dell’attività di assunzione di partecipazioni in società industriali. Nell’attuale titolo V del Testo unico bancario, il finanziamento esercitato in modo prevalente ma non nei confronti del pubblico non è considerato attività finanziaria rilevante; e proprio per questo sono stati eliminati dal testo unico bancario sia l’elenco speciale degli intermediari finanziari quanto l’apposita sezione dell’elenco generale di cui all’art. 113 riservata ai soggetti non operanti nei confronti del pubblico.

In altri termini, quando il legislatore ha ridisegnato il regime delle autorizzazioni e dei controlli cui sono sottoposti i soggetti operanti nel settore finanziario, ne ha contestualmente circoscritto l’operatività a quelli le cui attività possono effettivamente presentare profili di rischio per il pubblico e quindi creare situazioni di instabilità a livello sistemico.

La definizione dei soggetti fiscalmente rientranti nel settore finanziario si è in ogni caso ulteriormente chiarita con l’entrata in vigore – a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2018 – dell’art. 162-bis del TUIR, il quale reca la definizione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, degli intermediari finanziari e delle società di partecipazione finanziaria. Più in particolare, ai sensi del comma 1, lettera a) e b) del citato art. 162-bis del TUIR, attualmente rientrano nella definizione di intermediari finanziari: “1) i soggetti indicati nell’art. 2, comma 1, lett. c), del decreto legislativo n. 38 del 2005 e i soggetti con stabile organizzazione ne territorio dello Stato aventi le medesime caratteristiche; 2) i confidi iscritti nell’elenco di cui all’art. 112-bis del decreto legislativo n. 385 del 1993; 3) gli operatori del microcredito iscritti nell’elenco di cui all’art. 111 del decreto legislativo n. 385 del 1993; 4) i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari, diversi da quelli di cui al numero 1)”. Ai sensi della successiva lettera c) del comma 1 dell’art. 162-bis del TUIR costituiscono viceversa “società di partecipazione non finanziaria e assimilati: 1) i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in soggetti diversi dagli intermediari finanziari, 2) i soggetti che svolgono attività non nei confronti del pubblico …”.

Ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, nella definizione di società di partecipazione finanziaria rientrano dunque i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari; non possono invece considerarsi tali le holding industriali.

4. La Corte costituzionale, chiamata a valutare la legittimità dell’addizionale alla luce dei principi di uguaglianza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost., nella sentenza n. 201 del 2014 – pur non soffermandosi sulla definizione di “settore finanziario” – ha ravvisato la ratio della previsione normativa nella finalità di disincentivare forme di remunerazione variabili del settore finanziario legate più a logiche speculative di breve periodo che all’effettiva produttività e in grado di pregiudicare la stabilità finanziaria e ha circoscritto la categoria dei soggetti passivi dell’addizionale in questione a coloro che “in ragione del tasso di professionalità, della autonomia operativa, del potere decisionale di cui godono e dall’aspirazione a maggiori guadagni personali (per il legame tra l’andamento del titolo da un lato ed il riconoscimento e l’ammontare del beneficio correlato a dette forme di compenso dall’altro) sono in grado di porre in essere attività speculative suscettibili di pregiudicare la stabilità finanziaria”. Significativamente, i giudici costituzionali aggiungono che “Un rischio di questo genere non ricorre per l’attività degli altri contribuenti che vengono retribuiti in modo analogo ma non hanno la stessa possibilità di incidere, con il loro operato, sulla stabilità dei mercati finanziari. Pertanto, da un lato, la scelta disincentivante del legislatore è tutt’altro che irragionevole o arbitraria e, dall’altro, non è ingiustificata la limitazione al solo settore finanziario della platea dei soggetti passivi sottoposti al prelievo addizionale”.

In senso conforme a tale impostazione ricostruttiva, nell’individuare il perimetro del “settore finanziario” all’interno del quale si collocano i dirigenti e i collaboratori coordinati e continuativi suscettibili di essere colpiti dall’addizionale del 10 per cento, le prime pronunce della Cassazione (cfr. ord. n. 22692 del 19 ottobre 2020; ord. n. 3913 del 2022) in argomento hanno anch’esse fatto riferimento alla ratio della previsione normativa e dunque ha richiamato la risoluzione del 24 aprile 2009, con la quale il Parlamento europeo (al punto 15) “accoglie con favore la decisione del G20 di promuovere l’integrità e la trasparenza nei mercati finanziari e una maggiore responsabilità degli attori finanziari; plaude alla promessa del G20 di riformare i sistemi di remunerazione in modo più sostenibile come parte della revisione normativa in campo finanziario e ribadisce l’importanza di legare gli incentivi a prestazioni a lungo termine, evitando incentivi che inducono all’irresponsabilità e garantendo l’applicazione a livello settoriale dei nuovi principi al fine di assicurare condizioni di concorrenza uniformi …”. In questa prospettiva, nelle citate ordinanze n. 22692 del 2020 e 3913 del 2022, la Cassazione ha escluso l’applicabilità dell’addizionale nei confronti dei dirigenti di una holding industriale, confermando che quel che caratterizza il settore finanziario, come disciplinato dal Testo unico bancario e come richiamato dall’art. 33 del decreto-legge n. 78, è l’attività rivolta al pubblico.

5. Le possibili criticità interpretative legate alla disciplina contenuta nell’art. 33 del decreto-legge n. 78 del 2010 e all’interpretazione rigorosa sul punto sostenuta dall’Agenzia delle entrate nella definizione del perimetro soggettivo di applicazione dell’addizionale sono state opportunamente segnalate nel corso dell’interrogazione parlamentare n. 5-07238 del 12 gennaio 2022. Nella risposta, formulata dal Governo sentiti gli Uffici competenti, si rileva – quanto alla corretta individuazione dell’ambito soggettivo della suddetta disciplina – che, a decorrere dal periodo di imposta in corso al 31 dicembre 2018, è entrato in vigore il ricordato art. 162-bis del TUIR il quale reca la definizione, ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, degli intermediari finanziari e delle società di partecipazione finanziaria.

Per effetto di tale espressa previsione normativa, nella risposta a interrogazione parlamentare del 2022 si afferma il definitivo superamento della risposta a istanza di interpello n. 106/2018, nella parte in cui, per definire le imprese operanti nel settore finanziario, faceva ancora riferimento al decreto legislativo n. 87 del 1992. In questa prospettiva, trattandosi di una risposta data dopo aver sentito gli Uffici competenti, avrebbe pertanto dovuto ritenersi definitivamente superata – quanto meno per le assegnazioni di bonus e stock option avvenute dal 2018 in poi – l’interpretazione dell’Agenzia delle entrate volta a ricondurre nella definizione di “settore finanziario” anche le holding che assumono e gestiscono partecipazioni in società industriali.

6. A sorpresa, con sentenze n. 16875 del 13 giugno 2023 e n. 18549 del 30 giugno 2023, la Cassazione inverte la rotta, sollevando – a distanza di 13 anni dall’emanazione della norma contestata – un conflitto di orientamenti verosimilmente destinato a finire davanti alle Sezioni unite (se non risolto diversamente, e più velocemente, con una nuova risposta ad interrogazione parlamentare). Nella sentenza n. 16875, dopo una dotta dissertazione sul contesto internazionale che ha indotto il legislatore italiano ad introdurre l’addizionale, per sconfessare il proprio precedente orientamento la Cassazione afferma che “la ratio essenziale e selettiva dell’intervento normativo stia proprio nella pericolosità di condotte dei dirigenti, che siano stimolate da forme di retribuzione variabile, per l’economia reale, ed è tale potenzialità nociva che quindi caratterizza la delimitazione del “settore”, rilevante ai fini dell’imposta addizionale. La ragione socioeconomica della norma in esame era quindi quella di intervenire ad ampio raggio sul “settore finanziario”, per comprendere, con imposizione di pericolo astratto (o presunto), tutti gli attori che, operando sulla scena finanziaria globale, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi. In questo senso, significativa è peraltro l’estensione dell’addizionale anche ai ‘titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa nello stesso settore’, che evidenzia come la funzione general-preventiva di pericolo astratto (o presunto) sia stata estesa persino al di fuori dei normali rapporti di preposizione organica, per cogliere posizioni soggettive che, pur collaterali, hanno comunque attitudine potenziale ad incidere sulla leva finanziaria. Altrettanto significativa è pure l’accentuazione della funzione general-preventiva dell’addizionale derivata dal successivo ampliamento, con il D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 23, comma 50-bis, convertito con modificazioni dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, della platea dei soggetti passivi dell’imposizione, attraverso l’aggiunta, al D.L. n. 78 del 2010, art. 33, del comma 2-bis, che ha reso applicabile l’addizionale sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione. In tale prospettiva generale di prevenzione anticipata del rischio di effetti economici potenzialmente distorsivi, deve quindi ritenersi che il ridetto art. 33, comma 1, contenga una clausola generale riferita al “settore finanziario” approcciato nella sua globalità e complessità, la cui nozione fiscale è derivata da quella socioeconomica, sì da comprendere tutti quegli attori di compagini (anche non necessariamente soggetti a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico) che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente e/o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di incentivi retributivi”.

Nello stesso senso si orienta la successiva sentenza n. 18549, nella quale si ribadisce la generale riferibilità dell’addizionale “al settore finanziario inteso nella sua globalità e complessità, sì da ricomprendere anche soggetti non necessariamente sottoposti a vigilanza e/o che svolgano attività rivolta al pubblico, stante la ragione socio-economica di un intervento diretto a comprendere tutti quegli attori di compagini che, essendo attive sulla scena finanziaria, sono in grado, direttamente o indirettamente, di indurne torsioni pregiudizievoli per effetto di abnormi incentivi retributivi, laddove, riguardo alla disposizione di riferimento, eventuali riscontri extra-testuali – derivanti da fonti nazionali, europee ed internazionali – possono rivestire solo il ruolo di indici rivelatori esemplificativi, ma non esaustivi della fattispecie tributaria interna (nella specie la Corte ha ritenuto che rientrino in essa le società che svolgano servizi di consulenza e assistenza in materia societaria e finanziaria alle aziende)”.

Il percorso interpretativo seguito dai giudici di Cassazione in queste più recenti pronunce, laddove si parla di una “funzione general-preventiva di pericolo astratto (o presunto)”, sembra trascendere la ratio dell’addizionale, quasi attribuendo tout court al meccanismo dei bonus e delle stock option – già in passato e anche attualmente “premiato” con trattamenti fiscali di favore (pensiamo all’imposta sostitutiva del 10 per cento sui premi di produttività) che la proposta riforma di delega fiscale oggi in discussione sembrerebbe voler rafforzare, quale modalità di fidelizzazione all’impresa dei dipendenti e dei collaboratori – una valenza vagamente pericolosa. Non a caso nella sentenza n. 16875 si sottolinea la “potenziale attitudine a produrre, se stimolati dalla conseguente maggior retribuzione variabile, effetti economici potenzialmente distorsivi”; attitudine che, si rileva, “non appare esclusiva dei dirigenti di banche e degli intermediari finanziari, potendo ravvisarsi anche nei dirigenti di grandi gruppi industriali e delle holding industriali e finanziarie, che possono generare il medesimo pericolo attraverso l’acquisto e la vendita di partecipazioni, l’acquisto di prodotti finanziari di rischio elevato o il ricorso a strategie finalizzate a far salire o scendere il valore di un titolo.

Attribuire la responsabilità della crisi finanziaria mondiale a comportamenti individuali di manager di holding industriali la cui attività è esclusivamente rivolta alle società del gruppo industriale o addirittura ai dirigenti di “gruppi industriali” come affermano le più recenti sentenze della Cassazione (bypassando tout court anche il riferimento normativo al settore finanziario) rappresenta però un approdo francamente difficile da condividere (in tal senso cfr.: Campodonico F., La legittimità costituzionale del prelievo addizionale su bonus e stock option dei dirigenti del settore finanziario, in Dir. prat. trib., 2015, 20423 ss.).

7. Il più recente orientamento dei giudici di Cassazione sembra, in definitiva, frutto di una lettura delle stock option e dei bonus che prova troppo e che, per scongiurarne qualunque valenza potenzialmente destabilizzante sull’economia, mette in discussione il precedente orientamento assunto sul tema dalla stessa Cassazione, finendo per colpire il malcapitato dirigente della holding industriale e il consulente finanziario sottoposti a questi più recenti giudizi, laddove altri dirigenti di holding industriali in analoghe situazioni hanno addirittura ottenuto in passato, davanti alla stessa Suprema Corte e sulla medesima questione, la condanna dell’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese di lite.

E’ vero che il nostro ordinamento non codifica, almeno nei rapporti tra sezioni semplici della Suprema Corte, lo stare decisis, cioè il principio di vincolatività del precedente; tuttavia dovrebbero sempre sussistere apprezzabili ragioni giustificatrici per mutare un indirizzo giurisprudenziale consolidato, anche in considerazione del fatto che il conflitto interpretativo così evidenziato e verosimilmente destinato a trovare composizione solo davanti alle Sezioni Unite incide in modo rilevante sull’affidamento dei contribuenti in ordine alla portata delle “regole del gioco” e con ciò si pone in contrasto con la prospettiva di trasparenza e certezza del diritto nella quale si muove la proposta di riforma fiscale oggi in discussione.

Il problema dei contrasti interpretativi tra diverse sezioni della Cassazione è in parte legato, come sosteneva la migliore dottrina (Taruffo M., Il vertice ambiguo. Saggi sulla cassazione civile, Bologna, 1991), alla natura ambigua di tale giudice, chiamato a svolgere al tempo stesso funzioni di Corte suprema (ius constitutionis) e di Corte di terza istanza (ius litigatoris). E’ vero che, come giudice di terza istanza, la Cassazione deve assicurare la tutela dei diritti delle parti e ciò contribuisce ad aumentare esponenzialmente il numero dei ricorsi e delle decisioni prodotte, a scapito del ruolo nomofilattico, che riesce ad assolvere solo quando decide a sezioni unite; tuttavia, nel caso oggetto della recente pronuncia, il contrasto giurisprudenziale che viene a determinarsi con la pronuncia in commento non nasce da un’oggettiva difficoltà, per la Suprema Corte, di conoscere i propri precedenti – che sono, viceversa, ben conosciuti e citati, prima di essere disconosciuti – né sussistevano, ad avviso di chi scrive, le “buone ragioni” che la stessa Cassazione richiede per discostarsi da un indirizzo giurisprudenziale già acquisito.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

Rossi L. – Ampolilla M., La nozione di intermediari finanziari ai fini IRES, IRAP e dell’addizionale del 10% su bonus e stock option, Il fisco, 2019, 313

Campodonico F., La legittimità costituzionale del prelievo addizionale su bonus e stock option dei dirigenti del settore finanziario, in Dir. prat. trib., 2015, 20423 ss.

Bergantino R. – Ciappina B., L’addizionale IRPEF del 10 per cento per i dipendenti del settore finanziario nel caso delle “holding industriali, in Corr. trib., 2014, 103

Trettel S., Dubbi interpretativi per l’addizionale Irpef sulle stock options dei manager, in Corr. trib., 2011, 1027

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