Le Sezioni Unite sulla misura dell’imposta di registro da applicare alla ricognizione di debito

Di Nicolò Zanotti -

(commento a/notes to Cass., Sez. Un., 16 marzo 2023, n. 7682)

Abstract

Le Sezioni Unite sono intervenute nel tentativo di risolvere il contrasto giurisprudenziale inerente alla corretta misura dell’imposta di registro da applicare alla ricognizione di debito ed hanno stabilito che la scrittura privata non autenticata che abbia carattere meramente ricognitivo di una situazione debitoria certa, non avendo contenuto patrimoniale, è soggetta ad imposta di registro in misura fissa solo in caso d’uso. In considerazione delle rilevanti conseguenze economiche che possono gravare sul contribuente, è da apprezzare la posizione assunta dalla Suprema Corte, che ha fatto buon governo dei principi giuridici che regolano la materia.

The United Sections on the measure of the registration tax to be applied to the recognition of debt – The United Sections have intervened in an attempt to resolve the jurisprudential conflict concerning the correct measure of the registration tax to be applied to the recognition of the debt and have established that the non-authenticated private deed that has a merely recognition nature of a certain debt situation, having no patrimonial content, is subject to a fixed amount of registration tax only in case of use. In consideration of the significant economic consequences that may weigh on the tax payer, the position taken by the Supreme Court is to be appreciated, as it has ensured good governance of the juridical principles that regulate the matter.

Sommario: 1. Premessa. – 2. Gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità. – 3. L’atto di ricognizione di debito nel diritto civile. – 4. Gli aspetti fiscali. – 5. Considerazioni conclusive

1. Con la sentenza 16 marzo 2023, n. 7682 (per un primo, breve commento a caldo nella rubrica “Recentissime dalla Cassazione Tributaria”, in questa Rivista, v. Contrino A., Ricognizione di debito e imposizione di registro: le SS.UU. sciolgono il nodo e colgono nel segno, retro, 20 aprile 2023), le Sezioni Unite hanno inteso risolvere il contrasto giurisprudenziale inerente alla corretta misura dell’imposta di registro da applicare all’atto di ricognizione di debito, che, di frequente, viene utilizzato nel procedimento monitorio per ottenere un decreto ingiuntivo, stabilendo che la scrittura privata non autenticata che abbia carattere meramente ricognitivo di una situazione debitoria certa, non avendo contenuto patrimoniale, è soggetta ad imposta fissa di registro solo in caso d’uso.

La Suprema Corte ha, altresì, precisato che il deposito di un documento a fini probatori in un procedimento contenzioso non costituisce “caso d’uso” in relazione all’art. 6 D.P.R. n. 131/1986. In considerazione del minor grado di complessità di questo secondo principio, che appare conforme al tenore letterale della norma richiamata, il prosieguo della trattazione sarà dedicato alla prima questione. Questa, infatti, assume un rilievo centrale anche per il fatto che assai spesso l’Ufficio, in mancanza di un’espressa previsione legislativa, procede a liquidare l’imposta di registro sul riconoscimento di debito oscillando arbitrariamente tra le molteplici aliquote previste dal TUR. Tale modus procedendi, da un lato rende incerta la determinazione dell’imposta che sarà dovuta al momento dell’emissione del decreto ingiuntivo; dall’altro, qualora alla tassazione proporzionale dell’atto giudiziario sia affiancata quella, ugualmente proporzionale, del sotteso atto di ricognizione, può generare conseguenze economiche anche molto onerose per il contribuente.

L’incertezza interpretativa è dipesa dal fatto che l’atto di ricognizione di debito non è specificamente richiamato nella Tariffa allegata al TUR, pertanto, a causa della sua natura controversa, sono sorti dubbi sulla categoria nella quale dovesse essere inquadrato. Il legislatore della riforma non ha, infatti, riprodotto quanto a suo tempo disposto dal previgente R.D. n. 3269/1923, il cui art. 28 della Tariffa, all. A, disciplinava espressamente la fattispecie, assoggettandola all’imposta proporzionale, con un’aliquota del 1,5%. Tale mancata menzione trova ragione nella diversa struttura che ha assunto la Tariffa, poiché con il D.P.R. n. 634/1972, al fine di garantire una semplificazione del sistema, si è preferito individuare undici macro-categorie di atti e fatti imponibili, anziché riproporre la precedente elencazione casistica delle fattispecie, suddivise in 141 articoli (Fransoni G., Il presupposto dell’imposta di registro fra tradizione ed evoluzione, in Rass. trib., 2013, 5, 968). Ne è derivato un aumento delle controversie aventi ad oggetto la corretta determinazione dell’imposizione da applicare a quelle figure (come il riconoscimento di debito) per le quali risulta difficile stabilirne l’intrinseca “natura”, difettando un chiaro approdo giurisprudenziale circa il loro oggetto e gli effetti prodotti.

2. Un primo filone giurisprudenziale (Cass. n. 24107/2014 e Cass. n. 17808/2017), a lungo condiviso anche dagli Uffici finanziari (ris. min. n. 241239/1984), ha ravvisato nella ricognizione di debito un’autonoma fonte di obbligazione e, quindi, l’ha inquadrata nel perimetro applicativo della norma residuale di cui all’art. 9, parte I, della Tariffa, che si riferisce agli “atti diversi da quelli altrove indicati aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, che scontano una tassazione proporzionale nella misura del 3%, con la registrazione dell’atto in “termine fisso”.

Siffatta interpretazione non mi pare però apprezzabile (cfr. Contrino A., Commento all’art. 3, Tariffa, parte I, allegata al d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, in Marongiu G. (a cura di), Comm. breve leggi trib. – Tomo IV, Padova, 2011, 1016 ss.; Pappa Monteforte V., La ricognizione di debito nell’imposta di registro, in Notariato, 2011, 2, 232 ss.; Puri P., Evoluzioni giurisprudenziali in tema di tassazione ai fine del registro del riconoscimento di debito, in Studio del Consiglio Nazionale del Notariato, n. 118-2018/T, 1 ss.;), poiché, da un lato, presuppone una modificazione nella sfera patrimoniale delle parti coinvolte, suscettibile di valutazione economica, che difficilmente si concilia con gli effetti prodotti da un atto di riconoscimento; dall’altro, sembra confliggere con le intenzioni del legislatore della riforma, che ha omesso qualsiasi riferimento all’operazione di ricognizione, mostrando così di voler adottare un diverso approccio rispetto al passato.

Un secondo orientamento (Cass. n. 12432/2007; Cass. n. 16829/2008; Cass. n. 3379/2020; Cass. n. 17869/2021) ha affermato che il riconoscimento di debito, enunciato nel decreto ingiuntivo, non ne condivide la natura condannatoria, anche nel caso in cui non contenga un espresso riferimento al sottostante rapporto fondamentale e, perciò, non sia possibile verificare se sia stata già versata l’imposta ad esso collegata; l’istituto andrebbe così inquadrato tra quegli atti che, pur modificando l’assetto degli interessi coinvolti, producono effetti meramente dichiarativi, da sottoporre a registrazione in “termine fisso” con aliquota dell’1%, ex art. 3 della Tariffa, parte I (Uricchio A., Commento all’art. 3 Tariffa, prima parte, T.U.R., in D’Amati N., La nuova disciplina dell’imposta di registro, Torino, 1989, 482).

Anche tale lettura non pare esente da critiche, in quanto la ricognizione possiede un valore meramente confermativo di un preesistente rapporto, già definito in tutti i suoi elementi, capace di produrre effetti esclusivamente processuali. Gli atti di “natura dichiarativa”, nelle intenzioni del legislatore tributario, sembrano, invece, essere quelli che, pur non determinando una modificazione dei profili strutturali delle situazioni giuridiche coinvolte, possono comunque produrne un’innovazione, che si esprime attraverso un rafforzamento, una specificazione o un affievolimento del precedente assetto di interessi, senza mutarne il contenuto sostanziale (Contrino A., Note sulla nozione di ‘atto di natura dichiarativa’ nel tributo di registro, in Rass. trib., 2011, 3, 663; Uckmar V. – Dominici R., Registro (imposta di), in Nov. Dig. It., XV, Torino, 1986, 584).

Tra le posizioni tese a sottoporre il riconoscimento di debito ad imposizione proporzionale, merita menzione anche un ulteriore orientamento (CTP Perugia, 7 gennaio 2010, n. 7) che, nell’intento di trovare una soluzione volta a graduare razionalmente la percentuale della tassazione, ha ritenuto che la fattispecie possa essere inquadrata nell’art. 6 della Tariffa, parte I, che applica l’imposta nella misura dello 0,50% a quelle operazioni (cessioni di crediti, compensazioni, rimessioni di debiti e quietanze) che appaiono collegate da un comune effetto economico latu sensu estintivo dell’obbligazione.

La Corte di Cassazione, infine, in alcune recenti pronunce (Cass. n. 481/2018 e Cass. n. 15268/2021), sostanzialmente condivise anche dalle Sezioni Unite, ha affermato che la ricognizione di debito sarebbe una mera “dichiarazione di scienza” (e non di “volontà”), che si limita a dare evidenza dello status quo dei rapporti giuridici già in essere, “cristallizzandoli” a livello probatorio, senza variare la realtà preesistente. La fattispecie dovrebbe, quindi, essere ricondotta all’art. 11, della Tariffa, parte I, che assoggetta ad imposta fissa gli atti “non aventi per oggetto prestazioni a contenuto patrimoniale”, in quanto non vengono in rilievo profili economici (cfr. Nastri L., L’imposta di registro e le relative agevolazioni, Milano, 1990, 604; Busani A., L’imposta di registro, Milano, 2009, 972).

3. A monte del contrasto giurisprudenziale che ha sollecitato l’intervento le Sezioni Unite, esiste l’oggettiva difficoltà dell’interprete nell’individuare la natura giuridica di un atto dai contorni oggettivamente indefiniti. Occorre, quindi, valutare attentamente le indicazioni provenienti dall’art. 1988 c.c. (Spada P., Cautio quae indiscrete loquitur: lineamenti funzionali e strutturali della promessa di pagamento, in dir. civ., 1978, I, 684), a mente del quale la ricognizione dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di dimostrare il rapporto fondamentale. Malgrado la collocazione della norma tra i negozi giuridici fonte di obbligazione, non sembra, infatti, che la previsione possa produrre effetti obbligatori, limitandosi a richiamare i concetti di onere della prova, rapporto fondamentale e prova contraria, che inducono a ritenere che la dichiarazione in esame, derogando alla regola generale dell’art. 2697 c.c., realizzi una semplice astrazione processuale priva di conseguenze sul piano sostanziale (Graziani C.A., Promessa di pagamento e ricognizione di debito, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 2; Orestano A., Le promesse unilaterali, in Trattato Cicu – Messineo, Milano, 2019, 213).

Il dibattito sulla natura giuridica della ricognizione di debito può essere, perciò, sostanzialmente ricondotto a due indirizzi fondamentali: il primo ritiene che il riconoscimento rappresenti una dichiarazione di scienza, produttiva di effetti meramente probatori rilevanti sul terreno processuale (Furno C., Promessa di pagamento e ricognizione di debito [a proposito dell’art. 1988 c.c.], in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, 113; Mirabelli G., L’atto non negoziale nel diritto privato, Napoli, 1955, 358); il secondo, lo colloca tra le manifestazioni di volontà e, più precisamente, tra i negozi di accertamento (Nicolò R., Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell’obbligazione, in Ann. Univ. Messina, Messina, 1934-1935, 384; Carnelutti F., Note sull’accertamento negoziale, in Riv. dir. proc. civ., 1940, 4). Occorre, altresì, segnalare l’opinione minoritaria (Di Majo A., Le promesse unilaterali, Milano, 1989, 109) che ravvisa nell’istituto un’autonoma fonte dell’obbligazione, produttiva di effetti costitutivi capaci di dare avvio ad un processo di relativa autonomia rispetto alla sua fonte.

Tale ultima tesi muove dal presupposto che la legge consentirebbe di degradare il rapporto fondamentale a semplice titolo giustificativo (o causa) della nuova obbligazione nascente dal negozio di riconoscimento; sicché la dichiarazione assumerebbe di per sé stessa la funzione di “fatto costitutivo” della prestazione, dotata di valore sostanziale. Questa interpretazione non sembra possa essere condivisa, poiché il riconoscimento, anche in mancanza di un riferimento al titolo costitutivo, è pur sempre caratterizzato da una struttura unilaterale che, senza nulla togliere o aggiungere, si limita a formalizzare una realtà giuridica di cui è già certa l’esistenza (Gazzoni F., Manuale di Diritto privato, Napoli, 2019, 700) e che potrà essere utilizzata a proprio favore dalla controparte, se non vi è prova della sua inesistenza o invalidità.

Maggiori consensi ha incontrato la tesi che qualifica la ricognizione come un negozio di accertamento, caratterizzato dall’efficacia dichiarativa e retroattiva (Giorgianni M., Accertamento [negozio di], in Enc. dir., I, Milano, 1958, 233); questo tipo di negozio, tuttavia, costituisce lo strumento per definire una determinata situazione giuridica preesistente o presupposta, eliminando lo stato di incertezza attraverso una dichiarazione vincolante ed irretrattabile. Il riconoscimento prescinde, invece, dalla ricorrenza di una situazione di dubbio e consente al dichiarante di sottrarsi dalle conseguenze di quanto ha costituito oggetto della propria asserzione, semplicemente fornendo la prova dell’esistenza di una sua difformità rispetto al rapporto giuridico sottostante (Minervini E., Il problema dell’individuazione del negozio di accertamento, in Rass. dir. civ., 1986, 613); la parte non è, infatti, vincolata a quanto riconosciuto in merito alla situazione iniziale. La ragione principale per cui si dubita che il riconoscimento sia un negozio (Scalisi V., Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 70) sta, quindi, nella circostanza che il debitore, riconoscendosi tale, sarà costretto ad adempiere solo se non riuscirà a provare l’inesistenza del debito. Tale dichiarazione, infatti, nulla aggiunge all’obbligazione precedente, ma riflette una regola giuridica preesistente, operando una relevatio ab onere probandi a favore del destinatario, che potrà far valere il proprio credito senza bisogno di dimostrare quale sia il titolo del rapporto e l’intento perseguito dal suo autore.

Sembra maggiormente apprezzabile, quindi, la tesi che qualifica il riconoscimento come una semplice dichiarazione di scienza, considerato che l’art. 1988 c.c., utilizzando le espressioni «dispensa dall’onere di provare» e «si presume fin a prova contraria», dimostra di aderire ad una concezione squisitamente probatoria della figura, di segno negativo (Galgano F., Il negozio giuridico, in Tratt. dir. civ. comm. Cicu – Messineo, Milano, 1988, 200); il fenomeno, infatti, non fissa né accerta in alcun modo la situazione giuridica preesistente, ma si riduce ad offrire al creditore uno strumento per giungere più facilmente alla soddisfazione del proprio credito.

L’atto ricognitivo deve, infine, essere tenuto distinto anche dalla confessione stragiudiziale di cui all’art. 2730 c.c., poiché il riconoscimento ha ad oggetto diritti e non la verità di fatti confermativi di un rapporto obbligatorio sottostante (Vomero F., Distinzione tra confessione e ricognizione del debito, in Nuova giur. civ., 2005, 3, 570). Si giustifica, quindi, la diversa efficacia processuale attribuita alla ricognizione, che può essere contestata dal debitore semplicemente dimostrando la sua non rispondenza al vero. L’accostamento alla confessione può, semmai, essere utile per contestare quell’opinione che ha tratto la natura negoziale del riconoscimento dal fatto che, nella pratica, il suo esercizio può realizzare un vero e proprio atto di disposizione, nel caso in cui contenga una dichiarazione non veritiera che non si riesca a superare con la prova contraria. Vero è, infatti, che è indiscussa la natura di dichiarazione di scienza della confessione, anche nel caso in cui questa si riferisca ad una circostanza non rispondente al vero (menzognera), che rappresenti il presupposto per ottenere una sentenza “ingiusta” (Granelli C., Confessione e ricognizione nel diritto civile, in Dig. disc. priv., sez. civ., III, Torino, 1988, 437). Altrettanto deve dirsi per il riconoscimento, poiché l’attore non ha l’onere di allegazione del rapporto fondamentale che, salvo prova contraria, si assume aprioristicamente come esistente, valido ed efficace, anche se dovesse essere stato “inventato”; non per questo si può sostenere la natura negoziale della ricognizione.

4. Alla luce della descritta inidoneità del riconoscimento a produrre effetti sostanziali, innovativi della realtà giuridica, e della connessa inclinazione ad agire solo sul piano processuale, dispensando l’attore dall’onere della prova, occorre ora chiedersi se tale fattispecie sia suscettibile di realizzare una modificazione nella sfera patrimoniale e, conseguentemente, sia espressione, quale idoneo fatto indice di forza economica, di una particolare attitudine alla contribuzione. La conformità all’art. 53 Cost. di quello che il legislatore assume essere l’effetto giuridico imponibile è attestata, infatti, dall’esistenza di un sostrato economico emergente dall’atto oggetto di registrazione (Giardina E., Le basi teoriche del principio di capacità contributiva, Milano, 1961, 439).

Invero, ai sensi dell’art. 20 D.P.R. n. 131/1986, l’applicazione dell’imposta di registro richiede di individuare il presupposto impositivo nel complessivo assetto d’interessi desumibile dall’atto presentato per la registrazione, senza che si possa attribuire rilievo alcuno agli elementi acquisiti aliunde (Fransoni G., Continua la saga dell’art. 20 dell’imposta di registro, in www.fransoni.it, 2022); e ciò rappresenta il portato dell’acceso dibattito protrattosi per anni attorno alla corretta interpretazione della suddetta previsione, poi modificata dalle Leggi di Bilancio 2018 e 2019, e dei recenti interventi della Consulta (Corte cost. n. 158/2020 e Corte cost. n. 39/2021), che hanno inteso riaffermare la sua tradizionale natura “di imposta d’atto”. Ne deriva che, nella qualificazione giuridica dell’atto sottoposto a registrazione, non è consentito rinviare a profili extra-testuali e ad atti connessi, al fine di individuarne il contenuto economico complessivo; deve, infatti, aversi riguardo agli elementi inerenti al documento da registrare, rilevando esclusivamente il suo contenuto giuridico e non anche eventuali condotte abusive, che potranno, semmai, essere contestate ai sensi dell’art. 10-bis L. n. 212/2000 (Melis G., Art. 20 del registro, ultimo atto: tra giudici piccati e pifferi di montagna, la consulta scrive il lieto fine in Dir. prat. trib., 2021, 1, II, 237).

Ebbene, anche nella determinazione della misura dell’imposta da applicare alla figura della ricognizione, non pare possibile superare in via giurisprudenziale la percepita inadeguatezza del tributo di registro, la cui struttura è rimasta praticamente immutata nel tempo. Muovendo dall’attuale impianto normativo, sembra incontestabile che questa entrata colpisca gli effetti giuridici dell’atto in sé, senza che si possano considerare gli elementi interpretativi esterni all’atto stesso. Solo qualora si riconosca alla dichiarazione rilasciata, indipendentemente dal nomem iuris adoperato, un contenuto difforme da quello meramente ricognitivo di una situazione debitoria preesistente, potrà valutarsi l’applicazione di una diversa misura dell’imposta. Ne esce confermata l’idea che la ricognizione debba essere valutata in base alla natura della dichiarazione, a prescindere dagli interessi economici oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti. Ed infatti, l’atto soggetto a registrazione deve essere scrutinato indipendentemente dalle caratteristiche del programma negoziale, verificando quali siano gli effetti giuridici che l’atto stesso è potenzialmente idoneo a produrre e che, come sopra dimostrato, consistono nella dispensa del creditore dall’onere di provare il rapporto fondamentale. Tali effetti devono poi essere qualificati, al fine di ricondurli ad uno dei “tipi” delle voci di Tariffa, nel cui alveo sono ricomprese le varie categorie di atti.

Tanto premesso, sembra senz’altro da escludere l’applicazione diretta della disciplina di cui all’art. 22 TUR, inerente all’enunciazione di atti scritti e contratti verbali, in quanto essa rappresenta sostanzialmente una misura di contrasto all’elusione, per il caso in cui i contraenti richiamino all’interno di un atto successivo disposizioni contenute nel cosiddetto “atto enunciato” che, pur essendo già stato concluso, non è stato registrato (Busani A., La ‘enunciazione’ di atti scritti e contratti verbali, in Dir. prat. trib., 2019, 3, 1379 ss.). Gli atti cui si riferisce la ricognizione sono, invece, (o almeno avrebbero dovuto essere) già stati sottoposti ad imposta; se non lo sono stati, non è attraverso l’applicazione dell’art. 22 TUR che è possibile risolvere la questione, in quanto la norma attiene all’imposizione dell’atto enunciato (il titolo costitutivo dell’obbligazione) e non di quello enunciante (la ricognizione) che, come dimostrato, rappresenta una dichiarazione di scienza e, come tale, non prevede la presenza dell’altra parte del rapporto fondamentale sottostante, in mancanza della quale l’enunciazione degrada a semplice riferimento al titolo originario, fiscalmente irrilevante.

Muovendo dalla suddetta qualificazione giuridica della ricognizione di debito, occorre quindi verificare l’applicabilità del citato art. 3, parte I, della Tariffa, che deve intendersi riferito a quegli atti che producono “effetti” dichiarativi; e, al riguardo, si ricorda come gli atti meramente ricognitivi non sono in grado di porre fine allo stato d’incertezza sulla portata o sull’esistenza del rapporto giuridico fondamentale. Gli atti con effetti dichiarativi, invece, pur senza intervenire sulla struttura e sul contenuto sostanziale della situazione preesistente, comportano comunque una trasformazione del suo stato giuridico, specificando il diritto che ne è oggetto o eliminando lo stato di incertezza (Falzea V., Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, 494).

Una conferma indiretta del fatto che sembri più corretto applicare alla ricognizione di debito l’imposta fissa di registro potrebbe rintracciarsi nell’art. 30, comma 1, TUR, che rappresenta una norma di carattere generale volta ad evitare effetti di doppia imposizione per una serie di figure (ratifica, convalida e conferma) che presentano la comune caratteristica di intervenire su di un precedente negozio che ha già scontato il tributo. Questa previsione può, quindi, considerarsi sintomatica dell’esigenza che l’imposta di registro sia applicata in misura fissa a tutti quegli atti che rappresentano un duplicato di un atto precedente, confermandone i suoi effetti (Contrino A., Gli atti “innominati” a contenuto patrimoniale nell’imposizione di registro: profili ricostruttivi, in Riv. dir. trib., 2019, 2, I, 170), così come si verifica per la ricognizione di debito.

Un secondo elemento a supporto di tale ricostruzione può essere individuato nella ratio sottesa alla Tariffa allegata al TUR che, in conformità al principio di capacità contributiva, esprime una gerarchia tra le varie categorie di atti oggetto d’imposizione, graduando razionalmente la percentuale delle aliquote applicate in forza della manifestazione di ricchezza rivelata dagli effetti giuridici prodotti dall’atto sottoposto a registrazione (Contrino A., Note sulla nozione di ‘atto di natura dichiarativa’ nel tributo di registro, cit., 663). Risulta così giustificabile il diverso regime impositivo tra gli atti con effetti dichiarativi, capaci di rafforzare, affievolire o specificare una situazione preesistente e, perciò, in qualche modo di trasformarla, e quelli meramente ricognitivi che, generando effetti squisitamente probatori, si limitano a riprodurla e certificarla, senza nulla aggiungere o togliere. Proprio in forza di questa gerarchia, può ritenersi, quindi, che, se alla rimessione del debito, che rappresenta un fatto estintivo dell’obbligazione diverso dall’adempimento, l’art. 6, della Tariffa, parte I, applica l’aliquota dell’0,50%, non sia adeguatamente proporzionata un’imposizione maggiore per una figura (la ricognizione di debito) che ha ugualmente ad oggetto la regolamentazione dei reciproci rapporti di debito/credito, in assenza di un incremento patrimoniale.

Seguendo un criterio di omogeneità tra gli atti sussumibili nelle singole voci di Tariffa, si potrebbe, semmai, tentare di equiparare l’imposizione dell’atto di ricognizione a quella inerente al rilascio della quietanza, alla quale il citato art. 6 applica l’aliquota dello 0,50%. Sul piano sostanziale, sembra, infatti, che possano, per molti versi, essere assimilati gli effetti giuridici prodotti dai due tipi di atti, rappresentando anche la quietanza una dichiarazione di scienza con la quale il creditore attesta l’avvenuto pagamento di un’obbligazione e, per l’effetto, agevola il solvens sul piano della prova dell’adempimento (Chessa C., L’adempimento, Milano, 1996, 153).

5. La dichiarazione con carattere realmente ricognitivo pare, quindi, possa essere inquadrata in quella voce di Tariffa, con funzione residuale, che contempla gli atti non aventi prestazioni a contenuto patrimoniale, limitandosi a cristallizzare, a livello probatorio, rapporti giuridici già esistenti. Sembrano da respingere quelle interpretazioni che intendono applicare una tassazione proporzionale, in quanto si andrebbe a realizzare una duplicazione dell’imposizione rispetto al precedente atto riconosciuto. Basandosi sugli effetti giuridici prodotti dal riconoscimento e nonostante l’abbandono della c.d. “analogia” di Tariffa, potrebbe, semmai, valutarsi un’equiparazione con la percentuale d’imposizione minima prevista per la quietanza, avente eadem ratio, trattandosi anche in questo caso di una dichiarazione attraverso la quale il soggetto afferma la propria consapevolezza in ordine ad una situazione a sé sfavorevole.

Quanto detto rende per molti versi irrilevante il fatto che, se il rapporto fondamentale rientra nel campo di applicazione dell’IVA, la dichiarazione ricognitiva sarà comunque da tassare in misura fissa, in ossequio al principio di alternatività iva-registro, previsto dall’art. 40 TUR (Fedele A., Appunti in tema di alternatività IVA-registro, in Riv. dir. trib., 2021, 6, I, 479). I discordanti precedenti giurisprudenziali intervenuti in argomento confermano comunque l’incertezza che ha caratterizzato il regime impositivo applicabile, ai fini del registro, alla ricognizione del debito, quando il rapporto fondamentale non è soggetto ad IVA. In considerazione delle rilevanti conseguenze economiche che possono gravare sul contribuente, soprattutto nell’ipotesi in cui sia costretto ad azionare il riconoscimento in sede monitoria, è perciò da apprezzare la posizione assunta dalle Sezioni Unite, che hanno fatto buon governo dei principi giuridici che regolano la materia.

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