Considerazioni critiche sul concorso del consulente negli illeciti amministrativi da elusione fiscale
Di Michele Mauro
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Abstract
L’art. 5 D.Lgs. n. 472/1997, in relazione alle consulenze tributarie che comportano la soluzione di problemi di speciale difficoltà, circoscrive la sussistenza del concorso del professionista, che abbia fornito un contributo causale all’illecito amministrativo tributario, ai soli casi di dolo o colpa grave. Tale disposizione, che si ritiene riferibile alle condotte elusive adottate dal contribuente con l’imprescindibile ausilio del consulente, appare inadeguata, in particolare nell’ottica di contrastare il riprovevole fenomeno dell’elusione fiscale e conseguire l’obiettivo di rendere effettivamente dissuasivo ed efficiente l’impianto sanzionatorio.
Critical remarks on the consultant’s complicity in administrative tax avoidance offenses. – Article 5 of Legislative Decree No. 472/1997, for the tax advices involving the solution of problems with special difficulty, limits the liability for contributory negligence of the consultant, who has made a causal contribution to the tax administrative offence, to cases of willful misconduct or obvious fault only. This legislative provision, which refers to evasive conduct engaged in by the taxpayer with the indispensable assistance of the consultant, seems inadequate, especially for the purpose of countering reprehensible tax avoidance behavior and achieving the goal of making the penalty system effectively deterrent and efficient.
Sommario: 1. Cenni sull’elemento soggettivo della colpevolezza negli illeciti amministrativi tributari commessi con il concorso del consulente. – 2. Condotte elusive e “soluzione di problemi di speciale difficoltà”. – 3. Conclusioni e auspici.
1. Con riguardo alle violazioni amministrative tributarie, la disciplina sul concorso di persone (art. 9 D.Lgs. n. 472/1997) condivide, in generale, il contenuto dell’art. 110 del codice penale (sul concorso di persone nell’illecito amministrativo tributario cfr., tra gli altri, Lupi R., Prime osservazioni sul nuovo sistema delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib., 1998, 2, 328 ss.; Giovannini A., Concorso, continuazione e ravvedimento nella disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, in Dir. prat. trib., 1999, 1, I, 153 ss.; Cordeiro Guerra R., Concorso di persone ed autore mediato nella nuova disciplina delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. trib., 2000, 2, 395 ss.; Ricci C., Il concorso di persone, in Giovannini A. – Di Martino A. – Marzaduri E., a cura di, Trattato di diritto sanzionatorio tributario. Diritto sanzionatorio amministrativo, Milano, 2016, Tomo II, 1515 ss.).
Tuttavia, il dato positivo di cui all’art. 9 D.Lgs. n. 472/1997, con riferimento al consulente, è di fatto derogato dall’art. 5, comma 1, del medesimo decreto, ai sensi del quale «Le violazioni commesse nell’esercizio dell’attività di consulenza tributaria e comportanti la soluzione di problemi di speciale difficoltà sono punibili solo in caso di dolo o colpa grave».
Nella fattispecie illecita plurisoggettiva assume rilevanza fondamentale, come evidente, l’elemento soggettivo della colpevolezza, che richiede un accurato vaglio critico del comportamento dei (diversi) trasgressori, sia esso doloso o colposo.
Con riferimento al contribuente, destinatario degli obblighi fiscali, l’art. 5 D.Lgs. n. 472/1997 presuppone la sussistenza della coscienza e volontà, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma è interpretata nel senso di stabilire una presunzione di colpa per l’atto vietato a carico del soggetto che lo abbia commesso, il quale è tenuto a provare di aver agito senza colpa (sul punto, di recente, v. Marcheselli A., Considerazioni eterodosse sull’elemento soggettivo delle sanzioni tributarie. Responsabilità oggettiva, gestione del rischio, intelligenza artificiale, deontologia professionale ed etica del profitto, in Rivista, 2021, 1, VII, 235 ss.).
Dunque il contribuente, in presenza di una (valida) delega di funzioni, per andare esente da colpa dovrà dimostrare di aver correttamente individuato il professionista cui affidarsi (onde non ricadere nella culpa in eligendo) e di aver vigilato sul suo operato (per evitare la culpa in vigilando).
Per quanto riguarda, invece, il professionista, qualora l’attività di consulenza svolta abbia ad oggetto la soluzione di problemi di speciale difficoltà, in virtù dell’espressa limitazione della sua responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave (ex art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997) è, in primis, fondamentale definire la colpa “lieve” che lo esonera da responsabilità. La definizione, evidentemente, si desume a contrario rispetto ai successivi commi del medesimo art. 5, che individuano le nozioni di colpa “grave” e “dolo”.
Come noto, il comma 3 della disposizione qualifica la colpa grave in maniera estremamente restrittiva, ricollegandola all’imperizia o negligenza indiscutibili (e quindi non in termini di imprudenza, da considerare assorbita nella nozione comune di negligenza), ovvero, avuto riguardo al possibile errore di diritto, all’impossibilità di dubitare ragionevolmente del significato e della portata della norma violata.
Deve, pertanto, trattarsi di una evidente e macroscopica inosservanza di obblighi tributari elementari, sì che la formulazione legislativa rende estremamente difficile individuare in concreto ipotesi di colpa grave (v. Batistoni Ferrara F., Il nuovo sistema sanzionatorio. Principi generali (legalità, favor rei, imputabilità, colpevolezza, cause di non punibilità), in il fisco, 1999, 11354 ss.; Falsitta G., Confusione concettuale e incoerenza sistematica nella recente riforma delle sanzioni tributarie non penali, in Riv. dir. trib., 1998, 5, I, 487 ss.; D’Ayala Valva F., Aspetti problematici dell’imputazione soggettiva della sanzione amministrativa tributaria, in Riv. dir. trib., 2003, 3, I, 205 ss.), che appare assimilabile al dolo “di fatto”.
Il comma 4, invece, nel definire il dolo specifica la rilevanza dell’intento di pregiudicare la determinazione del tributo oppure di ostacolare l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria.
Traspare, dunque, la volontà legislativa di escludere la rilevanza del dolo generico, in cui il fatto descritto dalla norma incriminatrice è meramente voluto, ed anche del dolo eventuale (o indiretto), che conduce a ritenere come voluti gli effetti del comportamento che sono stati previsti dal soggetto anche soltanto come possibili, purché egli ne abbia accettato il rischio o, più semplicemente, purché non abbia agito con la sicura convinzione che non si sarebbero verificati. In particolare, il dolo eventuale è escluso dalla definizione della norma in quanto è richiesto – per integrare il dolo – un comportamento ispirato da una determinata direzione della volontà.
Orbene, la menzionata limitazione della responsabilità del consulente, prevista all’art. 5 D.Lgs. n. 472/1997, circoscrive fortemente la sussistenza del concorso per il professionista che abbia fornito un contributo causale all’illecito, in un contesto legislativo incerto.
Di conseguenza, ove il professionista assuma obbligazioni di risultato prive di attività ermeneutiche (si pensi, a titolo esemplificativo, alla presentazione, entro i termini di legge, di una dichiarazione fiscale predisposta dal contribuente, ovvero alla presentazione di un’istanza di accertamento con adesione, o di un ricorso giurisdizionale, entro i termini previsti dalla legge a pena di decadenza), la diligenza richiesta per andare esente da responsabilità non può coincidere con quella, tipica delle obbligazioni di mezzi (ad esempio, redazione di pareri pro veritate, volti a valutare la corretta applicazione delle norme fiscali alla fattispecie concreta prospettata dal cliente), richiesta dalla best practice che contraddistingue lo svolgimento della professione, peraltro da parametrare all’“agente modello” ovvero alle conoscenze che il consulente avrebbe dovuto possedere.
Orbene, proprio sul terreno della consulenza tributaria si riscontra la maggiore complessità che attiene alla dimostrazione dell’elemento soggettivo in grado di integrare la responsabilità concorsuale del professionista.
Invero, tenuto conto dell’evoluzione provocata – oltre che dall’intensificazione degli adempimenti e dalla complessità del sistema normativo – dalla globalizzazione dei mercati e dalla conseguente diffusione delle imprese multinazionali, tra le prestazioni del consulente riveste un ruolo fondamentale quella di programmare e ridurre, spesso con comportamenti elusivi, la pressione fiscale delle imprese.
Si tratta, segnatamente, di attività di pianificazione fiscale che presuppongono capacità e formazione tecnica altamente specializzate in ambito fiscale, tali da rendere l’apporto del consulente tributario indispensabile per il contribuente (anche l’Amministrazione finanziaria, nella circ. 8 agosto 2019, n. 19/E ha evidenziato la frequente opera di ausilio del professionista nella costruzione di veri e propri “pacchetti di risparmio fiscale”, che si traducono in meccanismi sofisticati).
In relazione a tali consulenze, al fine di giudicare l’operato del professionista sotto il profilo della responsabilità fiscale per concorso nelle violazioni, in quanto riconducibile o meno alla soluzione di problemi di “speciale difficoltà”, assume un ruolo fondamentale la formulazione delle norme tributarie e la relativa attività di interpretazione.
In particolare, quanto più la tecnica normativa di contrasto dei fenomeni elusivi (o evasivi) faccia ricorso a clausole generali, intese quali termini o sintagmi valutativi contenuti in enunciati normativi e caratterizzati da indeterminatezza (cfr. Velluzzi V., Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, 57), tanto più la prestazione professionale del consulente, svolta in un contesto legislativo incerto, non sarà punibile per assenza del dolo o della colpa grave.
Ebbene, come si dirà di seguito, il grado di complessità ermeneutica, riscontrabile negli ambiti dell’abuso del diritto e dell’evasione connessa ad articolate qualificazioni giuridiche delle fattispecie concrete, induce a ritenere che, in tali ambiti, la responsabilità del professionista per concorso nell’illecito amministrativo non sia concretamente ravvisabile.
2. L’elusione fiscale (o abuso del diritto) presenta un peculiare disvalore sociale, testimoniato dall’acceso dibattito, emerso anche in sede giurisprudenziale (sulla rilevanza penale di siffatte condotte, in quanto riconducibili alle fattispecie delittuose dichiarative di cui agli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 74/2000, v. Cass. pen., 3 maggio 2013, n. 19100; Cass. pen., 9 settembre 2013, n. 36894), sulla sanzionabilità dell’elusione in sede penale (cfr., tra gli altri, Nussi M., Elusione tributaria ed equiparazione al presupposto nelle imposte sui redditi: nuovi (e vecchi) problemi, in Riv. dir. trib., 1998, 5, I, 503 ss.; Gallo F., La rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Rass. trib., 2001, 2, 321 ss.; Giovannini A., Il divieto d’abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. trib., 2010, 4, 982 ss.; Di Vetta G., Abuso del diritto nella prospettiva penale, in Giovannini A. – Di Martino A. – Marzaduri E., a cura di, Trattato di diritto sanzionatorio tributario. Diritto penale e processuale, Milano, 2016, Tomo I, 1005 ss.), culminato, successivamente, nella scelta normativa di cui all’art. 10-bis L.n. 212/200 di sanzionare tali condotte soltanto in ambito amministrativo (sui cui Consolo G., Il problema della rilevanza penale delle condotte elusive/abusive e la codificazione della soluzione della non punibilità, in Glendi C. – Consolo C., Contrino A., a cura di, Abuso del diritto e novità sul processo tributario, Milano, 2016, 64 ss.), come in verità già ritenuto da una parte della dottrina (cfr. Basilavecchia M., Presupposti ed effetti della sanzionabilità dell’elusione, in Dir. prat. trib., 2012, 4, I, 797 ss.; Tesauro F., Elusione e abuso del diritto tributario italiano, in Dir. prat. trib., 2012, 4, I, 683 ss.; Carinci A., Elusione tributaria, abuso del diritto e applicazione delle sanzioni amministrative, in Dir. prat. trib., 2012, 4, I, 785 ss.).
Peraltro, la scelta punitiva ad opera del legislatore non ha impedito di mettere in risalto la contraddittorietà, oltre che il contrasto con principi fondamentali dell’ordinamento, delle argomentazioni in base alle quali si sostiene che taluni comportamenti evasivi (come ad esempio, la mancata registrazione di scontrini fiscali) possano ritenersi maggiormente riprovevoli del comportamento di chi scientemente costruisce a tavolino ardite operazioni di ingegneria giuridica e finanziaria allo scopo essenziale di venire meno al proprio dovere contributivo, violando la solidarietà costituzionale e il dovere imposto “a tutti” dall’art. 53 e ancor prima dall’art. 4 Cost. (così Giovannini A., Abuso del diritto e sanzioni amministrative, in Giovannini A. – Di Martino A. – Marzaduri E., a cura di,, Trattato di diritto sanzionatorio tributario. Diritto penale e processuale, Milano, 2016, Tomo I, 1000 ss., il quale ha concluso mettendo in dubbio la conformità costituzionale dell’art. 10-bis L. n. 212/2000, e precisamente del comma 13 che sancisce la sanzionabilità solo amministrativa dell’elusione fiscale, per contrasto con l’art. 3 Cost.).
In ogni caso, il profilo che attiene alla configurazione dell’abuso del diritto quale fenomeno penalmente rilevante sembra tutt’altro che risolto.
Ciò in quanto, il grado di indeterminatezza che si rinviene nella disciplina normativa di riferimento, impone di confrontarsi con la qualificazione giuridica delle operazioni sottostanti, che spesso si traducono in condotte di puro artificio riconducibili alle fattispecie delittuose dichiarative di cui agli artt. 3 e 4 D.Lgs. n. 74/2000.
Preliminarmente, è utile rilevare come l’abuso del diritto, sotto il profilo della teoria generale, consista nell’uso eccessivo di un potere di cui si dispone, nel senso che la posizione giuridica di vantaggio è esercitata dal titolare secondo modalità contrastanti con le ragioni della sua attribuzione, ossia con l’interesse da soddisfare. Di conseguenza, le ragioni dell’attribuzione del diritto costituiscono il parametro di valutazione dell’esercizio del diritto medesimo, che può dunque avvenire – ed essere per ciò censurato – in maniera difforme dalla ratio della disposizione normativa che lo ha previsto, al di là del significato letterale di quest’ultima.
Appare, allora, evidente come sia demandato all’interprete il compito di colmare lo scarto tra lettera e scopo (della disposizione normativa) a favore di quest’ultimo, adottando una riduzione teleologica secondo cui, all’interno della classe di casi regolata da una disposizione (sovra-inclusiva rispetto allo scopo), si distinguono due o più sottoclassi, associando soltanto ad una o ad alcune la conseguenza giuridica prevista sulla base della ratio (il lessico è di Velluzzi V., Interpretazione e tributi. Argomenti, analogia, abuso del diritto, Modena, 2015, 33 ss.).
Orbene, in ambito tributario la disposizione settoriale di cui all’art. 10-bis L. n. 212/2000 incide certamente sull’interpretazione dell’enunciato attributivo della posizione giuridica di vantaggio. Invero tale disciplina, come noto (cfr., tra gli altri, Gallo F., La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 6, 1315 ss.; Stevanato D., Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche, anatomia di un equivoco, in Dir. prat. trib., 2015, 5, I, 695 ss.; Cipollina S., voce Abuso del diritto o Elusione fiscale, in Digesto disc. priv., Sez. comm., Aggiornamento, 2017, 1 ss.; Contrino A., La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. prat. trib., 2016, 4, I, 1407 ss.; Ingrao G., L’evoluzione dell’abuso del diritto in materia tributaria: un approdo con più luci che ombre, in Dir. prat. trib., 2016, 4, I, 1433 ss.; Boria P., L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale, in Riv. dir. trib., 2017, 6, I, 665 ss.; Zizzo G., I profili processuali dell’abuso del diritto, in Rass. trib., 2020, 1, 219 ss.), prevede quali elementi costitutivi dell’abuso del diritto, che rende i vantaggi fiscali non opponibili all’Amministrazione finanziaria: l’assenza di sostanza economica delle operazioni (che non sono idonee «a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali»); la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito pur nel rispetto formale delle norme fiscali (ossia di un vantaggio che comporta «benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario»); la circostanza che il vantaggio fiscale indebito costituisca l’effetto essenziale dell’operazione.
Emerge chiaramente come la sintetizzata formulazione della disposizione resti intrisa di termini valutativi tipici delle clausole generali (v. Fiorentino S., Clausole generali e divieto di abuso fiscale, tra “specialità” del diritto tributario ed unità ordinamentale, in Sacchi R., a cura di, Il ruolo delle clausole generali in una prospettiva multidisciplinare, Milano, 2021, 535 ss.), oltre a riproporre la necessità di individuare le ragioni del rispetto sostanziale delle norme fiscali, ossia le ragioni dell’attribuzione della situazione giuridica di vantaggio mediante la cennata riduzione teleologica (così Velluzzi V., Abuso del diritto e interpretazione giuridica. Alcune questioni e una proposta, in Riv. dir. trib., 2019, 5, I, 513).
Ecco che, in definitiva, dietro l’abuso del diritto nel settore tributario si cela una considerevole discrezionalità interpretativa riconducibile al testo della norma di contrasto del fenomeno, che rinvia (anche) ai principi dell’ordinamento tributario per l’individuazione del vantaggio fiscale indebito e contiene termini valutativi contraddistinti da indeterminatezza.
D’altro canto, il contrasto al fenomeno dell’elusione fiscale si giustifica, sotto il profilo generale, dalla primaria esigenza di applicare il tributo, per ragioni di equità, a tutte le situazioni equivalenti. Poiché la legge non è in grado di esaurire la definizione della materia imponibile, l’esigenza di equità dell’imposizione, riconducibile a taluni vuoti normativi, induce a sacrificare il principio di tassatività nei casi di risparmio fiscale indebito, rendendo imponibili anche fatti non previsti, ma simili a quelli previsti, rispetto ai quali meritano identica tassazione (sulla rilevanza dell’interpretazione “sostanzialistica” della norma tributaria, che, prima dell’introduzione dell’art. 10-bis L. n. 212/2000, ha sostituito l’approccio formalista proprio in virtù dell’esigenza di contrastare l’elusione fiscale, attuando l’art. 53 Cost., v. Fiorentino S., Il ruolo dell’interprete in ambito tributario tra “formalismi” ed “eccessi” interpretativi, in questa Rivista, 2021, 1, I, 19 ss.).
Di conseguenza, la “sostituzione” della norma disapplicata con altra norma impositiva conduce alla maggiore imposta accertata, che determina l’illecito, e la conseguente irrogazione della sanzione, senza tenere conto delle situazioni in cui il maggiore tributo richiesto sia motivato da questioni di mera interpretazione della normativa o di qualificazione giuridica delle operazioni sottostanti, piuttosto che di occultamento della materia imponibile (in relazione a tali fenomeni elusivi, già prima della codificazione dell’abuso del diritto, poi avvenuta con l’introduzione dell’art. 10-bis L. n. 212/2000, aveva sottolineato la necessità di prevedere forme sanzionatorie più tenui Nussi M., Elusione fiscale “codificata” e sanzioni amministrative, in Giur. it., 2012, 8/9, 1936).
Il medesimo problema ermeneutico caratterizza, peraltro, altre disposizioni tributarie che attengono alla qualificazione negoziale delle operazioni, come è testimoniato dal noto dibattito attorno alle modifiche dell’art. 20 TUR (D.P.R. n. 131/1986) ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro.
A fronte di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che aveva avallato l’interpretazione innovativa secondo cui la disposizione – con chiara funzione antielusiva – legittimava l’Amministrazione finanziaria a riqualificare gli atti giuridici (singoli o connessi), ritenendo dovuta l’imposta di registro non già sull’atto singolo o su ognuno degli atti inseriti in una sequenza negoziale, ma sull’operazione nel suo complesso (cfr. Cass., 10 giugno 2013, n. 15319; Cass., 15 giugno 2013, n. 15963; Cass., 13 marzo 2014, n. 5877), il legislatore (con l’art. 1, comma 87, lett. a, L. 27 dicembre 2017, n. 205) ha modificato la norma specificando, al contrario, che l’imposta di registro deve corrispondere agli elementi desumibili dal singolo atto, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti collegati.
Successivamente, attribuita alla modifica normativa la valenza di interpretazione autentica (v. art. 1, comma 1084, L. 30 dicembre 2018, n. 145), la giurisprudenza ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del testo novellato dell’art. 20 TUR per violazione degli artt. 3 e 53 Cost., ritenendo che tali norme imponessero di applicare l’imposta di registro in base alla causa concreta dell’operazione realizzata (cfr. Cass., ord. 23 settembre 2019, n. 23549. La questione è stata sollevata anche dalla Commissione tributaria provinciale di Bologna, ord. 13 novembre 2019, n. 858).
In seguito all’intervento della Corte Costituzionale, che ha ritenuto costituzionalmente legittima la scelta del legislatore di affermare la natura di imposta “d’atto” del tributo di registro (cfr. Corte cost., 21 luglio 2020, n. 158; Corte cost., 16 marzo 2021, n. 39. Per approfondimenti critici v., tra gli altri, Fedele A., La Cassazione porta alla Corte costituzionale la questione della rilevanza dei collegamenti negoziali ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2020, 1, II, 14 ss.; Melis G., Art. 20 del Registro, ultimo atto: tra giudici piccati e pifferi di montagna, la Consulta scrive il lieto fine, in Dir. prat. trib., 2021, 1, 237 ss.; Corasaniti G., All’indomani della consolidata giurisprudenza costituzionale sulla ragionevolezza della scelta legislativa la querelle sull’interpretazione dell’art. 20 del T.U.R. può ritenersi finalmente conclusa?, in Dir. prat. trib., 2021, 3, 1382 ss.), vi è stato il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia (v. Cass., Sez. V, ord. 31 marzo 2022, n. 10283), ai sensi dell’art. 267 del TFUE, quale estremo tentativo di travolgere l’attuale testo dell’art. 20 TUR (v., in senso critico, Fedele A., L’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 non interferisce con l’applicazione dell’IVA, in questa Rivista, 2022, 1, XIV, 496 ss.; Corasaniti G., La Cassazione non si arrende: rimessa alla Corte UE la questione sull’art. 20 del T.U.R., in Corr. trib., 2022, 6, 533 ss.), sostenendo che, stante l’alternatività tra imposta di registro ed IVA, fosse necessario valutare la compatibilità della disposizione con la Direttiva europea sull’IVA con riguardo alla qualificazione delle cessioni d’azienda, che si prestano ad essere eseguite in modo frazionato, ed ai conseguenti effetti fiscali. Anche quest’ultimo tentativo, tuttavia, non ha sortito l’effetto sperato, in quanto la Corte di Giustizia UE, IX sezione, con l’ordinanza 21 dicembre 2022, ha dichiarato manifestamente irricevibile la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte Suprema di Cassazione (v. Mastroiacovo V., Acta est fabula: la CGUE giudica manifestamente irricevibile la questione pregiudiziale dell’art. 20 T.U. dell’imposta di registro, così come prospettata, in questa Rivista, 24 gennaio 2023).
Risulta anche qui evidente – di là dal rapporto della disposizione con la norma (generale) antiabuso di cui all’art. 10-bis L. n. 212/2000 (v. Cipollina S., Curvature del tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. dir. fin., 2018, 2, II, 29 ss.) – la complessità interpretativa, riconducibile ai termini valutativi riportati nella formulazione dell’art. 20 TUR (v. Corasaniti G., All’indomani della consolidata giurisprudenza costituzionale sulla ragionevolezza della scelta legislativa la querelle sull’interpretazione dell’art. 20 del T.U.R. può ritenersi finalmente conclusa?, cit., 1382 ss.), che attiene alla qualificazione negoziale ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro.
Le considerazioni svolte dimostrano che, oltre alla segnalata commistione tra l’abuso del diritto e l’evasione, avente rilievo ai fini della punibilità in sede penale, il grado di indeterminatezza che contraddistingue la tecnica normativa è anche causa del fenomeno della c.d. “evasione interpretativa” (cfr. Lupi R. – Barbone L., “Contestazioni interpretative” e sanzioni penali tra equilibrio di fondo ed “espedienti punitivi”, in Dialoghi trib., 2010, 6, 605 ss.), riconducibile ad errori di valutazione della fattispecie legale (i.e. errore sul diritto), ossia connessa al regime giuridico di vicende correttamente rappresentate all’Amministrazione nei loro aspetti materiali.
Da quanto fin qui osservato discende, quale inevitabile conseguenza, che la consulenza avente ad oggetto condotte poste in essere con l’intento di ridurre la pressione fiscale del contribuente rientri nell’alveo della soluzione di problemi di “speciale difficoltà” (come previsto dall’art. 5 D.Lgs. n. 472/1997), intesi sia nell’accezione di questioni oggettivamente complicate, sia di questioni complicate in relazione alla preparazione del professionista.
Deve, pertanto, escludersi, con riguardo a siffatti comportamenti, la colpa “grave” del consulente. Difatti, il confine labile che separa l’elusione fiscale dal legittimo risparmio d’imposta, in quanto tale non punibile (cfr. Lupi R., Elusione e legittimo risparmio d’imposta, in Rass. trib., 1997, 1099; Zizzo G., Abuso del diritto, scopo di risparmio d’imposta e collegamento negoziale, in Rass. trib., 2008, 3, 859 ss.; La Rosa S., Abuso del diritto ed elusione fiscale: differenze ed interferenze, in Dir. prat. trib., 2012, 4, 707 ss.; Falsitta G., Spunti critici e ricostruttivi sull’errata commistione di simulazione ed elusione nell’onnivoro contenitore detto “abuso del diritto”, in Riv. dir. trib., 2010, 6, II, 349 ss.), impedisce di configurare l’evidente imperizia del professionista e di ricondurre la violazione normativa tra quelle elementari e macroscopiche.
Sotto altro profilo, il legislatore, proprio a causa della peculiare difficoltà insita nella qualificazione di un’operazione potenzialmente abusiva, con la riforma degli interpelli di cui al D.Lgs. n. 156/2015 ha previsto l’autonoma punibilità, con sanzione amministrativa (art. 11, comma 7-ter, D.Lgs. n. 471/1997), della mancata formulazione dell’interpello disapplicativo da parte del contribuente, indipendentemente dal fatto che la norma sostanziale sia stata poi concretamente disapplicata all’esito dell’istruttoria che precede l’emissione dell’avviso di accertamento (cfr. Tarigo P., L’interpello disapplicativo di norme antielusive nella recente riforma, in Rass. trib., 2017, 2, 396 ss.). In altri termini, l’interesse fiscale a ricevere in via preventiva la segnalazione circa la potenziale abusività di un certo comportamento, al fine di facilitare i controlli, è un segno ulteriore della complessità del giudizio sull’elusività dell’operazione.
Occorre, peraltro, domandarsi se la mancata presentazione dell’interpello antiabuso da parte del consulente possa rendere indiscutibile la sua negligenza, onde affermarne la punibilità (in concorso con il contribuente) per colpa grave.
Ebbene, si ritiene plausibile negare la sussistenza di un tale onere in capo al professionista ai fini dell’esclusione della propria colpevolezza. Diversamente opinando, invero, si attribuirebbe alle Risposte ad interpello e, in generale, ai documenti di prassi (in generale, sull’efficacia delle circolari, cfr. Falsitta G., Rilevanza delle circolari interpretative e tutela giurisdizionale del contribuente, in Rass. trib., 1988, 1, I, 1 ss.), una valenza interpretativa tesa ad affermare la supremazia dell’Amministrazione finanziaria in ambito sanzionatorio, che, invece, non è riconosciuta dall’ordinamento.
Viceversa, è possibile configurare la prospettata punibilità del consulente nei casi in cui non si sia conformato all’unico orientamento della giurisprudenza esistente sulla questione controversa. La soluzione offerta dall’organo giudicante, invero, ove non controversa e in quanto contraddistinta da garanzia di terzietà, è in grado di escludere la “speciale difficoltà” del problema oggetto della consulenza tributaria.
3. Dalle considerazioni fin qui svolte emerge che, al di là delle ipotesi – meramente scolastiche – in cui il professionista si renda colpevolmente responsabile in relazione ad obbligazioni di risultato (ad esempio, attività di assistenza fiscale che non comportano la soluzione di problemi di speciale difficoltà, come la redazione e presentazione, entro i termini di legge, di una dichiarazione fiscale che non richiede operazioni ermeneutiche complesse), ovvero disattenda l’unanime orientamento formatosi in giurisprudenza sulla questione problematica oggetto della consulenza, la sua compartecipazione all’illecito amministrativo tributario, in concreto, è da escludere, e lo è sicuramente lo è in relazione alle condotte elusive.
Peraltro, la colpevolezza del consulente richiede una specifica dimostrazione e, in generale, l’Amministrazione finanziaria incontra indubbie difficoltà nell’individuazione dei consulenti che concorrono nell’illecito tributario. Ciò, in particolare, è dovuto al fatto che l’elemento soggettivo al fine di rendere punibile il professionista – che consiste, come evidenziato, in una sorta di dolo “di fatto” – si presta ad essere accertato dal giudice (solitamente in sede penale), e non dagli Uffici finanziari.
A ciò si aggiunga che la tendenza riparatoria insita nella sanzione amministrativa, perseguita dal legislatore (anche) attraverso la riferibilità della pena pecuniaria alla sola persona giuridica (l’art. 7 D.L n. 269/2003), consente di escludere ab origine, in tali fattispecie, la responsabilità del consulente per concorso.
Quanto fin qui argomentato induce, di conseguenza, a riflettere sulla inadeguatezza dell’attuale quadro normativo ai fini del coinvolgimento del consulente negli illeciti amministrativi tributari, specialmente in quelli che si traducono in comportamenti elusivi, in particolare nell’ottica di conseguire l’obiettivo di rendere effettivamente dissuasivo ed efficiente l’impianto sanzionatorio.
A tal fine, in chiave punitiva e al contempo preventiva nei riguardi di uno degli illeciti – quello dell’elusione fiscale – avvertiti come estremamente pericolosi, l’auspicio è quello che il legislatore escluda espressamente l’applicazione della richiamata limitazione della responsabilità del consulente per colpa “grave” (di cui all’art. 5, comma 1, D.Lgs. n. 472/1997) alle fattispecie di elusione fiscale, che pertanto renderebbero punibile il professionista, in concorso con il contribuente, anche per colpa “lieve”.
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