La “legge oscura” (anche tributaria) nel pensiero della Corte costituzionale e della dottrina generale (Corte cost., sent. 5 giugno 2023, n. 110)
Di Andrea Colli Vignarelli
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Abstract
La Corte Costituzionale, con la sentenza in commento, torna a pronunciarsi in tema di legge “oscura”, facendo riferimenti a sue precedenti, in particolare in materia penale, e ad analoghe pronunce degli organi costituzionali di Paesi a noi affini per tradizioni e premesse culturali (Francia e Germania), dichiarando l’illegittimità di una legge regionale del Molise, considerata inintelligibile e dunque in contrasto con il principio di ragionevolezza desumibile dall’art. 3 Cost.
The “dark law” (including tax law) in the thinking of the Constitutional Court and general doctrine (Corte cost., sent. 5 giugno 2023, n. 110). – The Constitutional Court, with the judgment in question, returns to pronounce itself on the subject of “obscure” law, making references to its precedents, in particular in criminal matters, and to analogous pronouncements of the constitutional bodies of countries similar to ours in terms of traditions and cultural premises (France and Germany), declaring the illegitimacy of a regional law of Molise, considered unintelligible and therefore in contrast with the principle of reasonableness inferable from art. 3 Const.
Sommario: 1. Premessa. – 2. L’effettiva “oscurità” della norma incriminata. – 3. “Oscurità” della norma e contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.). – 4. “Oscurità” della norma e diritto tributario.
1. Con la recente sentenza 5 giugno 2023, n. 110, investita di diverse questioni di costituzionalità (sollevate con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri) di alcune disposizioni contenute in una legge regionale del Molise (L. 24 maggio 2022, n. 8, «Legge di stabilità regionale anno 2022»), la Consulta le ha accolte tutte per violazione di plurime norme costituzionali; in particolare, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 7, comma 18, in materia edilizia, per contrasto con l’art. 3 Cost. e con il principio di ragionevolezza da questo desumibile.
La norma “incriminata” testualmente recitava che «nelle fasce di rispetto di tutte le zone e di tutte le aree di piano, in presenza di opere già realizzate e ubicate tra l’elemento da tutelare e l’intervento da realizzare, quest’ultimo è ammissibile previa V.A. per il tematismo che ha prodotto la fascia di rispetto, purché lo stesso intervento non ecceda, in proiezione ortogonale, le dimensioni delle opere preesistenti o sia compreso in un’area circoscritta nel raggio di mt. 50 dal baricentro di insediamenti consolidati preesistenti». Secondo il ricorrente, la norma violava il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. in quanto, utilizzando termini vaghi e suscettibili delle interpretazioni più diverse, era totalmente inintelligibile (né le spiegazioni fornite dalla difesa della Regione in chiarimento degli stessi erano risultate bastevoli).
2. La Consulta innanzitutto analizza la norma sottoposta al vaglio di costituzionalità per verificare se effettivamente era da considerare inintelligibile e quindi dal significato “oscuro”, alla luce del canone interpretativo di cui all’art. 12 (la Corte richiama erroneamente l’art. 11 sull’«Efficacia della legge nel tempo») delle Preleggi al Codice civile, a norma del quale il senso da attribuire alla legge è quello «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse». La Corte fa riferimento anche ai lavori preparatori, «in quanto utili a ricostruire l’“intenzione del legislatore”» (art. 12, comma 1, ultima parte, Preleggi), e già da questi occorre subito rilevare che l’«intenzione del legislatore» non era “ricostruibile”, in quanto – come osserva il giudice delle leggi – «la disposizione era stata … oggetto di vari rilievi critici proprio per la sua oscurità durante il dibattito che ne aveva preceduto l’approvazione».
Effettuato l’esame della norma in questione, la Corte deve riconoscere che la stessa «abbonda di termini imprecisi, o comunque di ardua intelligibilità, in difetto di qualsiasi riferimento al contesto normativo nel quale essa aspirerebbe ad inserirsi», in quanto, tra l’altro, «non modifica né si inserisce in alcuna legge regionale preesistente»; dunque, «la disposizione … costituisce esempio paradigmatico di un enunciato normativo affetto da radicale oscurità», utilizzando anche “un acronimo” (V.A.) «incomprensibile, e in effetti oggetto di due diverse letture da parte della stessa difesa regionale»; enunciato «che … non si collega ad alcun corpo normativo preesistente e rimane, per così dire, sospeso nel vuoto, precludendo così la possibilità di utilizzare il prezioso strumento dell’interpretazione sistematica, che presuppone l’inserimento della singola disposizione in un contesto normativo che si assume connotato da interna coerenza».
3. Accertata l’obiettiva “oscurità” della norma incriminata, la Corte affronta il problema del possibile conflitto di una siffatta norma con i principi costituzionali, chiedendosi in particolare se «una disposizione dal significato così radicalmente inintelligibile si ponga per ciò stesso in contrasto … con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.».
A tal fine, procede innanzitutto a un esame di suoi precedenti in materia penale, specificando che «questa Corte esercita da tempo un controllo sui requisiti minimi dichiarezza e precisione che debbono possedere le norme incriminatrici, in forza – in particolare – del principio di legalità e tassatività di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.”. In proposito viene ribadito che, in special modo in questo ambito, ove viene in gioco la libertà personale dell’individuo, il legislatore «ha l’obbligo di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e della intelleggibilità (rectius, intelligibilità) dei termini impiegati» (Corte cost., n. 96/1981); infatti, «vi sono requisiti minimi di riconoscibilità e di intellegibilità (rectius, intelligibilità) del precetto penale – che rappresentano anche, peraltro, requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa – in difetto dei quali la libertà e la sicurezza giuridica dei cittadini sarebbero pregiudicate» (Corte cost., n. 185/1992)[1]. In materia di misure di prevenzione, la Corte ha dichiarato l’illegittimità, «per contrasto con vari altri parametri costituzionali, di disposizioni che enunciavano presupposti eccessivamente vaghi e imprecisi, come tali inidonei ad assicurare al destinatario la riconoscibilità del precetto e la prevedibilità delle sue conseguenze» (Corte cost., n. 24/2019)[2].
Anche tenendo conto dei precedenti sopra richiamati, la Consulta giunge alla conclusione che «disposizioni irrimediabilmente oscure, e pertanto foriere di intollerabile incertezza nella loro applicazione concreta», certamente si pongono «in contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art. 3 Cost.». Se questo è vero, come osservato, in materia penale, ove «l’esigenza di rispetto di standard minimi di intelligibilità del significato delle proposizioni normative, e conseguentemente di ragionevole prevedibilità della loro applicazione, va certo assicurata con particolare rigore», lo stesso e più in generale va assicurato «allorché la legge conferisca all’autorità pubblica il potere di limitare» i diritti fondamentali della persona, «come nella materia delle misure di prevenzione». Quanto detto non esclude che la stessa esigenza sussista con riguardo alle norme che disciplinano la generalità sia dei rapporti tra Pubblica amministrazione e cittadini, sia dei rapporti reciproci tra questi ultimi. Anche in tali casi, infatti, sussiste per ciascun consociato una evidente e fondata «aspettativa a che la legge definisca ex ante, e in maniera ragionevolmente affidabile, i limiti entro i quali i suoi diritti e interessi legittimi potranno trovare tutela, sì da poter compiere su quelle basi le proprie libere scelte d’azione». Una norma radicalmente “oscura”, invero, non vincola, se non «in maniera soltanto apparente il potere amministrativo e giudiziario, in violazione del principiodi legalità e della stessa separazione dei poteri; e crea inevitabilmente le condizioni per un’applicazione diseguale della legge, in violazione di quel principio di parità di trattamento tra i consociati, che costituisce il cuore della garanzia consacrata nell’art. 3 Cost.». Sul punto occorre osservare che una norma radicalmente “oscura” va tenuta ben distinta da una norma che presenti – come può apparire “naturale” – dei «margini più o meno ampi di incertezza circa il suo ambito di applicazione»; sarà poi compito dell’interprete (e della giurisprudenza in particolare) «dipanare gradualmente, attraverso gli strumenti dell’esegesi normativa, i dubbi interpretativi che ciascuna disposizione inevitabilmente solleva, nel costante confronto con la concretezza dei casi in cui essa è suscettibile di trovare applicazione», e ciò «contribuisce a rendere più uniforme e prevedibile la legge per i consociati». Una violazione dell’art. 3 Cost. non è ravvisabile neanche nelle norme contenenti clausole generali, che sono «programmaticamente aperte a “processi di specificazione e di concretizzazione giurisprudenziale”» (Corte cost., n. 8/2023). Queste clausole, come noto, sono volutamente “aperte”, per consentire alla norma di non “invecchiare” col passare del tempo, potendosi adeguare all’evoluzione socio-economica[3] e normativa[4] grazie al processo di interpretazione: è il caso, citato come esempio dalla Consulta, della clausola di buona fede cui all’art. 1337 c.c.[5].
Prosegue la Corte affermando che neanche «potrebbe ritenersi precluso alla legge utilizzare concetti tecnici o di difficile comprensione per chi non possieda speciali competenze tecniche: la complessità delle materie che il legislatore si trova a regolare spesso esige una disciplina normativa a sua volta complessa. Sempre più frequentemente, del resto, le leggi fanno uso di definizioni normative, collocate indisposizioni di carattere generale, che consentono all’interprete di attribuire significati precisi alle espressioni tecniche, a volte lontane dal linguaggio comune, utilizzate in un dato corpus normativo». Ci sembra che questa specificazione si attagli in special modo al diritto tributario, ma di questo parleremo in sede di conclusioni.
Infine, la Corte ribadisce che un differente discorso va fatto nel «caso in cui il significato delle espressioni utilizzate in una disposizione – nonostante ogni sforzo interpretativo, compiuto sulla base di tutti i comuni canoni ermeneutici – rimanga del tutto oscuro, con il risultato di rendere impossibile all’interprete identificare anche solo un nucleo centrale di ipotesi riconducibili con ragionevole certezza alla fattispecie normativa astratta». Infatti, «una tale disposizione non potrà che ritenersi in contrasto con quei “requisiti minimi di razionalità dell’azione legislativa” che la … menzionata sentenza n. 185 del 1992 ha, in via generale, evocato in funzione della tutela della “libertà e della sicurezza dei cittadini”».
A supporto di quanto sostenuto, viene richiamata l’analoga esperienza interpretativa di altre giurisdizioni costituzionali, da considerare affini alla nostra «per tradizioni e premesse culturali».
Innanzitutto, la Corte fa riferimento alla costante giurisprudenza del Conseil constitutionnel francese, secondo la quale «l’accessibilità e l’intellegibilità della legge rappresentano principi di rango costituzionale, che impongono al legislatore di adottare disposizioni sufficientemente precise al fine di proteggere gli individui dal rischio di applicazioni arbitrarie delle leggi, evitando di addossare alle autorità amministrative e giurisdizionali il compito di stabilire regole che spettano invece al legislatore», con possibile lesione del principio di uguaglianza dinanzi alla legge, «non potendo esservi effettiva eguaglianza se non quando i cittadini abbiano una “conoscenza sufficiente delle norme loro applicabili”» (decisione 16 dicembre 1999, n. 99-421 DC).
In modo analogo, viene richiamata la giurisprudenza pluridecennale del Tribunale costituzionale federale tedesco, che «ormai riconosce l’esistenza di un mandato costituzionale», per il legislatore, «di “precisione” e “chiarezza normativa”», mandato che «implica standard minimi di comprensibilità e di non contraddizione dei testi normativi, il cui mancato rispetto determina la loro illegittimità costituzionale».
In conclusione, la Consulta dichiara l’illegittimità della norma impugnata per contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la stessa «costituisce esempio paradigmatico di un enunciato normativo affetto da radicale oscurità», che, «in ragione dell’indeterminatezza dei suoi presupposti applicativi, non rimediabile tramite gli strumenti dell’interpretazione, non fornisce alcun affidabile criterio guida alla pubblica amministrazione nella valutazione se assentire o meno un dato intervento richiesto dal privato, in contrasto con il principio di legalità dell’azione amministrativa e con esigenze minime di eguaglianza di trattamento tra i consociati; e rende arduo al privato lo stesso esercizio del proprio diritto di difesa in giudizio contro l’eventuale provvedimento negativo della pubblica amministrazione, proprio in ragione dell’indeterminatezza dei presupposti della legge che dovrebbe assicurargli tutela contro l’uso arbitrario della discrezionalità amministrativa».
4. Le osservazioni che precedono sono – purtroppo – a volte, se non frequentemente, riferibili alla norma tributaria. Come sostiene la Corte, è vero che, come già riportato, «la complessità delle materie che il legislatore si trova a regolare spesso esige una disciplina normativa a sua volta complessa», ma, ci sia consentito, entro certi “limiti”.
E’ interessante in proposito leggere il libro di Michele Ainis («La legge oscura. Come e perché non funziona», ed. 1997) per rendersi conto che molte delle osservazioni ivi effettuate ben si attagliano, oltre che alle osservazioni sopra riportate della Corte[6], alla norma tributaria in particolare.
Il paragrafo 1 del primo Capitolo («“Errori” e “orrori” legislativi») è intitolato «Strutture senza strutture», e cita come ipotesi di “mala” (ci sia consentito) legislazione, ad esempio, la L. 28 dicembre 1995, n. 549 («Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), composta di «appena tre articoli», evidenziando peraltro che «il suo art. 1 si fraziona in 90 commi, spesso suddivisi in lettere, o talvolta in numeri», e che «dopo l’art. 2 formato da 59 commi si incontra l’art. 3, che di commi ne ha ben 244. Il tutto per una settantina di pagine: oltre il doppio di quante ne occorsero ad Albert Einstein per esporre la teoria della relatività ristretta, nella sua celebre memoria del 1905 che sconvolse le concezioni della fisica classica”. L’Autore cita poi la L. 23 dicembre 1996, n. 662 (intitolata sempre «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»), composta anch’essa di tre articoli, ognuno dei quali “conta” non «meno di duecento commi; il primo raggiunge quota 267», traendone l’impressione (facendo «un raffronto con l’elegante impalcatura del codice Napoleone»), che «le nostre leggi finanziarie siano “un sacco d’ossa buttate alla rinfusa”»[7]. Passando poi dall’esame della struttura formale delle citate leggi a quello dei contenuti, «l’effetto di spaesamento per il povero lettore può addirittura raddoppiare. Per esempio: che cosa si nasconde dentro il ‘sacco’ delle leggi 549 e 662[8]? Un’insalata mista in cui trovano posto provvedimenti sul pubblico impiego, sull’ambiente, sulla scuola, sulle forze armate, sulla sanità, sui beni dello Stato ed altro ancora: gli atti in questione costituiscono difatti altrettanti esempi di leggi omnibus, ossia quelle leggi con cui il Parlamento mette le mani in pratica dentro ogni angolo del sistema normativo».
Come termine di paragone “attuale”, possiamo limitarci a citare l’ultima legge di bilancio, la L. 29 dicembre 2022, n. 197: questa consta di 184 pagine (cui si aggiungono 202 pagine di allegati più i lavori preparatori: il numero di pagine di cui si “lamenta” Michele Ainis era circa 70) per 21 articoli; l’art. 1 è composto di “soli” 903 commi, molti dei quali concernenti la materia fiscale…; prendendo un esempio a caso, possiamo riportare testualmente il comma 10:
«All’articolo 119 [!] del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il comma 7 è inserito il seguente:
“7-bis. La detrazione di cui al comma 5[9]spetta, nei limiti ivi previsti, anche per gli interventi realizzati dai soggetti di cui al comma 9, lettera d-bis), in aree o strutture non pertinenziali, anche di proprietà di terzi, diversi dagli immobili ove sono realizzati gli interventi previsti ai commi 1 e 4, sempre che questi ultimi siano situati all’interno di centri storici soggetti ai vincoli di cui all’articolo 136, comma 1, lettere b) e c), e all’articolo 142, comma 1, del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”;
b) al comma 16-ter è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Fermo restando quanto previsto dal comma 10-bis, per gli interventi ivi contemplati il presente comma si applica fino alla soglia di 200 kW con l’aliquota del 110 per cento delle spese sostenute”».
Basti qui citare una norma dello Statuto dei diritti del contribuente (L. 27 luglio 2000, n. 212) per suscitare, oggi, un sorriso in colui che la legge: l’art. 3, intitolato «Chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie», che testualmente recita:
«1. Le leggi e gli altri atti aventi forza di legge che contengono disposizioni tributarie devono menzionarne l’oggetto nel titolo; la rubrica delle partizioni interne e dei singoli articoli deve menzionare l’oggetto delle disposizioni ivi contenute. 2. Le leggi e gli atti aventi forza di legge che non hanno un oggetto tributario non possonocontenere disposizioni di carattere tributario, fatte salve quelle strettamente inerenti all’oggetto della legge medesima. 3. I richiami di altre disposizioni contenuti nei provvedimenti normativi in materia tributaria si fanno indicando anche il contenuto sintetico della disposizione alla quale si intende fare rinvio. 4. Le disposizioni modificative di leggi tributarie debbono essere introdotte riportando il testo conseguentemente modificato».
E’ certamente vero, come afferma la Corte, e come già evidenziato, il fatto che non può ritenersi precluso al legislatore di «utilizzare concetti tecnici o di difficile comprensione per chi non possieda speciali competenze tecniche», in quanto la complessità delle materie (come quella tributaria) che si trova a regolare spesso impone una disciplina normativa a sua volta complessa; il problema è che una legge “oscura” (come spesso è quella tributaria) rende la disciplina non solo complessa, ma sovente incomprensibile e inintelligibile. Con riferimento al linguaggio troppo di frequente utilizzato dai nostri legulei (intesi come “conditores legis”), possiamo usare sempre le parole di Michele Ainis in proposito: «arcaismi, inutili giri di parole frammiste a esemplari del peggior burocratese, espressioni ipertecniche, eccesso di rinvii ad altre leggi (che spesso a loro volta si richiamano a ulteriori atti normativi: è il fenomeno dei “rinvii a catena”), e più in generale i cascami d’uno stile contorto ed evoluto affiorano quasi a ogni piè sospinto»[10]. L’Autore giustamente fa riferimento, oltre alla colpa di chi redige il testo, all’«intrinseca complessità della materia disciplinata» – ribadiamo, è il caso, sovente, di quella fiscale – aggiungendo, peraltro, che «le nostre leggi riescono a rendere difficili pure questioni» spesso non molto «complicate».
Per chiarire l’idea di una legge “oscura” (per chi “non è del mestiere”) nella materia che a noi interessa (spesso certamente complicata, ma spesso ulteriormente complicata dal legislatore), può citarsi per tutti il comma 3 dell’art. 89 (intitolato «Dividendi ed interessi») del TUIR, n. 917/1986 che, per non rendere troppo uggiosa la lettura, si riporta in nota[11]: un chiaro esempio di non-semplificazione legislativa.
Troppo spesso – anche di recente – si parla di semplificazione e razionalizzazione del sistema tributario, di codice tributario, di miglioramento della tecnica normativa, senza che se ne faccia nulla; ormai, si può dire, “si sono perse le speranze”: come afferma Giuseppe Ugo Rescigno[12], «almeno per l’oggi e almeno in Italia i politici quando agitano il tema della buona redazione delle leggi o mentono spudoratamente, o non sanno nulla di ciò di cui parlano, e comunque sono disperatamente al di sotto dei loro compiti». Se ciò è vero, evidentemente non hanno capito quanto scriveva Adolf Merkl[13] circa il “ruolo” della lingua: invero, questa «non è affatto una vietata porticina di servizio attraverso la quale il diritto s’introduce di soppiatto. Essa è piuttosto il grande portale attraverso il quale tutto il diritto entra nella coscienza degli uomini».
Avviandoci alle conclusioni, possiamo richiamare ancora le parole di Michele Ainis, particolarmente interessanti con riferimento all’ambito tributario: «Uno Stato arcigno e tiranno lo si può combattere; uno Stato amico lo si serve, se necessario, anche con le armi; ma di uno Stato che non si sa che cosa vuole, in ultimo ci si disinteressa e basta. Non gli si dà più ascolto, e ciascuno fa per conto proprio. Non c’è davveronessun nesso fra la condizione di degrado nella quale ormai cronicamente versa la legislazione italiana e l’evasione fiscale[14], che da noi è tra le più elevate del mondo industrializzato?» (l’edizione del libro, ribadiamo, è del 1997, ma ancora di estrema attualità).
Terminiamo queste note con quella che l’Autore considera «una battuta»: «il sacrificio di Socrate, che scelse di morire pur di non infrangere la legge, è un momento fra i più alti nella storia dell’umanità; ma Socrate avrebbe bevuto egualmente la cicuta se le norme che gli fu rimproverato di violare fossero state ambigue, incerte, altalenanti?». Siamo sicuri di no.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Ainis M., La legge oscura. Come e perché non funziona, Roma, 1997
Colli Vignarelli A., La violazione dell’art. 12 dello Statuto e la illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e buona fede, in Bodrito A. – Contrino A. – Marcheselli A. (a cura di), Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Torino, 2012, 499 ss.
Colli Vignarelli A., I principi di affidamento e buona fede, in Uckmar V. – Tundo F. (a cura di), Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, Piacenza, 2005, 39 ss.
Colli Vignarelli A., Collaborazione, buona fede ed affidamento nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2005, 3, I, 501 ss.
Colli Vignarelli A., Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, 6, I, 669 ss.
Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010
Merkl A., Il duplice volto del diritto, Milano, 1987
Micheli G.A., Corso di diritto tributario, Torino, 1976
Rescigno G.U., I presupposti filosofici, morali e politici della buona redazione delle leggi ed una specifica conseguenza (tra le molte) in sede di applicazione, in Zaccaria R. (a cura di), La buona scrittura delle leggi, con la collaborazione di Enrico Albanesi, Elda Brogi e Valentina Fiorillo, Roma, Palazzo Montecitorio, Sala della Regina, 15 settembre 2011
[1] La Corte richiama anche altre sue pronunce, la n. 34/1995 e, più di recente, la n. 25/2019, che fa riferimento agli artt. 7 CEDU e 2 del Protocollo n. 4 CEDU, entrambi rilevanti nell’ordinamento italiano in forza dell’art. 117, comma 1, Cost.
[2] La Corte richiama anche un’altra sua pronuncia, la n. 177/1980, ove si evidenzia la necessità che le norme individuino presupposti sufficientemente precisi e idonei a «vincolare ragionevolmente la discrezionalità delle autorità chiamate ad applicarle». Con specifico riferimento a leggi regionali, richiama la sentenza n. 70/2013, che a sua volta richiama la n. 364/2010, ove, con riguardo al principio del buon andamento della Pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., «la tecnica normativa adottata … rendeva difficilmente ricostruibile da parte dell’amministrazione la disciplina effettivamente vigente, giudicando tale tecnica “foriera di incertezza”, posto che essa “può tradursi in cattivo esercizio delle funzioni affidate alla cura della pubblica amministrazione”».
[3] «A una norma deve attribuirsi quel significato che corrisponde al fine proprio della complessiva disciplina in cui la norma stessa risulta inserita in considerazione anche delle esigenze emerse nella realtà economica regolata»: così Falsitta G., Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2010, 195.
[4] Cfr. Micheli G.A., Corso di diritto tributario, Torino, 1976, 76, ove si legge che il significato di una norma «nel corso del tempo può mutare, più o meno ampiamente, poiché quella norma va applicata e perciò interpretata in connessione con altre norme dell’ordinamento».
[5] Osserva Melis G. (Manuale di diritto tributario, Torino, 2021, 93), che sono «rare … nel diritto tributario le ipotesi di vaghezza c.d. ‘socialmente tipica’ (o da rinvio), in cui il termine esprime un concetto valutativo la cui applicazione richiede il necessario riferimento ai variabili parametri di giudizio e alle mutevoli tipologie della morale sociale e del costume. Termini come ‘buona fede’, ‘ordinaria diligenza’, ‘lealtà e correttezza’ non trovano nella nostra materia terreno fecondo, per la difficoltà di rinviare a regole morali o socio-ambientali esterne ad essa»; ciò a differenza dei rapporti interprivatistici, «dove un’idea di giustizia può talvolta ben richiedere l’adeguamento al comune sentimento della collettività». Sulla regola della buona fede in ambito tributario v. Colli Vignarelli A., Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, 6, I, 669 ss.; Id., I principi di affidamento e buona fede, in Uckmar V. – Tundo F., a cura di, Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, Piacenza, 2005, 39 ss.; Id., Collaborazione, buona fede ed affidamento nei rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria, in Dir. prat. trib., 2005, 3, I, 501 ss.; Id., La violazione dell’art. 12 dello Statuto e la illegittimità dell’accertamento alla luce dei principi di collaborazione e buona fede, in Bodrito A. – Contrino A. – Marcheselli A., a cura di, Consenso, equità e imparzialità nello Statuto del contribuente, Torino, 2012, 499 ss.
[6] Il paragrafo 3 del Capitolo V è intitolato «L’incostituzionalità delle leggi incomprensibili»; ivi si legge che «nel testo della Carta costituzionale compaiono dei precetti che sia pure di riflesso possono ben apparire offesi dall’eccesso di indeterminatezza o dalla cattiva redazione delle leggi». L’Autore fa riferimento, tra gli altri, agli artt. 13 e 25 della Costituzione, rilevanti in materia penale e di restrizione della libertà del cittadino; agli artt. 97 e 101, affermando che, «se le attribuzioni e le sfere di competenza degli uffici amministrativi vanno stabilite “secondo disposizioni di legge”, e se a propria volta “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, questo significa che non possono crearla da se stessi – come al contrario avviene ogni volta che l’atto legislativo sia oscuramente formulato, lasciando spazio alla nuda discrezionalità di chi dovrebbe limitarsi ad applicarlo»; a diversi principi, ai quali «il fenomeno delle leggi oscure … fa violenza»: tra questi il «principio della separazione dei poteri, perché rende legislatore il giudice o il funzionario amministrativo».
[7] Per l’espressione utilizzata l’Autore cita Cassese S., Introduzione allo studio della normazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1992, 324, nota 24.
[8] L’art. 3 della citata L. n. 662/1996 è intitolato “Disposizioni in materia di entrata” e consta precisamente di 217 commi, molti dei quali concernenti la materia tributaria.
[9] A mero titolo di semplice curiosità, si riporta anche il testo del citato comma 5: «Per le spese documentate e rimaste a carico del contribuente, sostenute per l’installazione di impianti solari fotovoltaici connessi alla rete elettrica su edifici ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettere a), b), c) e d), del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, ovvero di impianti solari fotovoltaici su strutture pertinenziali agli edifici, eseguita congiuntamente ad uno degli interventi di cui ai commi 1 e 4 del presente articolo, la detrazione di cui all’articolo 16-bis, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, da ripartire tra gli aventi diritto in quattro quote annuali di pari importo, spetta nella misura riconosciuta per gli interventi previsti agli stessi commi 1 e 4 in relazione all’anno di sostenimento della spesa, fino ad un ammontare complessivo delle stesse spese non superiore a euro 48.000 e comunque nel limite di spesa di euro 2.400 per ogni kW di potenza nominale dell’impianto solare fotovoltaico. In caso di interventi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere d), e) e f), del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, il predetto limite di spesa e’ ridotto ad euro 1.600 per ogni kW di potenza nominale».
[10] A titolo di esempio, l’Autore cita il testo dell’art. 5 della L. 26 febbraio 1982, n. 51, che non viene qui riportato per non appesantire troppo la lettura e perché non attinente specificamente la materia tributaria.
[11] Art. 89, comma 3, TUIR: «Verificandosi la condizione dell’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo, l’esclusione del comma 2 si applica agli utili provenienti da soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera d), e alle remunerazioni derivanti da contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), stipulati con tali soggetti, se diversi da quelli residenti o localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati in base ai criteri di cui all’articolo 47-bis, comma 1, o, se ivi residenti o localizzati, sia dimostrato, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello di cui al medesimo articolo 47-bis, comma 3, il rispetto, sin dal primo periodo di possesso della partecipazione, della condizione indicata nel medesimo articolo, comma 2, lettera b). Gli utili provenienti dai soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera d), residenti o localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati in base ai criteri di cui all’articolo 47-bis, comma 1, e le remunerazioni derivanti dai contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), stipulati con tali soggetti, non concorrono a formare il reddito dell’esercizio in cui sono percepiti in quanto esclusi dalla formazione del reddito dell’impresa o dell’ente ricevente per il 50 per cento del loro ammontare, a condizione che sia dimostrata, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello di cui all’articolo 47-bis, comma 3, la sussistenza della condizione di cui al comma 2, lettera a), del medesimo articolo; in tal caso, è riconosciuto al soggetto controllante, ai sensi del comma 2 dell’articolo 167, residente nel territorio dello Stato, ovvero alle sue controllate residenti percipienti gli utili, un credito d’imposta ai sensi dell’articolo 165 in ragione delle imposte assolte dall’impresa o ente partecipato sugli utili maturati durante il periodo di possesso della partecipazione, in proporzione alla quota imponibile degli utili conseguiti e nei limiti dell’imposta italiana relativa a tali utili. Ai soli fini dell’applicazione dell’imposta, l’ammontare del credito d’imposta di cui al periodo precedente è computato in aumento del reddito complessivo. Se nella dichiarazione è stato omesso soltanto il computo del credito d’imposta in aumento del reddito complessivo, si può procedere di ufficio alla correzione anche in sede di liquidazione dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione dei redditi. Ai fini del presente comma, si considerano provenienti da imprese o enti residenti o localizzati in Stati o territori a regime privilegiato gli utili relativi al possesso di partecipazioni dirette in tali soggetti o di partecipazioni di controllo, ai sensi del comma 2 dell’articolo 167, in società residenti all’estero che conseguono utili dalla partecipazione in imprese o enti residenti o localizzati in Stati o territori a regime privilegiato e nei limiti di tali utili. Qualora il contribuente intenda far valere la sussistenza, sin dal primo periodo di possesso della partecipazione, della condizione indicata nella lettera b) del comma 2 dell’articolo 47-bis ma non abbia presentato l’istanza di interpello prevista dal comma 3 del medesimo articolo ovvero, avendola presentata, non abbia ricevuto risposta favorevole, la percezione di utili provenienti da partecipazioni in imprese o enti residenti o localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati in base ai criteri di cui all’articolo 47-bis, comma 1, deve essere segnalata nella dichiarazione dei redditi da parte del socio residente; nei casi di mancata o incompleta indicazione nella dichiarazione dei redditi si applica la sanzione amministrativa prevista dall’articolo 8, comma 3-ter, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471. Concorrono in ogni caso alla formazione del reddito per il loro intero ammontare gli utili relativi ai contratti di cui all’articolo 109, comma 9, lettera b), che non soddisfano le condizioni di cui all’articolo 44, comma 2, lettera a), ultimo periodo».
[12]I presupposti filosofici, morali e politici della buona redazione delle leggi ed una specifica conseguenza (tra le molte) in sede di applicazione, in La buona scrittura delle leggi, a cura di Roberto Zaccaria, Presidente pro tempore del Comitato per la legislazione della Camera dei deputati, con la collaborazione di Enrico Albanesi, Elda Brogi e Valentina Fiorillo, Palazzo Montecitorio, Sala della Regina, 15 settembre 2011), 76.
[13] Merkl A., Il duplice volto del diritto, Milano, 1987, 125.
[14] Estrapolandole dal loro contesto, possiamo citare le parole usate da Cesare Beccaria nel suo indimenticabile libro Dei delitti e delle pene (1764), Cap. 40, intitolato “False idee di utilità”: “l’uomo sociabile è qualche volta mosso dalle male leggi a offender altri”.
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