Modelli di lavoro e qualificazione reddituale: attualità e prospettive

Di Gianluca Stancati -

Abstract  (*)

L’evoluzione del diritto del lavoro lascia ferma la bipartizione dei modelli tra autonomia e subordinazione, tenendo conto che l’obiettivo della disciplina risiede nella protezione del prestatore in ragione della sua maggiore o minore debolezza rispetto al dante causa. Le scelte del legislatore tributario, concentrate sulla capacità contributiva espressa dal rapporto, sono indipendenti dai concetti civilistici e, al di fuori del lavoro subordinato, presentano talune divergenze. Ogni qual volta l’interprete ha trascurato la diversità di prospettiva ne sono derivati risultati insoddisfacenti. De jure condendo, più che introdurre nuove fattispecie reddituali, è opportuno ragionare su quelle esistenti per valutarne una evoluzione qualitativa. In tal senso sembra muoversi la delega fiscale della XIX Legislatura che ha appena avviato il suo iter parlamentare

Labour models and tax treatment: “as is” and next developments. – In the recent evolution of labor law, the framework keeps the alternative between employment and self-employment and the focus is on the protection of the worker depending on its position vis a vis the employer/client. On the contrary, the approach of tax law is based on “ability to pay” of the individual and, except for employment wok, adopts several qualification’s mismatch vs labor law. Interpretations not considering such difference in the approach lead to not satisfactory conclusions. Future perspectives, rather than introducing new tax categories, may consider amending current regimse to enable a tax treatment more coherent with the position of the worker. This is the goal of the Tax Reform drafted by current government, currently examined by the Parliament

Sommario: 1. Il modello di lavoro nell’evoluzione della disciplina civilistica. – 2. Assetto giuslavoristico ed ordinamento tributario: coordinamento e patologie da sovrapposizione. – 3. Modelli di lavoro e qualificazione reddituale. – 4. De jure condendo: quali prospettive?

La disamina della prospettiva che i modelli di lavoro assumono dal punto di vista della qualificazione reddituale dei compensi percepiti dal prestatore deve muovere, in via pregiudiziale dal quadro extra tributario di riferimento, sia per comprenderne le principali indicazioni, che per apprezzare convergenze e divergenze tra i diversi rami dell’ordinamento.

1. In estrema sintesi, il diritto del lavoro ha registrato una parabola di evoluzione normativa che si proietta lungo un significativo arco temporale, indicativamente dal 2003 al 2019 (Stancati G., Modelli di lavoro e qualificazione reddituale: il caso paradigmatico dei riders, in Rass. trib., 2021, 3, 704 ss.), salvi ulteriori successivi interventi su aspetti accessori o procedimentali, tra i quali, da ultimo la disciplina ex D.Lgs. n. 104/2022 in tema di obblighi di informativa ai lavoratori (“decreto trasparenza”. In argomento, ex multis, cfr. Tursi A., Il decreto trasparenza: profili sistematici e problematici, in Lavoro, Diritti, Europa, 2022, 3, 1 ss.).

In questo contesto è rinvenibile un filo conduttore rappresentato dalla tutela dei rapporti socio-economicamente deboli attraverso strumenti di portata variabile, costruiti secondo un approccio negativo-rimediale (cioè fondato su presidi di contrasto a forme di elusione o dissimulazione del lavoro subordinato), ovvero positivo, in termini di disegno di garanzie e tutele, in specie per le forme di autonomia affievolita e, più in generale, per i rapporti fortemente condizionati dal collegamento organizzativo-funzionale (anche attraverso piattaforme tecnologiche) alla struttura dominata dal committente.

Nella visione diacronica di questo percorso il “motore immobile” è rappresentato da tre elementi: la centralità del “ modello”; la sua fungibilità; l’immutata valenza della bipartizione autonomia-subordinazione.

All’interno di questo perimetro, qualsivoglia attività umana economicamente apprezzabile può essere svolta secondo modalità autonome ovvero subordinate.

La suddetta dicotomia attualmente identifica, su un primo versante, la “subordinazione pura” che ha come fulcro l’eterodirezione – cioè il vincolo di soggezione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore (art. 2094 c.c.), cui si affianca la “subordinazione rimediale”, va la dire la collaborazione etero-organizzata, organizzata dal committente anche mediante piattaforme o piattaforme digitali (art. 2 D.Lgs. n. 81/2015).

Sul fronte contrapposto si colloca l’autonomia che, per usare una efficace espressione di autorevole dottrina, è una species che si declina al plurale (così Perulli A., Il lavoro autonomo. Contratto d’opera e professioni intellettuali, Milano, 1996, 76 ss. In argomento, per una visione di insieme, cfr. Fiorillo L. -Lamberti M. – Lassandri A. – Leccese V. – Lunardon F. – Perulli A. – Tullini P., a cura di, I contratti di lavoro. Subordinati ed autonomi, Torino, 2021; Zilio Grandi G. – Biasi M., a cura di, Commentario breve allo statuto del lavoro autonomo e del lavoro agile, Milano, 2018; Lanotte M. a cura di, Il lavoro autonomo e occasionale, Milano, 2018), riscontra nel contratto d’opera ex art. 2222 c.c. il suo paradigma e al contempo abbraccia fattispecie negoziali tipiche (ad esempio, agenzia, mandato) ed atipiche, oltre che figure mini-imprenditoriali e ruoli organici (ad esempio, amministratore. Al riguardo va, tuttavia, segnalato l’orientamento che sembra da ultimo prevalere, soprattutto a seguito della sentenza delle SS.UU. della Cassazione n. 1547/2017, secondo il quale la posizione dell’amministratore avrebbe essenzialmente natura organica, con una immedesimazione nell’ente rappresentato tale da escludere qualsivoglia configurazione contrattuale: cfr. Ponte F.V., Il rapporto tra amministratori e società al vaglio della giurisprudenza, tra subordinazione collaborazione, in Argomenti di Diritto del Lavoro, 2022, 3, 619 ss.). Il livello minimo dell’autonomia è rappresentato dalla collaborazione coordinata e continuativa la quale, a seguito dei più recenti interventi normativi e sulla base della interpretazione prevalente, individua quel prestatore che può essere dotato di minimi-minoritari mezzi “extra-personali” e che, soprattutto, concorda con il committente le modalità di coordinamento funzionale del suo contributo rispetto all’organizzazione dello stesso (sul tema, ex multis, Razzolini O., I confini tra subordinazione, collaborazioni etero-organizzate e lavoro autonomo coordinato, in Diritto delle relazioni industriali, 2020, 2, 345 ss.; Ferraro F., Studi sulla collaborazione coordinata, Torino, 2023, spec. 293-340).

2. Quanto sopra accertato in termini generali e sintetici, è possibile rispondere ad un primo e fondamentale interrogativo, cioè su come il quadro giuslavoristico si coniughi con la prospettiva del legislatore tributario.

Per quanto altresì rilevato dalla più autorevole dottrina (Crovato F., Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sui redditi, Padova, 2001, passim, spec. 22 ss. e 74 ss.), una corretta impostazione metodologica deve prendere le mosse dalla constatazione circa le diverse finalità di fondo che animano i due rami ordinamentali, vale a dire, da un lato, la tutela del prestatore in ragione del grado “di debolezza” connaturato all’essenza del rapporto che lo lega al suo dante causa (diritto del lavoro), dall’altro, la necessità – di matrice costituzionale – di modulare il prelievo attraverso regole sostanziali e procedimentali che risultino coerenti con la capacità contributiva espressa dal rapporto e, quindi, dal modello (in argomento, da ultimo, si rinvia a Ferraro F., op. cit., spec. 101-126).

D’altra parte – come si argomenterà meglio nel prosieguo – può affermarsi una sostanziale indipendenza del disposto civilistico da quello tributario, sia per l’aspetto definitorio della fattispecie, che in ordine alla corrispondenza delle “macrocategorie”.

Muovendo da questi presupposti, un’indagine empirica evidenzia tre casi patologici in cui il loro travisamento ha condotto ad approdi interpretativi del tutto insoddisfacenti.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 36362/2021, in una vicenda che traeva origine dall’attività di verifica dell’Amministrazione finanziaria, di fronte ad una presunta incompatibilità della posizione di dipendente con il ruolo di amministratore, è giunta a disconoscere la deducibilità dei relativi costi agli effetti dell’IRES, con ciò legittimando effetti distorsivi in termini di doppia tassazione e di violazione del principio di inerenza (sul tema, cfr. Marianetti G. – Santacroce M., Dipendente e amministratore: tra tutela pensionistica e deducibilità del costo, ne il fisco, 2022, 22, 231 ss.; Id., Incompatibilità amministratore/dipendente: non convince l’indeducibilità del costo, ibidem, 4316 ss.; Assonime, Sulla compatibilità della carica di amministratore di società di capitali con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato per la stessa società. Riflessi fiscali del tema, in Note e Studi, n. 7/2022).

L’Agenzia delle Entrate, con la Risposta ad interpello, n. 273/2021, interpretando l’art. 10-bis del “D.L. Ristori” (n. 137/2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 176/2020), che detassa le misure di sostegno erogate nell’emergenza epidemiologica, tra gli altri, ai “lavoratori autonomi”, ne ha negato l’applicabilità ai titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, confondendo la qualificazione reddituale (assimilazione al lavoro dipendente) con la natura del modello (autonomo) cui evidentemente si riferisce la fattispecie de qua (si consenta il rinvio a Stancati G., Il trattamento tributario dei “bonus anti-Covid”: note critiche a margine delle risposte dell’Agenzia delle Entrate nn. 84 e 273 del 2021, in questa Rivista, 2021, 2, VIII, 908 ss.).

Con riferimento agli obblighi di notifica preventiva dell’avvio di attività di lavoro autonomo occasionale (art. 13 D.L. n. 146/2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 215/2021), allo scopo di meglio identificarne l’ambito oggettivo riferibile alle prestazioni a contenuto materiale/non intellettuale, il Ministero del Lavoro e l’Ispettorato Nazionale del Lavoro (Note nn. 29 e 109/2022) hanno richiamato la categoria dei redditi diversi, ex art. 67, comma 1, lett. l, TUIR (attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente), con ciò trascurando l’ampio dibattito in merito al confine tra lavoro autonomo ed impresa nel sistema delle imposte sui redditi, ivi incluse le posizioni che negano detto inquadramento proprio alle attività di portata materiale/non intellettuale (Stancati G., Il lavoro occasionale sul confine tra lavoro e impresa, in Corr. trib., 2022, 5, 493 ss.).

3. A questo punto ci si può porre un interrogativo di fondo.

Come si articolano i modelli di lavoro nella visione del TUIR e, segnatamente, nella prospettiva delle categorie reddituali?

La migliore convergenza, o comunque quella meno problematica, riguarda il lavoro subordinato.

L’art. 49 TUIR evoca il “lavoro alle dipendenze e sotto la direzione”, dunque la soggezione all’altrui iniziativa.

Come si è avuto modo di rilevare (Stancati G., Modelli di lavoro e qualificazione reddituale: il caso paradigmatico dei riders, cit.), siffatta qualificazione tributaria appare idonea a coprire, oltre alla “subordinazione pura”, altresì la subordinazione “rimediale”, vale a dire la collaborazione etero-organizzata (in merito da ultimo, cfr. Ferraro F., op. cit., spec. 503-533).

Da questa impostazione deriverebbe, oltre che un generale coordinamento con il diritto del lavoro, una coerenza con il profilo previdenziale, alla luce dell’inquadramento (gestione principale INPS) così come delineato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la circ. n. 7/2020.

Per converso, è nell’area dell’autonomia che le prospettive giuslavoristiche e tributarie riscontrano i più evidenti disallineamenti, almeno sotto due angolature.

In primo luogo ed in via pregiudiziale, si rileva che alcuni “sotto-modelli” di lavoro autonomo non producono redditi di lavoro autonomo, bensì le relative remunerazioni rientrano in altre categorie.

Si pensi al caso della agenzia o mediazione, che integrano la fattispecie del reddito di impresa ovvero alla collaborazione coordinata e continuativa riconducibile a quello assimilato al reddito di lavoro dipendente.

Peraltro, in quest’ultimo esempio, a rimarcare ulteriormente la peculiarità dell’impostazione tributaria, opera la c.d. regola di “attrazione” qualora un medesimo contribuente, titolare di un rapporto di collaborazione, svolga altresì altre attività come libero professionista sulla base di un know-how comune, con l’effetto che tutti i redditi dell’uno e delle altre confluiscono nella categoria del lavoro autonomo (Stancati G., L’attrazione al lavoro autonomo dei compensi da collaborazione e delle indennità risarcitorie, in Corr. trib., 2011, 5, 393 ss.).

D’altra parte, emergono scelte di coordinamento sistematico tra il reddito lavoro autonomo e quello di impresa, secondo un’impostazione atteggiata nel senso di dare al primo una sorta di ruolo residuale (Puoti G. – Lollio C., Profili fiscali dell’attività di lavoro subordinato e parasubordinato, in Santoro Passarelli G., a cura di, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale,  Torino, 2020, 340-343).

Nel sistema dell’IRPEF la circostanza che il modello di lavoro guidi (anche) gli orientamenti tributari trova, tra l’altro, riscontro nelle previsioni in tema di esercizio di (i) arti e professioni e (ii) di impresa (Salvini L., Le attività economiche nelle imposte sul reddito nell’IVA e nell’IRAP, in Salvini L., a cura di, Diritto tributario delle attività economiche, Torino, 2019, 2-25).

In particolare, ai sensi dell’art. 53, comma 1, TUIR, si ha riguardo all’esercizio professionale ed abituale, ancorché non esclusivo, di attività di lavoro autonomo “diverse da quelle di impresa”.

Come dianzi accennato, il coordinamento tra gli artt. 53, comma 1 e 55, comma 2, lett. a), TUIR, resta tutt’oggi controverso (Ferranti G., L’incerto confine tra reddito di lavoro autonomo e d’impresa, in Corr. trib., 2011, 6, 433 ss.).

In estrema sintesi, al riguardo è dato riscontrare due linee interpretative.

Secondo un primo orientamento (Beghin M., Il reddito di impresa, Pisa, 2021, 4-7), anche alla luce della differenza tra “attività industriale di produzione di servizi” e “attività (non industriale) di prestazione di servizi” (per una analisi critica del distinguo, cfr. Zizzo G., I redditi di impresa, in Falsitta G., a cura di, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2016, 247-255), anche le prestazioni di servizi (almeno, prevalentemente) materiali, non rientrando nell’art. 2195 c.c. (in quanto “non industriali”), se non organizzate in forma di impresa, sarebbero suscettibili di produrre redditi di lavoro autonomo.

Per converso, un’altra impostazione riserva l’ambito dell’art. 2195 c.c. alle attività materiali, facendone discendere la conseguenza che i redditi di lavoro autonomo possano abbracciare le sole attività intellettuali (rectius le professioni intellettuali) e quelle paraintellettuali (Crovato F., op. cit., 60, ove per indicazioni esemplificative: prestazioni didattiche, interpreti, esperti di marketing, informatici, investigatori privati, fisioterapisti, gestori di pratiche amministrative), ovvero di ambito “non materiale” (Pansieri S., I redditi di lavoro autonomo, in Falsitta G., a cura di, Manuale di diritto tributario. Parte speciale, Padova, 2016, 227-229: secondo l’Autrice l’esplicazione di energie intellettuali deve essere preponderante. In senso sostanzialmente analogo, cfr. Salvini L., op. cit., 20, secondo la quale il carattere intellettuale delle prestazioni sarebbe qualificante del lavoro autonomo in senso tributario) e che non coinvolgono interventi di profilo tecnico-meccanico su beni (a ben vedere la casistica, sia di prassi che di giurisprudenza, sebbene non sempre in merito alla vigente impostazione normativa, sembra riferirsi ad attività a contenuto variamente configurabile, avendo incluso nell’area dell’autonomia fattispecie quali: fotografo; prestatore di servizi di pulizia e vigilanza; chiromante-cartomante; ricamatrice a domicilio. Cfr., per una rassegna in merito, Leo M., a cura di, Le imposte sui redditi nel Testo Unico, Milano, 2020, 1076-1080).

4. In via conclusiva, si possono svolgere alcune considerazioni sulle prospettive de jure condendo.

Senz’altro, per così dire, in negativo, si ravvede l’opportunità di non eccedere in interventi a rischio di “ipertrofia specialistica”.

In particolare, non appaiono condivisibili quelle iniziative rivolte alla definizione di nuove fattispecie reddituali in ragione dell’evoluzione dei rapporti conseguente allo sviluppo della gig economy (ex multis, Fraioli A.L., Riflessioni in tema di lavoro digitale, tra autonomia, subordinazione e tutele, in Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, 2020, 4, 911 ss.).

E’ il caso della proposta di introduzione, nell’ambito di una più generale disciplina del lavoro tramite piattaforma, di una nuova categoria – “reddito da attività di economia della condivisione digitale” – soggetta a flat tax entro una certa soglia (A.C. 3564 del 2016).

Come evidenziato da autorevole dottrina (Stevanato D., Dalla crisi dell’IRPEF alla flat tax. Prospettive per una riforma dell’imposta sul reddito, Bologna, 2016, 91-92), si sarebbe trattato di una misura palesemente iniqua e viziata sotto il profilo dei principi ex artt. 3 e 53 della Costituzione.

Di contro, tra le tante astrattamente configurabili, si possono menzionare tre aree afferenti (i) le aggregazioni professionali, (ii) la collaborazione coordinata e continuativa e (iii) gli incentivi alla condivisione del rischio di impresa

In merito al primo aspetto, è auspicabile l’espressa previsione di un regime di neutralità di ampio respiro (Ferranti G., Le lacune normative disincentivano le aggregazioni e le riorganizzazioni degli studi professionali, in Corr. trib., 2019, 10, 831 ss. Per alcune considerazioni sistematiche in merito alle iniziative intraprese nel corso della XVIII Legislatura, cfr. Sacchetto C., Redditi di lavoro autonomi e disegno di legge delega di riforma tributaria, in Rass. trib., 2022, 1, 58 ss.) che, inter alia, abbracci il passaggio a forme societarie (Miceli R., La natura del reddito prodotto dalle società tra professionisti, in questa Rivista, 2021, 1, IX, 322 ss.).

Per la “parasubordinazione” si potrebbe valutare un suo “ritorno” tra le fattispecie assimilate al reddito di lavoro autonomo con la deducibilità dei relativi costi di produzione, in via analitica ovvero forfetaria.

Infine, quale strumento che possa coadiuvare le politiche sociali e del lavoro, mutuando con opportuni adattamenti alcune previgenti discipline, la leva fiscale consentirebbe di incentivare la condivisione del rischio di impresa da parte del dipendente o del collaboratore. In questa prospettiva, si potrebbe valutare la detassazione del fringe benefit azionario limitatamente ad un ammontare non eccedente la retribuzione fissa o una sua quota.

Al momento di licenziare il presente contributo, il disegno di legge delega per la riforma fiscale ha avviato il suo iter (A.C. 1038, XIX Legislatura). Per quanto qui di interesse, si segnalano:

  • la possibilità di consentire la deduzione dal reddito di lavoro dipendente e assimilato, anche in misura forfetizzata, delle spese sostenute per la produzione dello stesso (art. 5, comma 1, lett. a, n. 2.2.);
  • la neutralità fiscale delle operazioni di aggregazione e riorganizzazione degli studi professionali, comprese quelle riguardanti il passaggio da associazioni professionali a società tra professionisti (art. 5, comma 1, lett. f, n. 1.4). Si rinvia ai contenuti del Dossier 19 aprile 2023 curato dai Servizi Studi del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati.

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(*) Il presente contributo riprende i contenuti della relazione al 71° Convegno nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, “Diritto al lavoro. Per un lavoro degno in un‘economia sostenibile”, tenutosi presso la LUMSA, Roma 9 – 11 dicembre 2022.

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