RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA – Cass., 12 gennaio 2023, n. 661 – Liberalità dissimulate in accordi transattivi e indeducibilità del costo

Di Francesco Farri -

Remissioni di debito o liberalità dissimulate in accordi transattivi d’impresa e inesistenza del nesso funzionale di deducibilità del relativo costo (*)

 

 

La massima della Suprema Corte

Le somme versate per coprire i costi delle transazioni stipulate al fine di prevenire contenziosi giudiziari sono deducibili come sopravvenienze passive, nell’esercizio in cui intervengono, trattandosi di componenti negativi attinenti al concreto svolgimento dell’attività di impresa a titolo di responsabilità contrattuale o precontrattuale e, dunque, inerenti ai sensi dell’art. 109, comma 5, TUIR. Tuttavia, laddove il contratto di transazione debba essere riqualificato come una mera remissione di debito da parte del creditore, o altra forma di liberalità, la spesa sostenuta (o altro componente negativo maturato) perde il collegamento funzionale con l’attività d’impresa dell’erogante, si traduce in una disposizione di reddito e, come tale, risulta indeducibile.

 

Il (tentativo di) dialogo

Negli ultimi anni si sono registrati orientamenti discordanti nell’ambito della giurisprudenza della Sezione tributaria della Suprema Corte in merito alla deducibilità o meno dei costi sostenuti da una società per transigere controversie in cui detta società veniva tacciata di inadempimenti contrattuali o responsabilità per fatti avvenuti nell’esercizio dell’impresa.

In base a un primo orientamento (Cass., sez. trib., 5 novembre 2019, n. 28355), tali costi devono ritenersi deducibili come sopravvenienze passive, essendo l’inerenza garantita dall’appartenenza del relativo fatto generatore alla dinamica dell’attività d’impresa e dall’utilità della corrispondente spesa, non foss’altro perché limitativa di maggiori, possibili costi. Secondo un altro orientamento (Cass., sez. trib., 8 giugno 2021, n. 15932; Cass., sez. trib., 5 novembre 2021, n. 31930), il carattere antigiuridico del fatto generatore delle richieste oggetto poi dell’accordo transattivo spezzerebbe, in sé, il collegamento con la sfera imprenditoriale, precludendo alla radice la deducibilità del costo.

La sentenza in commento si inserisce in modo originale nel dibattito: essa, infatti, aderisce al primo orientamento, che puntualmente richiama in motivazione, ma giunge ugualmente alla negazione dell’inerenza per il fatto che nell’ipotesi vagliata la transazione doveva ritenersi simulata e dissimulante una mera remissione del debito o altra liberalità, con l’effetto di atteggiarsi ad atto di mera disposizione di reddito, come tale indeducibile.

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La soluzione fornita dalla sentenza al caso oggetto di giudizio deve ritenersi condivisibile per un duplice e concorrente ordini di ragioni, al di là di alcune imperfezioni nel tessuto motivazionale.

In primo luogo, è condivisibile la scelta di aderire al primo degli orientamenti sopra tratteggiati, ossia a quello secondo cui i costi sostenuti da una società per adempiere una transazione devono ritenersi inerenti e deducibili. Invero, la circostanza che il fatto generatore del costo abbia una colorazione illecita non ne fa venir meno l’inserimento nella dinamica di svolgimento dell’attività d’impresa, come d’altronde testimonia l’art. 14 L. n. 537/1993, che soltanto per i costi correlati ad alcune tipologie di illeciti penali nega la deducibilità, con ciò affermando chiaramente a contrariis che negli altri casi i costi dovranno ritenersi ordinariamente deducibili (per una più compiuta dimostrazione di questo assunto, sia consentito rinviare al mio Pagamento transattivo di somme per il risarcimento di illeciti civili e inerenza del relativo costo all’attività d’impresa, in Riv. dir. trib., 2023, 2, II, 54 ss. nonché, e prima, a Zizzo G., Il lato oscuro dell’impresa e l’inerenza degli oneri, in Riv. dott. comm. (online), 2022, 1, 129 ss.).

In secondo luogo, la soluzione cui la sentenza giunge è condivisibile perché ha tratto dal suddetto orientamento conseguenze razionali in un caso peculiare, ossia quello della simulazione relativa oggettiva. Invero, in una delle transazioni si indicava la causa della rinuncia della società sportiva a una parte dei canoni di locazione, che avrebbe avuto titolo a riscuotere da altra società collegata, nel fatto che l’immobile avrebbe presentato dei vizi, dei quali tuttavia nessun altro atto circolato tra le parti dava conto e che mai erano stati dimostrati. Nell’altra transazione, la rinuncia parziale al credito da parte della società accertata si collegava alla presunta necessità di indennizzare controparte per il sostenimento di oneri maggiori del previsto nello svolgimento dell’attività dedotta in contratto, senza tuttavia specificare di quali oneri si trattasse ed evidenziando, anzi, l’esigenza di sovvenire alle esigenze della società collegata in un momento di difficoltà finanziaria della stessa.

Risulta, quindi, chiaro che i rapporti di cui si discute fossero privi della causa della transazione (art. 1965 c.c.) e dovessero essere riqualificati come remissione del debito o altre liberalità.

Unica sbavatura della sentenza, se si vuol essere pignoli, è non aver sviluppato fino in fondo questo ragionamento: nella motivazione, infatti, non si parla mai simulazione e ci si appella a un concetto di “certezza” dei costi appare fuor d’opera, poiché non risulta messa in dubbio la certezza del componente negativo in quanto tale, quanto piuttosto quella del presunto debito risarcitorio che l’erogazione sarebbe andata a transigere: ma non è questo il senso del richiamo al concetto di “certezza” dei costi operato dall’art. 109 TUIR.

In questo contesto, la sentenza, pur con una motivazione non del tutto compiuta, è comunque giunta al risultato corretto, poiché ha ritenuto che, laddove la transazione debba ritenersi simulata, il regime fiscale dei costi sostenuti a fronte di essa non andrà determinato in rapporto al contratto simulato di transazione, bensì in base al contratto dissimulato effettivamente posto in essere tra le parti. E, nel caso esaminato dalla Suprema Corte, il componente negativo maturato in base al contratto dissimulato, ossia il frutto di una liberalità, doveva ritenersi a tutti gli effetti indeducibile, costituendo atto di disposizione di reddito per la quale non solo non veniva provata l’utilità per l’impresa erogante, ma neppure un possibile riflesso positivo per essa in termini d’immagine. Una semplice remissione parziale del debito, dunque, senza alcuna utilità per il creditore.

Da una prospettiva schiettamente civilistica, si tratta di un’applicazione in materia di imposte sul reddito dei principi di cui agli artt. 1414 e 1415 c.c., secondo cui «i terzi possono far valere la simulazione in confronto delle parti, quando essa pregiudica i loro diritti». E siccome tra i diritti dei terzi possono agevolmente essere ricompresi anche quelli dell’Amministrazione finanziaria alla riscossione dei propri crediti tributari, risulta agevole dimostrare la possibilità per il Fisco di far valere la simulazione anche a prescindere da regole specifiche (quali l’art. 37, comma 3, D.P.R. n. 600/1973 per la simulazione soggettiva relativa in materia di imposte sui redditi, oppure l’art. 20 D.P.R. n. 131/1986 in materia di qualificazione del contratto ai fini dell’imposta di registro). Ciò senza alcun bisogno di evocare forme di inopponibilità derivanti da elusione o abuso del diritto.

D’altronde, il “far valere la simulazione nei confronti delle parti”, cui opera riferimento l’art. 1415 c.c., non implica affatto la necessità di una declaratoria giudiziaria della simulazione, ben potendo essa essere contestata ed eventualmente riconosciuta anche sul piano stragiudiziale. Ciò che all’Amministrazione finanziaria sembra correttamente consentito fare in sede di avviso di accertamento, salvo controllo giurisdizionale, possibile di fronte al giudice tributario alla luce del potere che gli spetta di cognizione e risoluzione in via incidentale di ogni questione pregiudiziale eccetto quelle di stato delle persone e querela di falso (art. 2, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992).

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Dalla lettura della sentenza in commento sorge l’auspicio che la Cassazione abbia definitivamente abbandonato l’idea che i costi sostenuti per far fronte a una transazione siano indeducibili perché derivanti da un prospettato illecito civile da parte dell’impresa. Sorge l’auspicio, in altre parole, che sia stato definitivamente superato all’interno della stessa Sezione tributaria, senza bisogno dell’invocazione delle Sezioni Unite, l’orientamento esternato da Cass., n. 15932/2021 e n. 31930/2021.

Da questo primario auspicio, due ulteriori ne discendono.

Il primo è che l’orientamento in esame venga tenuto saldo, non soltanto laddove il recupero erariale possa comunque essere salvaguardato per altre ragioni, come correttamente avvenuto nel caso di specie, ma anche laddove da esso discenda che il recupero erariale debba considerarsi infondato, come avviene nella generalità e fisiologia dei casi di costi da transazione.

Il secondo auspicio è che le eccezioni alla regola generale vengano individuate con ragionevolezza da parte della giurisprudenza. La simulazione della transazione è, infatti, un caso estremo e non bisogna sindacare in questa prospettiva ogni transazione per giudicare se e quanto sia concreto il rischio di un pregiudizio da parte dell’impresa che vi addiviene.

Al di fuori dei casi di radicale insussistenza di tale rischio, come quella che emerge nelle vicende decise dalla Cassazione nella sentenza in commento, sarà infatti l’imprenditore nella sua insindacabile discrezionalità a giudicare l’esistenza di un rischio di contenzioso, a ponderare gli effetti che da esso possono derivarne e a trarne le conseguenze in termini di possibili concessioni alle controparti. In questa prospettiva, come già segnalato, è fuorviante il riferimento operato dalla sentenza al criterio della “certezza” del costo, mentre il ragionamento deve essere compiuto in termini giuridici confermando che solo a fronte di una oggettiva simulazione il regime fiscale proprio della transazione (deducibilità degli elementi negativi che da essa discendono) debba essere superato a vantaggio del regime fiscale proprio del contratto dissimulato.

FRANCESCO FARRI

(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.

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