La presunzione di redditività dei prelevamenti bancari, all’indomani della pronuncia della Corte costituzionale n. 10/2023

Di Cristina Faone -

Abstract

Con la sentenza n. 10 del 31 gennaio 2023, il Giudice delle Leggi ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 nella parte in cui attribuisce rilevanza reddituale alle operazioni di prelevamento ingiustificate anche nei confronti dei contribuenti che abbiano adottato il regime di contabilità semplificata. Infatti, secondo la Consulta, la norma prevede sempre la possibilità di superare le risultanze dell’accertamento erariale attraverso altrettanti elementi presuntivi contrari, nonché di eccepire, anche in caso di accertamenti induttivi “misti”, la percentuale dei costi deducibili dall’importo dei prelevamenti ingiustificati. La pronuncia offre l’occasione per esaminare le questioni che maggiormente hanno interessato, negli ultimi anni, la dottrina e la giurisprudenza sul tema ed indagare se la soluzione da ultimo offerta dalla Corte costituzionale sia in grado di “domare” le perplessità sollevate sulla presunzione in parola.

The presumption of profitability of bank withdrawals, following the ruling of the Constitutional Court n. 10/2023. – The Italian Constitutional Court, with the Judgment no. 10 of 31 January 2023, declared the constitutionality of art. 32, par. 1, no. 2 of the Presidential Decree no. 600 of 1973 whereby it provides that unjustified  withdrawals are presumtively considered revenue even for taxpayers who adopt a simplified accounting regime. According to the Court, the provision is reasonable since the taxpayer can always oppose likewise presumptions and, in any case, demonstrate the percentage incidence of the relative costs deductible from the amount of the unjustified withdrawals. The paper aims to examine the principle recent issues on the aforementioned presumption rule, as well as to investigate the worth of the Judgement by the Court.

 

 

Sommario: 1. La questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice di merito. – 2. La presunzione di redditività delle movimentazioni finanziari tra interventi legislativi e pronunce della Consulta. – 3. L’onere probatorio in caso di accertamenti bancari. Riparto e contenuto. – 4. Il regime di contabilità semplificata. – 5. La sentenza della Corte costituzionale e le prime applicazioni da parte della giurisprudenza. – 6. Considerazioni conclusive.

 

 

1. La vicenda da cui trae origine la questione sottoposta al vaglio della Corte costituzionale prende le mosse da alcune indagini finanziarie condotte sui conti correnti di un imprenditore individuale, all’esito delle quali l’Agenzia delle Entrate aveva ripreso a tassazione le operazioni di prelevamento non giustificate accertando, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, una maggiore base imponibile ai fini IRPEF, IRAP e IVA.

Nell’esaminare il ricorso giurisdizionale promosso dal contribuente, la Commissione Tributaria Provinciale di Arezzo (oggi Corte di Giustizia Tributaria di primo grado) ha sollevato alcuni dubbi di legittimità della norma in discussione alla stregua dell’art. 3 Cost. In particolare, il Collegio di merito ha evidenziato come – analogamente a quanto accade per i lavoratori autonomi per i quali la Consulta, in passato, ha reputato illegittima la presunzione di redditività dei prelevamenti – anche nell’ipotesi dei piccoli imprenditori individuali che adottino il regime di contabilità semplificata, l’operazione di prelievo dal conto corrente può essere attribuita sia all’attività di impresa sia, altrettanto ragionevolmente, a spese personali, sussistendo una sorta di “promiscuità contabile”.

Il Giudice a quo, inoltre, ha evidenziato come la giurisprudenza di legittimità sovente neghi la deduzione automatica dei costi sostenuti per conseguire presuntivamente i ricavi corrispondenti alle somme prelevate senza giustificazione qualora, come nel caso di specie, l’Amministrazione finanziaria abbia ricostruito il reddito con metodo di accertamento analitico-contabile. Un simile orientamento giurisprudenziale, secondo il Collegio di merito, condurrebbe, di fatto, alla violazione dell’art. 53 Cost. presumendosi che, mediante il prelievo, venga effettuato un acquisto di fattori produttivi che genera, nel medesimo anno di imposta, ricavi pari ai prelevamenti non contabilizzati.

Con il presente contributo, dopo avere esaminato, sinteticamente e senza alcuna pretesa di esaustività, gli argomenti innanzi citati anche alla luce della più recente giurisprudenza, si analizzerà la soluzione offerta dalla Corte costituzionale anche al fine di verificare se sia idonea a superare le perplessità intorno alla disposizione in parola.

2. L’ordinamento tributario è caratterizzato dal diffuso ricorso a metodi di accertamento di natura presuntiva volti a controbilanciare la posizione di inferiorità conoscitiva in cui versa fisiologicamente l’Amministrazione finanziaria, per il fatto di intervenire sempre a posteriori senza partecipare alle vicende economiche cui si ricollegano gli imponibili (Lupi R., Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, 76 ss.).

La presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 – introdotta dall’art. 1 D.P.R. n. 463/1982 con la precipua finalità di contrastare i fenomeni di evasione in un contesto storico nel quale operava ancora il segreto bancario – è certamente uno degli strumenti che ha maggiormente alimentato, e tuttora sollecita, i dubbi della dottrina e della giurisprudenza.

Le perplessità denunciate attengono, principalmente, alla presunzione di redditività dei prelevamenti sui conti correnti bancari che già più volte, in passato, è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.

Si ricorderà, infatti, che con la sentenza n. 225/2005, la Consulta ha escluso la violazione dell’art. 53 Cost., sollevata dal Giudice di merito, rilevando come, in caso di accertamento induttivo, l’Ufficio – nel ricostruire il maggior reddito in capo al titolare del rapporto bancario – ha sempre l’obbligo di tenere conto non solo dei maggiori ricavi discendenti dai prelevamenti ingiustificati ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, sterilizzandosi, così, il rischio di una doppia imposizione (tra i primi commenti sulla pronuncia si vedano: Fransoni G., La presunzione di ricavi fondata sui prelevamenti bancari nell’interpretazione della Corte costituzionale, in Riv. dir. trib., 2005, 9, I, 967 ss. e Comelli A., L’accertamento bancario tra principio di eguaglianza e principio di capacità contributiva, in GT – Riv. giur. trib., 2005, 9, 805 ss.).

Quasi dieci anni dopo, il Giudice delle Leggi è stato chiamato nuovamente a valutare la legittimità costituzionale della presunzione sui prelevamenti che, nel frattempo, era stata estesa anche ai lavoratori autonomi ad opera dell’art. 1, comma 402, L. n. 311/2004 (in dottrina, tra coloro che hanno manifestato un giudizio favorevole alla modifica della disposizione in questione, si segnala Capolupo S., Manuale dell’accertamento delle imposte, Milano, 2009, 981 ss.; di contro, Falsitta G., Lotta ad oltranza alla piaga dell’evasione fiscale ma senza moratoria delle garanzie costituzionali, in Corr. giur., 2007, 1, 5 ss. ha definito la novella come una: «presunzione priva di razionalità se applicata alle imprese e totalmente assurda se estesa (come è stato fatto) ai lavoratori autonomi»).

Proprio con riguardo a tale ampliamento soggettivo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 228/2014, ha ritenuto illegittima la norma.

In particolare, la Consulta, dopo avere premesso che il fondamento economico-contabile della presunzione in discussione è congruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale in cui si ravvisa la necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi, ha evidenziato come, al contrario, l’attività svolta dai lavoratori autonomi si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo che diventa del tutto assente per coloro che svolgono professioni liberali. Il Giudice delle Leggi ha, inoltre, sottolineato come i prelevamenti sui conti correnti dei lavoratori autonomi si inseriscano in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale tale categoria e da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali (hanno condiviso le conclusioni della pronuncia, ma non il percorso argomentativo, tra gli altri, Graziano F. – Procopio M., L’illegittima presunzione della natura reddituale dei prelevamenti bancari dei professionisti, in Dir. prat. trib., 2015, 1, II, 27 ss. e Della Valle E., I prelievi bancari dei professionisti e la scomparsa della «relativa» presunzione, in il fisco, 2014, 45, 4421 ss.; per una lettura critica, invece, v. Cardillo M., Davvero incostituzionale la presunzione sui prelevamenti bancari dei lavoratori autonomi?, in Dir. prat. trib., 2015, 2, II, 221 ss.).

Successivamente, ferma la portata retroattiva della predetta sentenza, con l’art. 7-quater, comma 1, D.L. n. 193/2016, convertito da L. n. 225/2016, è stato espunto dal dettato normativo il riferimento ai “compensi”, sul quale era stata basata l’estensione soggettiva della norma ai lavoratori autonomi, e la presunzione è stata limitata ai rapporti od operazioni per importi superiori a 1.000 euro giornalieri e, comunque, a 5.000 euro mensili distinguendo, in tale modo, i prelevamenti bagatellari da quelli rilevanti ai fini reddituali (secondo Artuso E. – Bisinella I., Appunti sugli accertamenti bancari ed in specie sulle presunzioni derivanti dai prelevamenti, in Dir. prat. trib., 2018, 1, I, 20 ss. l’intervento del legislatore è stato anche finalizzato a frenare un indirizzo della giurisprudenza di legittimità che estendeva la declaratoria di incostituzionalità anche ai versamenti operati dal lavoratore autonomo; sull’argomento v. anche Lovecchio L., Modifiche agli accertamenti finanziari: ancora incerti i possibili effetti sulla interpretazione giurisprudenziale, in il fisco, 2017, 17, 1617 ss., che ha evidenziato come l’equivoco giurisprudenziale sia stato alimentato anche dai lavori preparatori alla L. n. 225/2016).

Ad oggi, quindi, per effetto dei richiamati interventi costituzionali e legislativi, la presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 è applicabile nei confronti della generalità dei contribuenti, ad eccezione delle operazioni di prelievo per importi superiori a 1.000 euro giornalieri e a 5.000 euro mensili, per le quali la presunzione di redditività vale solo nei confronti dei titolari di reddito di impresa, sempre che i prelievi non risultino dalle scritture contabili e siano privi dell’indicazione di un beneficiario (in tale senso, da ultimo, si veda Cass., Sez. trib., ord., 28 settembre 2022, n. 28314).

3. L’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973 pone a fondamento dell’accertamento bancario una presunzione di tipo relativo (in tale senso, v., tra gli altri, Salvini L., La partecipazione del privato all’accertamento, Padova, 1990, 241 ss.; di contrario avviso sembrano essere, invece, Tosi L., Segreto bancario: irretroattività e portata dell’art. 18 della L., n. 413 del 1991, in Rass. trib., 1995, 9, 1383 ss. e Viotto A., I poteri di indagine dell’amministrazione finanziaria, Milano, 2002, 218, che la reputano una presunzione semplice).

Infatti, la disposizione è evidentemente volta a facilitare l’azione accertatrice da parte dell’Amministrazione finanziaria ponendo a carico del contribuente l’onere di dimostrare la non riconducibilità delle operazioni di versamento e prelievo (per gli imprenditori) a forme di ricchezza non dichiarata, anche in ragione della sua posizione di “vicinanza” alla prova.

In questo senso, in dottrina è stato affermato che la disposizione ha natura di “norma sulle prove” (sul punto v. Artuso E., I prelevamenti bancari effettuati dai professionisti e la nuova presunzione di compensi tra principi di civiltà giuridica, divieto di retroattività e ambigue classificazioni delle norme sulle prove, in Riv. dir. trib., 2007, 1, I, 3 ss.; Ficari V., La rilevanza delle movimentazioni bancarie e finanziarie ai fini dell’accertamento delle imposte sul reddito e sul valore aggiunto, in Rass. trib., 2009, 5, 1269 ss., invece, prospetta il carattere sostanziale della norma evidenziandone gli effetti conseguenti alla mancata prova da parte del contribuente).

La controprova, invece, è lo strumento che consente di riequilibrare le posizioni tra Fisco e contribuente, soprattutto in considerazione del fatto che, secondo l’orientamento maggioritario della Corte di Cassazione, l’utilizzazione degli elementi risultanti dalle movimentazioni bancarie non pare neppure condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio (Cass., Sez. VI – 5, ord., 27 febbraio 2019, n. 5777).

Mentre, però, l’Amministrazione può riferire de plano (per esprimersi negli esatti termini della giurisprudenza di legittimità) ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente, più controverso è il contenuto della prova contraria a carico dell’imprenditore.

In via generale, l’imprenditore deve, alternativamente, dimostrare che: a) i dati e gli elementi valorizzati dall’Ufficio sono già stati tenuti in considerazione per la determinazione del reddito soggetto ad imposta; b) detti dati non hanno rilevanza reddituale; c) i prelevamenti e gli importi riscossi risultano dalle scritture contabili; d) gli stessi hanno un determinato soggetto beneficiario indicato puntualmente e vi è la prova dell’effettivo convogliamento verso quest’ultimo del denaro (in questo senso specifico v. Salvini L., La partecipazione del privato all’accertamento, cit., 244).

Scendendo nel dettaglio della controprova, si registra un contrasto giurisprudenziale circa la tipologia degli elementi valorizzabili dal contribuente per superare le presunzioni poste a base dell’accertamento erariale.

In alcune occasioni, la Corte di Cassazione afferma che detta prova «dev’essere fondata su concreti elementi di prova e non già su presunzioni o affermazioni di carattere generale o sul mero richiamo all’equità» (Cass., Sez. trib., ord., 14 dicembre 2022, n. 36521; Cass., Sez. trib., 23 settembre 2022, nn. 27916 e 27917; Cass., Sez. trib., 16 luglio 2020, n. 15161).

Un altro indirizzo della giurisprudenza di legittimità, invece, senza entrare nel dettaglio della “tipologia” di prova che può/deve essere eccepita a superamento delle presunzioni sui prelevamenti utilizzate dal Fisco, si limita a rilevare che il contribuente deve fornire una prova analitica specificando, per ogni singola movimentazione, la riferibilità alle operazioni evidenziate nella dichiarazione dei redditi o l’estraneità delle stesse alla propria attività di impresa (cfr., tra le più recenti, Cass., Sez. trib., ord., 17 gennaio 2023, n. 1306 che esclude l’idoneità probatoria della perizia di parte; Cass., Sez. trib., ord., 27 settembre 2022, n. 28076; Cass., Sez. trib., 21 settembre 2022, n. 2706; Cass., Sez. trib., ord., 15 settembre 2022, n. 27154).

Infine, secondo un orientamento più apprezzabile ma minoritario, anche in caso di accertamenti bancari, il contribuente può contrastare le presunzioni sui prelevamenti anche attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, vigendo il principio di libertà dei mezzi di prova in assenza di un espresso divieto normativo. Spetterà, poi, al giudice la verifica analitica dei fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, «il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto, complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative» (Cass., Sez. trib. – VI, 30 novembre 2022, n. 35284; Cass., Sez. VI – 5, ord., 5 maggio 2017, n. 11102).

Sebbene, con quest’ultimo indirizzo, la Corte di Cassazione dimostri di adottare una soluzione interpretativa rispettosa dei principi che governano la materia processuale e volta a riequilibrare i rapporti tra Fisco e contribuente, non può negarsi che, nel momento in cui si indaghino i concreti elementi di prova validamente opponibili a superamento della presunzione di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, lo sforzo ermeneutico rischia di apparire vano.

Esaminando i precedenti giurisprudenziali, sono, infatti, marginali i casi in cui gli elementi offerti dal contribuente siano stati considerati idonei a dimostrare l’erroneità della ripresa a tassazione da parte dell’Agenzia delle Entrate. Generalmente, ciò si è verificato con riguardo alle operazioni di prelievo in cui vi era una perfetta coincidenza con gli importi recati in fatture ricevute per ragioni estranee all’attività di impresa (a titolo esemplificativo la CTR Piemonte, Sez. III, 6 ottobre 2021, n. 773, tra le tante prove fornite dal contribuente, ha ritenuto validamente dimostrate solo le spese per onorari ad un libero professionista in quanto perfettamente coincidenti, nell’ammontare, con quelli indicati in fattura oppure v. CTP Milano, Sez. XXIX, 3 dicembre 1997, n. 361 che ha reputato validamente giustificati i prelevamenti utilizzati per effettuare versamenti alla Tesoreria dello Stato) o alle operazioni di giroconto laddove l’eventuale minore somma versata rispetto a quella prelevata fosse compatibile con le ordinarie esigenze di vita del nucleo familiare (Cass., Sez. trib., 22 marzo 2017, n. 7259).

Il quadro probatorio, poi, appare ancora più “sconfortante” per il contribuente (e forse anche iniquo) se si considera che, come rilevato dalla stessa Corte costituzionale in commento, la giurisprudenza di legittimità afferma che, ove l’atto impositivo sia frutto di un accertamento analitico-induttivo o c.d. “misto”, di cui all’art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 600/1973 (per l’IVA v. l’art. 54, commi 2 e 3, D.P.R. n. 633/1972), spetta al contribuente dimostrare la sussistenza di componenti negative di reddito deducibili, ai sensi dell’art. 109 TUIR, non potendosi ricorrere a forfettizzazioni di sorta (tra le più recenti, ex plurimus, v. Cass., Sez. trib., 23 gennaio 2023, n. 1949).

Diversamente, qualora le indagini bancarie siano rese nell’ambito di un accertamento induttivo c.d. “puro”, la Corte di Cassazione sancisce l’obbligo in capo all’Ufficio di determinare induttivamente non solo i ricavi ma anche i corrispondenti costi in misura forfettaria (in questi termini anche circ. 19 ottobre 2006, n. 32/E; vi è, poi, una parte della giurisprudenza che esclude a priori, in caso di indagini bancarie, la deducibilità dei costi non adeguatamente dimostrati annoverando l’indagine bancaria nella categoria degli accertamenti analitici o analitico-presuntivi. In tale senso, v. Cass., Sez. trib., ord., 30 novembre 2022, n. 35329; Cass., Sez. trib., ord., 9 novembre 2022, n. 34996; Cass., Sez. trib., 5 ottobre 2022, n. 28994).

La ratio sottesa a tale orientamento poggia sulla considerazione che, mentre in caso di accertamento induttivo puro, la contabilità del contribuente è del tutto inattendibile o mancante, per cui solo ricorrendo alla forfettizzazione sarebbero quantificabili gli elementi passivi del reddito; nel nell’accertamento induttivo misto, invece, basandosi su elementi contabili ritenuti, nel complesso, attendibili, tornerebbero ad operare le regole generali di riparto dell’onere probatorio, sicché i fatti estintivi della pretesa dell’Amministrazione finanziaria devono essere dimostrati dal debitore (sull’asimmetria dell’onus probandi v. Franceschelli R., La deducibilità o indeducibilità forfettaria dei costi nell’accertamento analitico-induttivo, in Dir. prat. trib., 2020, 6, 2690 ss.)

4. Come accennato, nel dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di merito, la Consulta ha altresì escluso l’equiparabilità delle imprese minori che adottano il regime di contabilità semplificata ai lavoratori autonomi.

Come noto, ai sensi dell’art. 18 D.P.R. n. 600/1973, così come di recente modificato dal comma 276 dell’art. 1 L. n. 197/2022 (c.d. Legge di bilancio 2023), le imprese individuali, le società di persone e gli enti non commerciali che esercitano un’attività commerciale in via prevalente ed i cui ricavi non abbiano superato l’ammontare di 500.000 euro in caso di prestazioni di servizi, ovvero di 800.000 euro per le imprese aventi per oggetto altre attività, possono optare per un regime di contabilità semplificata.

L’opzione opera solo sotto il profilo fiscale rimanendo in capo all’imprenditore l’obbligo della tenuta delle scritture contabili se previsto da altri rami del diritto (con la conseguenza che il suo inadempimento può integrare, ove preordinato a rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio dell’imprenditore, la fattispecie incriminatrice del reato di bancarotta fraudolenta documentale; in tale senso v. Cass. pen., Sez. V., ord., 6 dicembre 2029, n. 1556; Cass. pen., Sez. V, 5 febbraio 2018, n. 5357).

Per effetto di tale regime, quindi, l’imprenditore è esonerato dalla tenuta del libro giornale e del libro inventari di cui agli artt. 2216 e 2217 c.c. dovendo solo provvedere alla compilazione dei registri IVA acquisti ed IVA vendite, da integrare con le annotazioni ai fini delle imposte sui redditi relativamente alle operazioni non soggette ad IVA.

Inoltre, a seguito della modifica dell’art. 66 TUIR operata dall’art. 1, comma 23, L. 232/2016, per gli imprenditori in contabilità semplificata, a partire dal 1° gennaio 2017, il reddito di impresa è costituito dalla differenza tra l‘ammontare dei ricavi e degli altri proventi percepiti nel periodo d’imposta e quello delle spese sostenute nel medesimo periodo, con la conseguenza che, egualmente a quanto già avveniva per i liberi professionisti, anche tali imprenditori imputano i componenti di reddito secondo il principio di cassa e non di competenza.

Già da tali dati emerge come sussistano diversi punti in comune tra le imprese ammesse al regime di contabilità semplificata e i lavoratori autonomi.

L’assimilazione tra le due categorie, d’altronde, non è estranea alla Corte costituzionale che già con la pronuncia del 14 aprile 1986, n. 87, valorizzando i punti di contatto tra le due categorie, aveva statuito la non imponibilità dei redditi dei piccoli imprenditori all’allora ILOR.

Peraltro, sia in caso di ditte individuali sia di società di persone, il socio o il titolare della ditta hanno un ruolo preponderante nella gestione delle principali dinamiche imprenditoriali. Non a caso, il legislatore, per le società di persone ha previsto, all’art. 5 TUIR, l’imputazione del reddito per trasparenza; scelta che dimostra come, in tali casi, non sia rilevante il filtro dalla compagine sociale.

Nonostante i descritti punti di contatto tra le categorie in esame, è sempre stato escluso che l’impianto contabile degli imprenditori minori potesse giustificare un esonero dall’assoggettamento allo strumento presuntivo di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973.

Proprio di recente, la Corte di Cassazione, sul tema, ha affermato che tali soggetti non sono esonerati dall’obbligo di tenuta di una contabilità sufficientemente analitica da consentire ex post la ricostruzione del volume d’affari e di conseguenza del reddito, non rivelando alcuna incompatibilità né logica né strutturale né propriamente contabile-fiscale tra la presunzione in questione ed il regime di contabilità semplificato (Cass., Sez. trib., ord., 7 ottobre 2022, n. 29245). Secondo la giurisprudenza, infatti, ai contribuenti minori sarebbe consentito beneficiare di semplificazioni in ordine alla tenuta delle scritture contabili, ma non anche in ordine al regime probatorio in materia di accertamenti (Cass., Sez. IV-5, ord., 28 febbraio 2019, n. 5879 e 5880; CTR Puglia, Sez. VI, 26 luglio 2021, n. 2262).

5. Fermo il contesto giurisprudenziale e dottrinario sin qui descritto, con la pronuncia in commento, la Corte costituzionale lascia intendere di essere consapevole che la presunzione di redditività dei prelevamenti ingiustificati, di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, possa apparire, per certi profili, priva di ragionevolezza.

Ciò nondimeno, il Giudice delle Leggi ritiene possibile addivenire ad «un’interpretazione adeguatrice orientata alla conformità» della disposizione ai parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 53 Cost.

La Consulta, in primo luogo, ribadisce che trattandosi di una presunzione iuris tantum, si verifica l’inversione dell’onere della prova e che proprio la possibilità per il contribuente di confutare le presunzioni valorizzate dall’Ufficio con l’accertamento assicurerebbe «la non arbitrarietà della presunzione legale in favore del fisco». Sotto tale profilo, la Corte chiarisce che l’equilibrio di posizioni tra Amministrazione finanziaria e privato è perseguibile soltanto se la controprova sia estesa anche «a ogni presunzione semplice (art. 2729 del codice civile) e integrata dalla deducibilità del fatto notorio (art. 115, secondo comma, del codice di procedura civile)».

Non è, però, prima facie agevole il percorso motivazionale adottato dalla Corte sul tema della deducibilità dei costi corrispondenti ai ricavi presuntivamente accertati sui prelevamenti non giustificati.

Infatti, il Collegio, nell’ordine: dapprima prende atto dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità che riconosce l’automatica e forfettaria deduzione degli elementi passivi solo in caso di accertamento induttivo “puro”, gravando invece l’imprenditore di una prova circoscritta qualora sia stato soggetto ad un accertamento induttivo “misto”; dopodiché, osserva come tali principi ermeneutici introducano un regime probatorio più severo proprio nei confronti del contribuente che, invece, è stato più “virtuoso” (dal momento che la propria contabilità non era del tutto priva di attendibilità); successivamente, ritiene che tale orientamento non può «essere considerato espressione di un diritto vivente perché relativo a casi limitati, in mancanza peraltro di un intervento delle Sezioni unite sulla questione ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ.»; infine, afferma che è sempre possibile per il contribuente eccepire l’incidenza percentuale dei costi che dovrebbero essere detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati.

Anche con riguardo all’altra questione sollevata dal Giudice a quo, la Corte si limita ad escludere l’equiparabilità tra la categoria degli imprenditori in contabilità semplificata e quella dei lavoratori autonomi, ribadendo quanto già affermato nella pronuncia n. 228/2014 e, cioè, che il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale si caratterizzerebbe per le continue movimentazioni sul conto corrente dovute a un’attività nella quale, a differenza di quanto avviene per i lavoratori autonomi e per i professionisti, l’apparato organizzativo prevale sul lavoro proprio dell’imprenditore.

Considerato anche che, prosegue la Consulta, le «eventuali difficoltà probatorie derivanti da situazioni come quella dell’imprenditore assoggettato a contabilità semplificata» sarebbero già state sterilizzate con l’intervento normativo del 2016 che, come accennato poc’anzi, ha distinto i prelevamenti bancari bagatellari da quelli che, invece, assumono rilevanza ai fini reddituali.

All’indomani della pronuncia non è mancato chi, in dottrina, pur avendo accolto positivamente le considerazioni della Corte sul tema probatorio, ha reputato, invece, non altrettanto soddisfacente la motivazione adottata in relazione all’applicabilità delle presunzioni sui prelievi anche ai contribuenti che adottino il regime di contabilità semplificata (Ferranti G., La Corte costituzionale “interpreta” la presunzione relativa ai prelevamenti dei piccoli imprenditori, in Corr. trib., 2023, 3, 207 ss.).

La Corte di Cassazione, invece, non ha tardato ad accogliere positivamente l’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Consulta. Così, in relazione ad una controversia riguardante un accertamento induttivo “misto”, operato nei confronti di un contribuente che aveva adottato il regime di contabilità semplificata, il Collegio ha cassato la sentenza di seconde cure nella parte in cui aveva ritenuto impossibile, in mancanza di idonea documentazione, riconoscere l’incidenza percentuale di costi presunti a fronte di maggiori ricavi, disponendo l’obbligo del Giudice del rinvio di «rideterminare il reddito imponibile del contribuente riconoscendo una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi in relazione ai ricavi accertati, avvalendosi, se del caso, dell’ausilio di consulenza tecnica d’ufficio» (Cass., Sez. VI -5, ord., 23 febbraio 2023, n. 5586). In un’altra occasione, la Corte di Cassazione ha evidenziato come l’intervento della Consulta sia stato principalmente finalizzato a rendere «compatibile [la presunzione, ndr], in particolare, anche con il principio di capacità contributiva … avvicinando il riconoscimento della detrazione dei costi, in relazione ai prelevamenti non giustificati, al regime forfettario proprio dell’induttivo puro» (Cass., Sez. trib., 8 marzo 2023, n. 6874).

6. La Corte costituzionale, come visto, ritiene di fornire risposta alle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Giudice a quo argomentando solo sul piano dell’onus probandi.

Indubbiamente, in questo senso, è apprezzabile la decisione della Corte di chiarire che la controprova del contribuente possa consistere anche in presunzioni; si auspica, infatti, di non incorrere più, in futuro, in pronunce dal tenore analogo a quelle sopra riportate e che avevano, invece, irragionevolmente negato tale possibilità, in spregio ai principi processuali che governano la materia.

La medesima fermezza espositiva, però, a parere di chi scrive, non si riscontra nella parte in cui viene esaminato il tema della prova dei costi deducibili dai ricavi ricostruiti sulla base dei prelevamenti ingiustificati.

L’elicoidale ratio decidendi sottesa alla pronuncia in parte qua se, da un lato, mostra un evidente intento stigmatizzatore della Consulta verso l’iniqua disparità di trattamento tra i casi di accertamento induttivo “puro” e quelli di accertamento induttivo “misto”, di matrice tutta giurisprudenziale, dall’altro lato lascia spazio ad alcuni interrogativi.

Infatti, la Corte riconosce al contribuente la facoltà di eccepire l’incidenza percentuale dei costi anche in caso di accertamento induttivo “misto”; è, però, evidente che, un conto è affermare tale possibilità e, un altro, è dichiarare l’obbligo in capo all’Ufficio di provvedere, già in fase di accertamento, alla deduzione forfettaria dei costi, come invece avviene in caso di accertamento induttivo “puro”.

Fortunatamente, come poc’anzi rilevato, all’indomani della sentenza della Consulta, la Corte di Cassazione, sulla base di una lettura complessiva della pronuncia n. 10/2023, ha sposato l’interpretazione più favorevole al contribuente imponendo ai Giudici, in caso di inerzia dell’Amministrazione finanziaria, di calcolare in via forfettaria la percentuale dei costi che devono essere dedotti in questi casi.

Nonostante tali interventi giurisprudenziali, a parere di chi scrive, però, sarebbe comunque auspicabile che l’Agenzia delle Entrate intervenisse con un documento di prassi, dando disposizione a tutti gli Uffici di riconoscere, già in sede di accertamento, un’automatica percentuale di costi deducibili sulla base delle medie elaborate per ciascun settore di riferimento, analogamente a quanto in precedenza fatto con riferimento alle ipotesi di accertamento induttivo “puro”.

Una simile soluzione, probabilmente, consentirebbe di mitigare, a monte, la pregnante posizione di forza dell’Amministrazione finanziaria basata sull’utilizzo della presunzione nonché, per coloro che ancora dubitano della ragionevolezza della praesumptio de praesumpto, di restituire un minimo di coerenza alla disposizione rispetto al parametro di cui all’art. 53 Cost., senza dovere, invece, fare affidamento sull’intervento ermeneutico.

Più fragili appaiono, invece, le considerazioni della Corte sull’applicabilità dell’art. 32, comma 1, n. 2, D.P.R. n. 600/1973, con riguardo alle operazioni di prelievo anche nei confronti degli imprenditori che adottano il regime di contabilità semplificata.

La Consulta, infatti, nel limitarsi a ribadire quando già enunciato nella sentenza n. 228/2014, ha ritenuto non fondate le criticità sollevate dal Giudice a quo argomentando sempre sul piano probatorio.

Tuttavia, forse, invece, era proprio questa l’occasione per spingersi oltre ed esaminare una volta per tutte i punti di contatto che, nel concreto, si ravvisano tra la categoria dei lavoratori autonomi e quella degli imprenditori minori.

A parere di chi scrive, invero, con riguardo a tale ultima categoria non è raro ravvisare una vera e propria confusione tra il soggetto rappresentante e il rappresentato (società-ditta); una confusione che non può non riverberarsi nelle quotidiane attività, ivi inclusa la “gestione” dei conti correnti bancari, emergendo anche qui, una potenziale promiscuità contabile eguale (o quasi) a quella riscontrata nella categoria dei lavoratori autonomi.

Ed anche a volere rimanere sul piano probatorio, sembra che la Corte costituzionale non abbia adeguatamente considerato neanche che gli imprenditori che optano per il regime di contabilità semplificata, non dovendo registrare incassi e prelevamenti, hanno di fatto meno strumenti, rispetto a quelli in contabilità ordinaria, per dimostrare l’estraneità delle operazioni bancarie all’attività di impresa.

In conclusione, sebbene si dubiti della portata risolutiva delle argomentazioni adottate dalla Consulta in merito alla non equiparabilità dei lavoratori autonomi ai contribuenti in contabilità semplificata, nel complesso non può non essere accogliersi con favore la pronuncia che ha, certamente, il pregio di avere individuato una soluzione di compromesso tra l’”ostinazione” del legislatore nel mantenere la presunzione de qua e le criticità derivanti dalla sua reale portata applicativa.

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