Gutta cavat lapidem (si spera): ancora sui profili finanziari del regionalismo rafforzato

Di Andrea Giovanardi -

Abstract  (*)

Il disegno di legge presentato dal Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie, avente ad oggetto “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione” (n. 615 A.S.) ha iniziato, dal Senato, il suo cammino parlamentare. Nel testo della relazione predisposto dall’Autore per l’Audizione avanti la Commissione Affari Costituzionali ci si concentra sui profili finanziari dell’autonomia regionale rafforzata, in particolare sulla prevista previa necessità di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali e sulla necessitata scelta dello strumento di finanziamento, la compartecipazione al gettito dei tributi erariali maturato nel territorio. Ci si sofferma anche sui complessi rapporti tra trasferimento delle funzioni LEP, necessariamente calcolate a costi standard, sul passaggio delle funzioni non LEP, per le quali tale vincolo non sussiste e sugli equilibri della finanza pubblica, ritenuti a rischio da quella tesi, qui contestata, secondo la quale la realizzazione del disegno riformatore darà inevitabilmente origine a continui interventi sostitutivi dello Stato e, quindi, ad un pericoloso incremento della spesa pubblica.

Gutta cavat lapidem (with optimism): further on the financial aspects of reinforced regionalism. – The legislative proposal introduced by the Minister for Regional Affairs and Autonomies, under the title “Provisions for the implementation of differentiated autonomy of Regions with ordinary statutes pursuant to Article 116, paragraph 3, of the Constitution” (No. 615 A.S.), has commenced its parliamentary process in the Senate. The author’s report, crafted for the hearing before the Constitutional Affairs Committee, directs its attention towards the fiscal dimensions of reinforced regional autonomy. Specifically, it focuses on the anticipated prior requirement of determining the indispensable essential levels of provision (ELP) concerning civil and social rights, along with the imperative selection of the financing mechanism, which involves the sharing of revenue from state taxes accrued in the territory. Additionally, it sheds light upon the intricate interplay among the transfer of ELP functions, which must be assessed at standardized costs, the transfer of non-ELP functions, exempt from such constraint, and the equilibrium of public finance, subject to perceived vulnerability by that thesis, which is contested here, according to which the implementation of the reform plan will inexorably engender sustained State interventions in lieu of regional authorities, thereby precipitating a perilous escalation in public expenditure.

 

 

Sommario: 1. Una premessa, brevissima. – 2. Funzioni e competenze, non materie. –3. Il problema delle risorse: una questione preliminare. – 4. La previa determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. – 5. La compartecipazione al gettito dei tributi erariali maturato sul territorio. – 5.1. Il meccanismo di funzionamento: il finanziamento delle funzioni nell’anno in cui vengono trasferite. – 5.2. Il meccanismo di funzionamento negli anni successivi: la destinazione degli eventuali surplus.

1. Grande è la confusione sotto il cielo dell’autonomia. Si sono sentite e si sentono da accademici, intellettuali, politici, giornalisti le più curiose, spesso strampalate, critiche/osservazioni/stroncature. I toni sono spesso sopra le righe: si evocano disastri epocali collegati all’innescarsi di fenomeni disgregativi a cui non potrà più porsi rimedio se si darà seguito a una iniziativa esiziale e funesta al massimo grado[1].

C’è però una questione che gli strenui oppositori di quella che è oramai da più parti definita, lo slogan è diventato anch’esso un argomento, la «secessione dei ricchi»[2] evitano il più delle volte di evidenziare: la possibilità della differenziazione è prevista nella Costituzione, nell’art. 116, comma 3, definito da Luca Antonini, non certo un pericoloso eversore, come «la parte più interessante della riforma del Titolo V»[3]. Ancora, «la riforma costituzionale del 2001» – ha osservato Antonio Uricchio, Presidente dell’Anvur, ex Rettore dell’Università di Bari e ordinario di diritto tributario nella medesima Università – «ha promosso il modello dell’autonomia regionale differenziata sulla base dell’idea della non omogeneità degli interessi e delle preferenze delle comunità locali […], ovvero della convinzione che la differenziazione possa stimolare la competizione verso l’alto, migliorando l’efficienza complessiva della gestione degli enti regionali»[4]: osservazione questa di grande momento perché l’obiettivo dell’autonomia differenziata è esclusivamente quello di creare le condizioni perché alcuni servizi pubblici possano essere resi ai cittadini in modo più efficace ed efficiente di quanto non sia accaduto fino ad oggi, con conseguenti benefici effetti sulla crescita dell’intero Paese.

In questa prospettiva vanno letti i due D.D.L., comunicati alla Presidenza, il n. 273, d’iniziativa del senatore Martella, e il n. 615, presentato dal Ministro per gli Affari regionali e le autonomie Calderoli: essi ambiscono a diventare delle leggi “quadro” volte a dare attuazione al citato art. 116, comma 3, Cost. sull’assunto, in entrambi condiviso, che tale soluzione, pur non essendo prevista nella Carta fondamentale, dovrebbe garantire maggiore ordine e coordinamento e un più ampio coinvolgimento del Parlamento.

Si cercherà quindi di soffermarsi sui due disegni di legge prestando particolare attenzione alla questione su cui più nel dibattito (se dibattito si può definire quello in cui una parte attacca costantemente l’altra con l’atteggiamento, ontologicamente acritico, del tifoso) ci si è soffermati: la questione finanziaria connessa al trasferimento delle risorse e delle competenze dallo Stato alle Regioni richiedenti.

2. Come è noto, l’art. 116, comma 3, Cost. stabilisce che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

Ebbene, ancor prima di occuparci dei profili finanziari in senso stretto del processo di differenziazione delle Regioni a statuto ordinario che all’intesa riescano ad addivenire, occorre soffermarsi su un profilo di carattere preliminare: per attuare correttamente il dettato costituzionale occorre prendere atto del fatto che le richieste di attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia non possono avere ad oggetto le materie in sé considerate, ma piuttosto specifiche funzioni e compiti, sia di carattere legislativo che amministrativo, ad esse riconducibili, funzioni e compiti che attualmente rientrano tra le competenze dello Stato (l’espressione «concernenti le materie» è da questo punto di vista assolutamente inequivoca).

L’articolato del D.D.L. Calderoli (ma lo stesso può dirsi del D.D.L. Martella) dimostra che vi è piena consapevolezza dell’anzidetta circostanza, atteso che si fa riferimento: i) alla «attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione […]» (art. 1, comma 2); ii) al «trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP di cui all’articolo 3 […]» (art. 4, comma 1); iii) al «trasferimento delle funzioni relative a materie e ambiti di materie diversi da quelli di cui al comma 1, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie […]» (art. 4, comma 2); iv) alle «funzioni amministrative trasferite alla Regione […]» (art. 6, comma 1).

Il che costituisce evidente dimostrazione dell’infondatezza delle profezie, tali vanno considerate, sulla frantumazione dello Stato unitario in conseguenza del proliferare di diverse regole connesse al trasferimento delle funzioni, regole che renderanno difficile se non impossibile la vita a cittadini e imprese (l’Italia diventerà un Paese Arlecchino, si ammonisce severamente dai sostenitori di un’uniformità che, finora, non è riuscita a ridurre i rilevanti divari tra i diversi territori)[5]. Gli scenari ipotizzati infatti muovono dal presupposto che tutte le competenze possibili concernenti tutte le materie (e, quindi, in realtà le materie) vengano trasferite da uno Stato arrendevole e remissivo a tutte le Regioni che ne faranno richiesta (e l’ulteriore ipotesi è che quasi tutte faranno richiesta di quasi tutto). Si tratta di assunti francamente risibili, atteso che il trasferimento di specifiche funzioni e compiti avverrà al termine di complessi negoziati in cui lo Stato si priverà delle proprie prerogative solamente qualora ritenga che non vi siano dubbi in merito alla maggiore efficienza della Regione nella gestione del pubblico servizio collegato alla funzione trasferita (e sempre che, anche negli ipotizzati casi, le resistenze di cui gli apparati solitamente danno prova quando si cerca di togliere ad essi qualche funzione non faccia premio sulle anzidette valutazioni)[6].

In questa prospettiva appare in tutta la sua inconsistenza anche un’ulteriore critica avanzata nei confronti del D.D.L. Calderoli, quella secondo la quale si dovrebbe prevedere che «la richiesta debba indicare le ragioni obiettive per le quali la Regione interessata ritiene di poter meglio gestire quelle funzioni e quei compiti nell’interesse dei propri cittadini e senza lesione dei più generali interessi della Repubblica. Sono queste ragioni che Governo e Parlamento saranno chiamati a valutare, nel negoziare e poi approvare l’intesa che recepirà, in tutto o in parte, la richiesta della Regione»[7]. Si tratterebbe infatti di disposizione del tutto inutile, atteso che non c’è bisogno di obbligare la Regione ad un adempimento a cui non può comunque sottrarsi: per convincere lo Stato a privarsi di una funzione di sua competenza quest’ultima dovrà per forza di cose cercare di convincere il Governo, fondando la propria richiesta su una congrua e adeguata motivazione, che quella stessa funzione sarà meglio gestita nell’interesse dei suoi cittadini (il che, sia consentito, ben difficilmente potrà andare a scapito, come si prefigura nel paper di Astrid, degli interessi della Repubblica) a un livello più basso (che potrebbe anche essere quello locale, in forza di quanto previsto dall’art. 6 del D.D.L. n. 615).

3. Quanto detto al precedente paragrafo è già sufficiente per sdrammatizzare la questione del finanziamento, atteso che, come si è visto, non potrà mai accadere che vengano trasferiti pacchetti di competenze così estesi da determinare il “passaggio” di un’intera materia dallo Stato alla Regione che si differenzia. A ciò si aggiunga che, come ha osservato Fabrizia Lapecorella, al tempo Direttore generale delle Finanze, «gran parte delle materie per cui le Regioni hanno chiesto il trasferimento delle competenze genera una spesa aggiuntiva da finanziare a livello regionale di modesta entità: si tratta, infatti, di funzioni amministrative di carattere organizzativo che comportano il trasferimento di limitate risorse finanziarie e umane» (tutto ciò ovviamente non vale per l’istruzione qualora si preveda il «definitivo passaggio del personale della scuola dai ruoli dello Stato a quelli delle Regioni ad autonomia differenziata»)[8].

Chiarito ciò, occorre sgomberare il campo da altro intralcio dialettico all’ordinato (e sereno) svolgimento del processo di differenziazione regionale, quello collegato all’asserito fatto secondo il quale la spesa pubblica sarebbe nettamente superiore al Centro-Nord rispetto che al Sud, circostanza questa che di per sé dimostrerebbe non solo l’inopportunità, ma addirittura la non rispondenza al principio fondamentale di uguaglianza di quei progetti che potrebbero generare il trasferimento di ulteriori risorse nelle aree settentrionali del Paese: se già il Mezzogiorno è danneggiato perché si spende meno in quelle aree rispetto al ricco Nord, il riconoscimento di ulteriori possibilità di spesa alle Regioni settentrionali non potrebbe che acuire il divario territoriale (tesi questa, per il vero, abbastanza curiosa, atteso che le possibilità di spesa non sono ulteriori, visto che prima dell’intesa le funzioni sono dello Stato, successivamente diventano della Regione).

È la ben nota questione dei sessanta miliardi di spesa pubblica che mancherebbero al Mezzogiorno, sulla cui (in)fondatezza ho già avuto modo di intrattenermi[9], questione che, malgrado la dimostrazione che è fuorviante prendere a riferimento per il confronto un aggregato, diverso dalla spesa statale regionalizzata come calcolata dal MEF, che ingloba la spesa pensionistica, collegata evidentemente al luogo di residenza di chi ha pagato i contributi, e la spesa delle imprese pubbliche, governata dal mercato[10], non cessa di essere attuale se Astrid ha avuto modo di rilevare che, «nel corso dell’attuazione dell’art. 119, secondo il percorso correttamente delineato dalla legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, emergerebbero con ogni probabilità dati rilevanti anche ai fini dell’attuazione dell’autonomia differenziata. È del tutto prevedibile che tali dati smentirebbero alcuni dei presupposti da cui avevano preso le mosse le prime richieste di applicazione dell’articolo 116/3 della Costituzione; e cioè la sussistenza di una spesa pubblica pro capite mediamente più elevata nel Mezzogiorno che nel Centro Nord e di un prelievo fiscale pro capite di fatto assai esoso nel Centro Nord e più ridotto nel Mezzogiorno, per il combinarsi di lassismo ed evasione. Gli ultimi dati disponibili dimostrano invece il contrario: nel 2020, la spesa pro capite della Pubblica Amministrazione nel Mezzogiorno (12.943 euro) è stata inferiore a quella del Centro Nord (16.399 euro). La distorsione a danno del Mezzogiorno è poi ancora più evidente se si considera il valore del PIL pro capite, che, nel 2021, è stato al Centro-Nord quasi doppio (35.119 euro) rispetto a quello del Mezzogiorno (18.233 euro). Non potrebbe essere più evidente il contrasto con il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione e con i suoi corollari costituzionali in materia tributaria, costituiti dall’obbligo imposto al legislatore di prevedere un sistema fiscale “informato a criteri di progressività” e dall’obbligo imposto a tutti i cittadini di “concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”»[11].

Si tratta di posizione più che discutibile oltre che per quanto già qui sopra riferito (Astrid utilizza i Conti Pubblici Territoriali nella versione in cui si prendono a riferimento le spese del c.d. settore pubblico allargato), anche per quanto qui di seguito si va ad esporre.

Ed invero, tenuto conto che il problema del trasferimento dei mezzi finanziari dalla parte più ricca a quella meno ricca di un Paese si pone anche negli Stati unitari (con la differenza che, mentre in questi ultimi la redistribuzione interregionale avviene mediante trasferimenti impliciti decisi dallo Stato sulla base delle risorse che ha a disposizione, negli Stati federali/regionali la riallocazione delle risorse pubbliche tra le diverse aree passa [anche] attraverso programmi espliciti di perequazione regionale o locale[12]), non si può non rilevare che la necessità dello Stato di prelevare laddove può (in misura maggiore al Nord) per spendere laddove deve (in tutto il territorio nazionale) ha generato un fenomeno di perequazione implicita, intenzionalmente ignorato e/o sminuito nella sua rilevanza dagli oppositori dei progetti di differenziazione, che determina: i) avanzi al Nord e deficit al Sud di enorme entità (entrambi pari al 10 per cento circa dei rispettivi PIL), con tutti i problemi di sostenibilità che tale assetto della ripartizione comporta[13]; ii) e, conseguentemente, l’impossibilità di riservare alle autonomie tributi di una qualche consistenza (i tributi servono allo Stato perequatore!) e, quindi, significative forme di autonomia tributaria che consentano di poter contare sui benefici effetti, in termini di controllo dei rappresentanti eletti, del vedo-pago-voto.

Da quest’ultimo punto di osservazione, è interessante rilevare che la tesi della necessità del preventivo completamento del c.d. federalismo fiscale rispetto alla realizzazione dell’autonomia differenziata mostra tutti i suoi limiti proprio perché non ci sono gli spazi per il superamento del modello disegnato nella legge delega di attuazione dell’art. 119 Cost. (L. 5 maggio 2009, n. 42). Esso, è bene ricordarlo, si impernia, per quel che concerne l’autonomia tributaria, sull’art. 2, comma 2, lett. o), il quale, rispecchiando gli assunti interpretativi di una giurisprudenza costituzionale più che prudente[14], individuava quale criterio direttivo cui il delegato doveva attenersi quello della «esclusione di ogni doppia imposizione sul medesimo presupposto, salvo le addizionali previste dalla legge statale o regionale», realizzando in tal modo la definitiva separazione tra la contribuzione generale, devoluta interamente allo Stato, e quella commutativa, da assegnare a Regioni ad enti locali[15].

Non è fuori luogo ricordare, infine, che se si prende a riferimento la spesa per la materia istruzione, l’unica, se si esclude la sanità, che è già regionalizzata, veramente rilevante da un punto di vista finanziario tra le ventitré all’interno delle quali possono essere individuate le funzioni trasferibili, occorre prendere atto che, come ha evidenziato Gianfranco Cerea, già ordinario di Scienza delle Finanze nell’Università di Trento, «le differenze tra le varie tipologie di spesa sono quasi ovunque contenute. In generale, la spesa “storica” è di poco superiore o inferiore a quella standard per la quasi totalità dei territori del Centro-Nord – salvo che per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna; è maggiore in quasi tutte le regioni del Sud, con picchi significativi per la Calabria, la Sicilia e la Sardegna». Il che dimostra, conclude Cerea, che «il confronto tra la spesa storica e la spesa standard per l’istruzione mostra che le Regioni del Nord risultano penalizzate rispetto a quelle del Sud»[16].

4. Chiarito che per la materia che “costa di più” non ci sono, già oggi, problemi di sperequazione tra Centro-Nord e Mezzogiorno e ricordato nuovamente che per la sanità ci sono già i livelli essenziali di assistenza (pur non andando questi ultimi immuni da critiche perché si prendono le mosse, nella loro determinazione, non tanto dai costi dei servizi resi in condizioni standard quanto dalle risorse disponibili, divise tra le Regioni in relazione al numero degli abitanti ponderato sulla base dell’età[17]), è il momento di concentrarsi sul rapporto tra art. 116, comma 3, Cost. e art. 117, comma 2, lett. m), Cost.

Non nascondo che ho sempre dissentito dalla tesi secondo la quale al passaggio delle competenze in attuazione delle intese dovrebbe necessariamente giungersi solo successivamente alla definizione dei LEP. Ho condiviso infatti quanto sostenuto da parte del Gruppo di lavoro sul regionalismo differenziato, istituito con D.M. 25 giugno 2021 dall’allora Ministro per gli Affari regionali del Governo Draghi, Mariastella Gelmini e presieduto dal Prof. Beniamino Caravita[18]: un vincolo di tal tipo non dovrebbe ritenersi operante, non potendo ammettersi che il processo di attuazione della norma costituzionale dipenda da condizioni di fattibilità rimesse all’esclusiva e discrezionale volontà del legislatore statale. Il che non vuol dire, sia chiaro, che non vi sia interesse alcuno da parte dello Stato e delle altre autonomie regionali «a fare in modo che la preesistente allocazione delle risorse venga alterata il meno possibile, o meglio che non venga alterata affatto, o addirittura che venga alterata in senso favorevole a tutte le altre Regioni o comunità territoriali diverse da quelle che hanno attuato il processo di differenziazione»[19].

La scelta di cui ai D.D.L. all’esame di questa Commissione è invece nel senso opposto, atteso che, faccio riferimento al D.D.L. Calderoli, si prevede:

(i) all’art. 1, comma 2, che «l’attribuzione di funzioni relative alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione, nella normativa vigente alla data di entrata in vigore della presente legge o sulla base della procedura di cui all’articolo 3, dei relativi livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione»;

(ii) all’art. 4, comma 1, che «il trasferimento delle funzioni, con le relative risorse umane, strumentali e finanziarie, concernenti materie o ambiti di materia riferibili ai LEP di cui all’articolo 3, può essere effettuato, secondo le modalità e le procedure di quantificazione individuate nelle singole intese, soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard».

Molto opportunamente si prevede poi, all’art. 3, comma 3, che «qualora, successivamente alla data di entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa, in materie oggetto della medesima, i LEP, con il relativo finanziamento siano modificati o ne siano determinati ulteriori, la Regione e gli enti locali interessati sono tenuti all’osservanza di tali livelli essenziali subordinatamente alla corrispondente revisione delle risorse relative ai suddetti LEP secondo le modalità di cui all’articolo 5»: la Regione deve quindi garantire i LEP anche successivamente all’attribuzione della funzione, come peraltro accade già oggi per i livelli essenziali di assistenza in materia di sanità.

Si è intrapresa, a me sembra, l’unica via politicamente percorribile: si tratta di scelta saggiamente pragmatica che, oltretutto, ha il merito, in forza di quanto previsto nell’art. 1, commi 791-801, L. 29 dicembre 2022, n. 197, di avviare con decisione il procedimento di determinazione dei LEP che si attendeva da più di vent’anni.

Nessuna critica può essere mossa al D.D.L. da questo punto di vista. Il percorso riformatore cerca di contemperare i principi dell’autonomia e del decentramento con quello della solidarietà: decisiva da questo punto di vista l’istituzione della Cabina di regia, la ricognizione del quadro normativo, la «successiva individuazione delle materie e degli ambiti di materie riferibili ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e l’estensione del monitoraggio «alla spesa storica a carattere permanente dell’ultimo triennio, sostenuta dallo Stato nel territorio di ogni Regione, per ciascuna propria funzione amministrativa»[20].

Questo fondamentale lavoro dovrebbe consentire al Governo di giungere ai seguenti risultati: i) se la spesa statale è ripartita in modo omogeneo tra i diversi territori (lasciando da parte la sanità, è quello che accade, fatto salvo quanto in precedenza riferito, per la più dispendiosa delle materie, l’istruzione), non occorrerà nemmeno, ai fini del trasferimento delle funzioni, la determinazione dei LEP o comunque la stessa sarà molto semplice perché i fabbisogni standard non si discosteranno di molto dalla spesa storica; ii) se emergono delle sperequazioni, occorrerà capire se siano il frutto di sprechi o se, invece, siano la conseguenza del sottofinanziamento dei servizi che devono essere garantiti in quanto collegati a diritti civili e sociali; iii) in quest’ultimo caso trova opportuna applicazione l’art. 4, comma 1, secondo periodo, a mente del quale «qualora dalla determinazione dei LEP di cui al primo periodo derivino nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, si può procedere al trasferimento delle funzioni solo successivamente all’entrata in vigore dei provvedimenti legislativi di stanziamento delle risorse finanziarie coerenti con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio».

Non può pertanto attribuirsi un qualche peso all’osservazione secondo la quale un conto è la determinazione dei LEP, un conto è il loro finanziamento, con conseguente critica al D.D.L. perché nulla prevede da questo peculiare angolo visuale. Considerazioni logiche ancor prima che giuridiche consentono di affermare con sicurezza che se mai si giunge alla determinazione, mai si potrà avere contezza di quante risorse possano risultare necessarie per eliminare l’individuata sperequazione. Particolarmente opportune, in questa prospettiva, sono non solo le previsioni del citato art. 4, comma 1, secondo periodo (dal quale deriva che se bisogna spendere per risolvere un problema LEP, non potrà verificarsi che medio tempore quella funzione sia trasferita alla Regione richiedente), ma anche le clausole di invarianza finanziaria di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 8, i quali dispongono che «dall’applicazione della presente legge e di ciascuna intesa non possono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» (comma 1) e che «fermo restando quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, il finanziamento dei LEP sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard è attuato nel rispetto dell’articolo 17 della legge 31 dicembre 2009, n. 196 e degli equilibri di bilancio» (comma 2).

Si può quindi giungere alle seguenti conclusioni:

(i) l’attività ricognitiva della Cabina di regia consentirà di entrare in possesso dei dati concernenti gli ambiti materiali cui l’art. 116, comma 3, Cost. rinvia in modo da impedire che le traiettorie autonomistiche mettano in pericolo il diritto ad usufruire del livello essenziale delle prestazioni connesse ai diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza e che deve, quindi, essere garantito in modo uniforme su tutto il territorio;

(ii) il D.D.L. Calderoli si fa carico di questa incombenza stabilendo che per le materie LEP a nessun trasferimento di competenze conseguente all’intesa si potrà addivenire prima della determinazione dei LEP;

(iii) il trasferimento resterà congelato anche in tutti i casi in cui si rendano necessari interventi finanziari volti all’eliminazione delle sperequazioni;

(iv) delle maggiori spese connesse ai LEP occorrerà farsi carico con altro provvedimento, essendo più che opportunamente presidiato il D.D.L. Calderoli dalla clausola di invarianza finanziaria di cui all’art. 8, commi 1;

(v) in ogni caso anche qualora sia necessario spendere per ristabilire la parità, lo si potrà fare, ma non potrebbe essere altrimenti, nel rispetto del principio della necessaria copertura finanziaria delle leggi di cui all’art. 17 L. 31 dicembre 2009, n. 196 (norma di attuazione dell’art. 81 Cost.) e degli equilibri di bilancio.

Traspare pertanto dal D.D.L. la consapevolezza che non si può seriamente credere che basti determinare a livello statale i LEP per ristabilire l’uguaglianza tra i cittadini, e ciò sia in ragione della discrezionalità politica nella determinazione dei LEP che dei vincoli finanziari con cui occorre fare i conti[21]; non si può allo stesso modo ritenere che, nei casi in cui gli enti territoriali non siano in grado di garantire l’uniformità di trattamento connessa all’operatività dei LEP, l’intervento sostitutivo dello Stato sia in grado di ripristinare agevolmente il diritto a usufruire dei diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza (il caso della sanità calabrese, commissariata da dieci anni e, malgrado questo, in condizioni non di molto dissimili rispetto alla gestione regionale, è lì a dimostrarlo[22]).

5.1. Chiarito quanto sopra, soffermiamoci sull’individuazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni che vengono trasferite alle Regioni che raggiungono l’intesa con il Governo (strumenti che non possono che essere individuati, la precisazione è perfino superflua, tra quelli menzionati nell’art. 119 Cost., cui l’art. 116, comma 3, rinvia).

Il punto di partenza è che le risorse necessarie debbono necessariamente essere ricavate all’interno del bilancio dello Stato, non potendo nemmeno ipotizzarsi che esse derivino da tributi ed entrate propri delle Regioni. Se così non fosse, infatti, i residenti delle Regioni ad autonomia rafforzata si troverebbero ulteriormente assoggettati al prelievo per l’erogazione di servizi pubblici che già ricevono dallo Stato e per cui già pagano e hanno pagato imposte; lo stesso può dirsi per i trasferimenti, non ammessi nel sistema che nasce dalla riforma del Titolo V come forma di finanziamento se non nelle situazioni previste dall’art. 119, comma 5, Cost., diverse da quelle qui in discussione; non restano quindi, non potendosi evidentemente finanziare la differenziazione attraverso il fondo perequativo, che le compartecipazioni al gettito dei tributi erariali riferibile al territorio, eventualmente declinate nella forma delle aliquote riservate, che è una species del genus compartecipazioni (con benefici effetti, in quest’ultimo caso, per la manovrabilità delle aliquote, anche sull’autonomia tributaria delle Regioni che si differenziano)[23].

Sul punto, dunque, non può che condividersi quanto proposto con l’art. 5, comma 2, del D.D.L. Calderoli, il quale prevede che le modalità di finanziamento vadano individuate mediante compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale. Sarebbe forse opportuno integrare la norma specificando che la compartecipazione può essere declinata come riserva d’aliquota, il che consentirebbe alle Regioni ad autonomia differenziata di non risentire delle unilaterali decisioni dello Stato in merito alla determinazione degli imponibili o alla riduzione delle aliquote, così riducendo i rischi di ammanchi di gettito per finanziare le competenze trasferite.

Opportuno, pur sempre nell’art. 5, comma 2, il riferimento all’art. 17 L. n. 196/2009, sulla copertura delle spese in attuazione dell’art. 81 Cost.: si tratta di ulteriore garanzia per lo Stato e per le Regioni che non partecipano al processo di differenziazione.

Tornando alla compartecipazione, si tratta di strumento che nella fase del passaggio delle competenze non genera alcun problema di carenza di risorse per le altre Regioni atteso che, per l’individuazione dell’aliquota di compartecipazione al tributo o ai tributi erariali prescelti, dovrà farsi riferimento alla spesa trasferita (che potrebbe anche essere per le funzioni non LEP quella sostenuta dallo Stato, e ciò in forza dell’art. 3, comma 2), che andrà ovviamente coperta integralmente. E ciò anche se il trasferimento, per ipotesi, avvenisse, ovviamente per le funzioni non LEP, “a spesa storica”: in tale evenienza verrebbe riconosciuta alla Regione una compartecipazione in grado di consentire di sostenere il costo che già lo Stato sosteneva prima del trasferimento.

In definitiva, la devoluzione delle funzioni alla Regione che si differenzia non ha effetto alcuno sulla solidarietà interterritoriale perché il passaggio delle competenze avviene in condizioni di invarianza finanziaria per le funzioni non LEP[24], in forza del superamento del criterio della spesa storica per le funzioni LEP.

Il che, comunque, genera problemi di grande momento per il trasferimento dei compiti LEP, il punto va attentamente soppesato, perché: i) la Regione in cui lo Stato spende di più di quello che dovrebbe, perché si pone al di sopra degli standard, non potrà chiedere l’attribuzione della competenza perché dovrà in un colpo solo gestire l’ammanco di risorse derivanti dalla differenza tra spesa storica e spesa calcolata in ragione di costi e fabbisogni standard; ii) la Regione in cui lo Stato spende di meno di quello che dovrebbe, perché si pone al di sotto degli standard, potrà, con ogni probabilità, chiedere l’attribuzione della competenza solamente se accetterà la spesa storica, perché, altrimenti, occorrerebbe spendere di più (da parte dello Stato) per vedersi riconoscere una compartecipazione corrispondente alla spesa calcolata secondo i fabbisogni standard.

5.2. Diversamente accade, me ne sono occupato in un articolo di prossima pubblicazione che qui in parte riproduco, negli anni successivi, atteso che le compartecipazioni si applicano a un gettito inevitabilmente diverso. Se quest’ultimo diminuisce, e con esso le entrate derivanti dalla compartecipazione, la Regione si troverà a far fronte alle spese potendo godere di una minore provvista, ma non potendo contare sull’“aiuto” dello Stato per le funzioni non LEP ottenute. Se invece i servizi scendono al di sotto, per le funzioni LEP, dei livelli essenziali, lo Stato dovrebbe intervenire ai sensi dell’art. 120, comma 2, Cost., ma tale evenienza genererebbe il definitivo affossamento dell’esperienza autonomistica realizzata in attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost. Peraltro, l’art. 7, comma 1, del D.D.L. Calderoli prevede, al secondo periodo, che «l’intesa può prevedere, inoltre, i casi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere»: potrebbe quindi verificarsi che una delle condizioni di cessazione dell’intesa sia proprio quella dell’incapacità della Regione, non dovuta ad eventi eccezionali e imprevedibili, di erogare i servizi concernenti i diritti civili e sociali nel rispetto dei LEP.

Se, invece, il gettito aumenta, la Regione potrà contare, grazie allo svolgimento del meccanismo compartecipativo, su maggiori risorse che potranno essere impiegate senza vincolo di destinazione. È proprio questo il ritenuto punto di frizione con il principio di solidarietà interterritoriale. Si sostiene da più parti che le compartecipazioni andrebbero determinate sulla base della spesa che le Regioni debbono sostenere giacché ogni soluzione che garantisca a chi si è differenziato anche un minimo surplus confliggerebbe con il principio di uguaglianza. Essa permetterebbe, in altri termini, che si realizzi quel che non si potrebbe consentire e cioè che i cittadini che vivono in una Regione a maggior reddito, e quindi a maggior gettito fiscale, abbiano diritto a servizi migliori in quanto meglio finanziati (il tutto nel presupposto, in molte occasioni smentito, che i più generosi finanziamenti si accompagnino sempre a migliori performance della pubblica amministrazione)[25].

Si tratta di tesi che non mi sembra condivisibile per le ragioni che qui di seguito si espongono.

La prima è che essa induce inevitabilmente a ritenere che le uniche soluzioni costituzionalmente possibili siano quelle che prevedono un uguale livello di servizi e, teoricamente, un identico ammontare di spesa pubblica per ciascun abitante, in modo da azzerare, grazie a una perequazione illimitata, ogni differenza. Conseguenza questa che confligge non solo con il riconoscimento costituzionale dell’autonomia finanziaria agli enti territoriali (ma sul punto, vd. anche qui di seguito), ma finanche con il concetto stesso di compartecipazione: sarebbe chiaramente contraddittorio aver previsto queste ultime come una delle forme di finanziamento delle autonomie per poi eliminare completamente, con la perequazione, le differenze che derivano dal meccanismo di funzionamento delle stesse.

D’altra parte, la riferibilità del gettito compartecipato al territorio è l’elemento su cui si impernia l’«aspettativa giuridicamente fondata delle singole Regioni a utilizzare una parte del gettito prodotto nel territorio, secondo un ragionevole bilanciamento tra il principio della capacità contributiva e quello del beneficio, in base al quale il pagamento dei tributi trova giustificazione anche in ragione dei servizi pubblici di cui i contribuenti sono destinatari»[26]. È del tutto fisiologico, in un ordinamento che dà spazio anche al principio di territorialità, che la regione possa trattenere la parte del gettito del tributo corrispondente all’aliquota di compartecipazione che le è stata assegnata, non dovendosi tralasciare, oltretutto, che lo Stato: i) è destinatario della quota di maggior gettito complementare rispetto a quella regionale (e di gran lunga più elevata); ii) per la più sostenuta crescita innescata dal trasferimento delle competenze, vero obiettivo della devoluzione realizzata in attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost., potrebbe acquisire risorse di maggiore consistenza rispetto a quelle di cui avrebbe potuto disporre nell’attuale contesto istituzionale[27].

In terzo luogo, non ci si può esimere dal rilevare che la tesi dell’impraticabilità costituzionale del trattenimento di una parte del surplus svilisce il dettato costituzionale: le compartecipazioni, ritarate ogni anno in ragione delle spese con essa finanziate, si trasformano in trasferimenti, che, come tutti sanno, non sono contemplati tra le forme di finanziamento possibile dall’art. 119, commi 2 e 3, Cost.

In quarto luogo, merita evidenziare che l’avversata ricostruzione confligge anche con l’art. 119, comma 1, Cost., atteso che la spesa determinata al momento del trasferimento delle competenze potrebbe essere ritenuta insufficiente dalla Regione, la quale dovrebbe avere la possibilità, è questo il senso della differenziazione, di “investire” su di esse. Se, però, le risorse vengono di anno in anno determinate, secondo una logica top down che risponda a criteri predeterminati in funzione della spesa che le Regioni debbono sostenere, verrebbe meno ogni possibilità di esercitare l’autonomia di spesa, che sulla possibilità di usufruire di risorse anche maggiori, per effetto di eventuali risparmi rispetto a quel che spendeva lo Stato o in ragione dello svolgimento del meccanismo compartecipativo, deve poter contare.

Deflagranti, infine, gli effetti sugli incentivi: per quale motivo una Regione dovrebbe accollarsi nuove competenze (e, quindi, nuove responsabilità) senza poter contare sulla possibilità di gestirle al meglio anche in forza delle maggiori risorse che il sistema di finanziamento è in grado di generare?

Si può quindi concludere nel senso che il finanziamento delle funzioni trasferite attraverso le compartecipazioni è compatibile con i principi di solidarietà e coesione territoriale, dato che:

(i) la tesi dell’acquisizione dell’intero surplus di gettito allo Stato confligge con l’art. 119, comma 1, Cost. (autonomia di spesa) e svuota di ogni contenuto l’art. 119, comma 2, Cost., giacché non ha senso alcuno riconoscere le compartecipazioni come meccanismo di finanziamento salvo poi ricorrere a una sorta di perequazione illimitata che elimini in radice ogni possibilità per la Regione di trattenere maggiori risorse sul proprio territorio;

(ii) dalla maggiore autonomia dovrebbe derivare (se no, evidentemente, occorrerebbe riflettere sul senso del trasferimento di competenze) una maggiore crescita che genera maggiori risorse non solo per la Regione ma anche per lo Stato, con ciò disinnescando ogni dubbio sulla da più parti asserita matrice antisolidaristica delle iniziative volte ad ottenere l’autonomia rafforzata in attuazione dell’art. 116, comma 3, Cost.

Non condividono una tale prospettazione Massimo Bordignon, Federico Neri, Leonzio Rizzo e Riccardo Secomandi, i quali affermano che «il modello di finanziamento del DDL prevede un processo di devoluzione in cui al tempo zero le risorse vengono attribuite al livello regionale (tramite compartecipazione al gettito dei tributi erariali) in modo da coprire la spesa attuale dello Stato nelle funzioni delegate. Se poi le risorse delle compartecipazioni cresceranno in futuro più di quanto necessario per finanziarie queste funzioni, le risorse addizionali resteranno alle Regioni; se no, tramite la Commissione paritetica prevista dal DDL, lo Stato interverrà comunque per finanziarie spese aggiuntive. Ma così non può evidentemente funzionare: è un chiaro win-win per le Regioni, ma rischia di essere un lose-lose per lo Stato e la restante collettività nazionale, costretti a rincorrere con extra risorse gli squilibri che così si possono generare»[28].

La tesi non riesce a convincere perché non considera che il riconoscimento di ulteriori risorse in caso di insufficienza del gettito ottenuto grazie alla compartecipazione potrebbe essere tutt’al più considerato come circostanza in grado di mettere in crisi il modello di finanziamento quale emerge dal D.D.L. n. 615 qualora essa dipenda dall’inefficienza della Regione che si è differenziata. Se invece accadesse, si tratta dell’evenienza più probabile, che la riduzione del gettito sia conseguenza di una crisi generalizzata, perché mai lo Stato non dovrebbe intervenire per garantire i LEP anche nella Regione che si è accollata la funzione e quindi il costo?

A ciò si aggiunga che il D.D.L. Calderoli ha l’ambizione di diventare una legge attuativa di una norma della Costituzione e non trasferisce di per sé funzioni e compiti alle Regioni. A ciò può addivenirsi a seguito del confronto in sede di intesa, sicché è del tutto ovvio che lo Stato si priverà di funzioni LEP con grande cautela e a fronte di adeguate garanzie che la Regione sia in grado di gestire al meglio i compiti richiesti. La tesi qui avversata sembra muovere invece dall’assunto, già in precedenza stigmatizzato, che lo Stato accetti a cuor leggero il passaggio di funzioni, da chiunque richieste, il che non è e non sarà.

Non si tiene poi conto della presenza nell’articolato del già citato art. 7, il quale, lo si è già detto, oltre a consentire di introdurre nelle intese “clausole risolutive” che ben difficilmente potranno prescindere dalla capacità di gestire le funzioni LEP in modo efficiente, prevede al comma 4, che il Ministero per gli Affari regionali e le autonomie e il Ministero dell’Economia e delle Finanze possono disporre verifiche su specifici profili o settori di attività «con riferimento alla garanzia del raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni, nonché il monitoraggio delle stesse» e, al comma 5, che la Commissione paritetica di cui all’art. 5, comma 1, che è composta anche da rappresentanti del Governo, monitora annualmente gli oneri finanziari derivanti dall’esercizio delle funzioni e dall’erogazione dei servizi ad esse connessi, dovendone fornire adeguata informativa alla Conferenza unificata Stato-Regioni.

In ogni caso, assumendo atteggiamento pragmatico allo scopo di:

(i) superare le resistenze di carattere ideologico e culturale che si fondano sul timore delle altre Regioni di disporre, vista l’ipotizzata riduzione delle risorse acquisite dallo Stato in conseguenza del funzionamento delle compartecipazioni, di minori risorse rispetto alle attuali;

(ii) far venir meno i residui dubbi in merito all’opportunità che lo Stato intervenga nell’ipotizzato caso di riduzione dei gettiti;

si potrebbe anche pensare alla destinazione di parte del surplus acquisito dalle Regioni ad autonomia differenziata secondo una quota percentuale da definirsi in sede di intesa, a un fondo perequativo orizzontale da costituirsi in forza dell’art. 119, comma 3, Cost. e da destinarsi alle Regioni a minore capacità fiscale.

Ovviamente, se a tanto si addivenisse al fine esclusivo di superare l’impasse, si dovrebbe anche prevedere che: i) tali risorse andrebbero calcolate al netto della maggiore spesa eventualmente sostenuta dalla Regione rispetto a quella riconosciuta al momento della devoluzione della funzione (altrimenti risulterebbe impossibile per la Regione investire sulla competenza ottenuta perché parte della maggiore spesa dovrebbe comunque essere devoluta al fondo); ii) nel calcolo non andrebbero considerati i risparmi di spesa, venendo altrimenti meno l’incentivo a ridurre i costi; iii) qualora la differenza tra il gettito derivante dalla compartecipazione e la spesa sia negativa e lo Stato non sia intervenuto, essa andrà, per ragioni di simmetria, computata in diminuzione delle quote da destinarsi al fondo negli anni successivi; iv) la quota da destinarsi al fondo andrebbe comunque calcolata esclusivamente sulle maggiori risorse rispetto a quelle conseguite nell’anno precedente[29].

In alternativa si potrebbe anche pensare a meccanismi che nell’intesa obblighino le Regioni che gestiscano funzioni LEP a seguito del trasferimento ad accantonare parte del surplus in modo da poter far fronte ai c.d. rainy days, se e quando essi arriveranno.

[1](*) Testo, con qualche minima modifica, della relazione depositata in occasione dell’Audizione avanti la Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica del 30 maggio 2023.

Innumerevoli sono gli esempi, ben sintetizzati nel pamphlet di Galli S.B., Autonomia, Milano, 2022, 9 s. A voler prendere il più recente, a quel che mi risulta, si potrebbe rinviare a quanto scritto dall’europarlamentare Pedicini N., Caro Zaia, l’Europa ha le sue ragioni, in Corriere del Veneto, 27 maggio 2023, laddove si definisce il D.D.L. n. 615 all’attenzione di questa Commissione come «il più grottesco e potenzialmente dannoso disegno di legge nella storia della Repubblica».

[2] Dal famoso titolo di un altro pamphlet, quello del 2019, di Viesti G., Verso la secessione dei ricchi, Roma-Bari, 2019.

[3] Antonini L., Federalismo all’italiana. Dietro le quinte della grande incompiuta, Venezia, 2013, 21.

[4] Uricchio A., Sviluppo e federalismo gentile, in Arfaras G. (a cura di), L’Italia delle autonomie alla prova del Covid 19, Milano, 2020, 135.

[5] Ha sostenuto questa tesi Viesti nell’intervista resa il 24 marzo scorso a L’identità dall’inequivocabile titolo: Il potere alle regioni. Così l’Italia diventa un Paese Arlecchino, in cui il polemista barese sostiene che «con l’autonomia di Calderoli, l’Italia diventerà un Paese arlecchino, con il parlamento tagliato fuori, un governo centrale senza poteri, tutto in mano ai presidenti delle Regioni. Un paese ridicolo, come nessuno al mondo». Analogamente Villone M., Autonomia, fermate Calderoli, in La Repubblica, 5 marzo 2023, e, anche se con toni un po’ più sobri, ma l’elencazione è tutt’altro che esaustiva, Bordignon M. – Neri F. – Rizzo L. – Secomandi R., Le attuali regioni a statuto speciale: un modello per l’autonomia differenziata?, in Osservatorio CPI, 14 marzo 2023; Galli della Loggia E., Lo Stato, l’autonomia, le Regioni e il bilancio da fare, in Corriere della Sera, 18 maggio 2023.

[6] Sul punto si è già soffermato Bertolissi M., Testi normativi e contesti istituzionali. Cose vere e meno vere a proposito dell’autonomia differenziata, Relazione presentata in occasione dell’Audizione del 23 maggio 2023 avanti a questa Commissione Affari costituzionali del Senato della Repubblica, p. 3.

[7] Astrid, L’autonomia regionale “differenziata” e la sua attuazione: questioni di procedura e di metodo, maggio 2023.

[8] Lapecorella F., Assetto della finanza territoriale e linee di sviluppo del federalismo fiscale, Audizione avanti la Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, 30 marzo 2022.

[9] Sulla fallacia di tale tesi (su cui si innesta l’affermazione secondo la quale la spesa storica danneggerebbe il Sud), Giovanardi A., La favola dei 60 miliardi di euro che ogni anno il nord sottrae al sud, in Il foglio, 8 settembre 2020; Galli G. – Gottardo G., La distribuzione della spesa pubblica per macroregioni, in www.osservatoriocpi.unicatt.it, 26 settembre 2020.

[10] E non considera invece la spesa sostenuta dalle Regioni del Nord a favore di coloro che si trasferiscono per curarsi, con la conseguenza che, pur rimanendo la spesa a carico delle Regioni di partenza, accade che la spesa sia rappresentata nei Conti Pubblici Territoriali come spesa delle Regioni di destinazione (che quindi è erroneamente gonfiata).

[11] Astrid, L’autonomia regionale “differenziata” e la sua attuazione: questioni di procedura e di metodo, cit., 25.

[12] Arachi G. – Zanardi A., La perequazione delle Regioni e degli Enti locali, in Guerra M.C. – Zanardi A. (a cura di), La finanza pubblica italiana. Rapporto 2009, Bologna, 2009, 149.

[13] Sulla sostenibilità di un assetto fondato sull’incessante trasferimento di risorse da una parte all’altra del Paese nelle gigantesche dimensioni evocate nel testo, vd., diffusamente, Giovanardi A. – Stevanato D., Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Venezia, 2020, 39 s., a cui ci si permette di rinviare anche per l’esame del dibattito sulla nozione di residuo fiscale e sulla sua importanza ai fini delle valutazioni sullo sviluppo dell’intero Paese (69 s., 120 s.). Cfr. sulla questione anche Banca d’Italia, Economie regionali. L’economia delle regioni italiane. Dinamiche recenti e aspetti strutturali, in www.bancaditalia.it/pubblicazioni/economieregionali, novembre 2018, n. 23, laddove si rileva che nel triennio 2014-2016 «i flussi redistributivi di cui ha beneficiato il Mezzogiorno, pari al 4,1 per cento su base annua (18,0 per cento in rapporto al prodotto dell’area), hanno più che recuperato il calo registrato durante gli anni della crisi: nel periodo 2008-2012 tali flussi rappresentavano rispettivamente il 3,9 per cento del PIL nazionale e il 16,8 di quello del Mezzogiorno. Il saldo di segno opposto, riconducibile al Centro Nord è stato pari al 6,4 per cento del prodotto nazionale (8,3 per cento in rapporto al PIL dell’area) dopo essere sceso al 5,8 per cento nella media del periodo 2008-2012 (7,5 per cento in rapporto al PIL dell’area)».

Si tratta di domanda, quella della sostenibilità per le Regioni settentrionali (e, quindi, per l’intero Paese) di un assetto della ripartizione che dovrebbe fondarsi su un trasferimento ancora maggiore di risorse dal Nord al Sud costantemente ignorata nel dibattito. Ne dà dimostrazione, da ultimo, Staiano S., Anti-mitopoiesi. Breve guida pratica al regionalismo differenziato con alcune premesse, in federalismi.it, 2 novembre 2022, 188 s., il quale condivide la tesi della Svimez della carenza di 60 mld di spesa pubblica al Sud, senza minimamente preoccuparsi della possibilità del Nord di subire l’ulteriore gigantesco drenaggio.

[14] Cfr. sul punto Giovanardi A., Dalla timida e incompleta attuazione del federalismo fiscale ai non riusciti tentativi di differenziazione: riflessioni in merito agli effetti dell’attuale situazione di stallo sulla sostenibilità economica degli odierni flussi di prelievo e spesa nei diversi territori, in Riv. trim. dir. trib., 2022, 1, 118-119.

[15] Vd. in argomento Buzzacchi C., La solidarietà tributaria. Funzione fiscale e principi costituzionali, Milano, 2011, 116.

[16] Cerea G., Se al Nord la scuola passa alle regioni, in lavoce.info, 29 novembre 2022.

[17] Cfr. Astrid, L’autonomia regionale “differenziata” e la sua attuazione: questioni di procedura e di metodo, cit., 16.

[18] Il Gruppo di lavoro, presieduto, come si è detto, da Beniamino Caravita, era composto dai Professori Anna Maria Poggi, Giulio M. Salerno, Federica Fabrizzi e Massimo Rubechi.

[19] Così Giovanardi A. – Stevanato D., Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, cit., 119.

[20] Relazione al D.D.L. n. 615.

[21] In tal senso, Balboni E., Il nome e la cosa. Livelli essenziali dei diritti e principio di eguaglianza, in Studi in onore di Giorgio Berti, Napoli, 2005, 300. Nello stesso senso Rivosecchi G., Autonomia finanziaria regionale e livelli essenziali ai tempi della crisi, in Buzzacchi C. – Massa M. (a cura di), Non abbiate paura delle autonomie. Scritti per Enzo Balboni, Milano, 2022, 169-170.

[22] Il commissariamento è stato di recente prorogato all’11 giugno 2023 dall’art. 2 D.L. 8 novembre 2022, n. 169.

[23] Sull’ammissibilità e sui vantaggi delle aliquote riservate vd. Giovanardi A. – Stevanato D., Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, cit., 147 s.

[24] Ne prendono atto anche Rizzo L. – Secomandi R., Effetti finanziari delle richieste di autonomia regionale: prime simulazioni, in IRPET, Osservatorio regionale sul federalismo, Nota 7, settembre 2019, 1 s.

[25] Così Viesti G., Le grandi criticità delle richieste di autonomia regionale differenziata, in Economia e società regionale, 2019, 3, 40. Condividono la tesi secondo la quale non possano derivare alla Regione ulteriori risorse senza vincolo di destinazione dalle compartecipazioni, Gallo F., I limiti del regionalismo differenziato, in Rass. trib., 2019, 2, 246; Patroni Griffi F., Regionalismo differenziato e coesione territoriale, in Regionalismo differenziato: un percorso difficile, Atti del convegno Regionalismo differenziato; opportunità e criticità, Milano, 8 ottobre 2019, in www.csfederalismo.it; Rivosecchi G., Poteri, diritti e sistema finanziario tra centro e periferia, in Riv. AIC, 2019, 3, 288.

Non lo esclude, invece, Uricchio A., Autonomia regionale tra criteri di riparto delle funzioni e perequazione finanziaria, in Pastore F. (a cura di), Il regionalismo differenziato. Atti del convegno di Cassino del 5 aprile 2019, Milano, 2019, 82.

Sorprendente, da questo punto di vista, l’intervista rilasciata al Corriere della Sera del 18 novembre 2022 dal Presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto (Niente pregiudizi, ma serve uniformità. La spesa storica danneggia il sud). Osserva Occhiuto che la Calabria produce molta energia, «in totale più di quel che consumano i calabresi. Ma la bolletta ha, in percentuale, le stesse tasse del Veneto. Perché la mia Regione non può mantenere i maggiori introiti fiscali derivanti da una maggiore produzione di energia alternativa?». Insomma, se sono le Regioni settentrionali, sottoposte da decenni a una formidabile stretta fiscale (vd. nel testo, par. 3), a chiedere di trattenere gli eventuali surplus fiscali che derivano dalle compartecipazioni, montano pesantissime polemiche sull’egoismo/cinismo dei territori del Nord; se, invece, si propone, da Sud, di tenersi parte delle imposte statali sull’energia prodotta (peraltro senza riferimento alcuno alla necessità di finanziare con le pretese risorse da trattenere sul territorio ulteriori competenze), si è di fronte, visto che nessuno dei detrattori dell’autonomia differenziata ha criticato le affermazioni di Occhiuto, a una richiesta, che non potrebbe considerarsi manifestazione di egoismo territoriale.

[26] Giovanardi A. – Stevanato D., Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, cit., 143.

[27] Lo ha evidenziato Stevanato D., Profili finanziari del regionalismo differenziato, in Economia e società regionale, 2019, 3, 108. Conforme Giovanardi A., La grande illusione? L’autonomia differenziata nel tunnel della centralizzazione statalista, in Riv. dir. trib., 2020, 4, I, 344-349.

[28] Bordignon M.- Neri F. – Rizzo L. – Secomandi R., Le attuali Regioni a statuto speciale: un modello per l’autonomia differenziata?, cit.

[29] L’ipotesi di lavoro è stata esposta da Giovanardi A., Stato di attuazione e prospettive del federalismo fiscale, anche con riferimento ai contenuti del PNRR, Audizione avanti la Commissione Parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale, Roma, 3 novembre 2021.

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