IL PUNTO SU…   La nuova testimonianza nel processo tributario: un passo verso il giusto processo?

Di Simone Demoro -

A. Un fondamentale quesito di cui è stato investito il legislatore tributario nelle ultime decadi ha avuto per oggetto una scelta inter contraria: decidere di porre quale architrave del sistema la riscossione del tributo, talvolta esasperandolo sino a permettere dei restringimenti della sfera giuridica del contribuente, oppure scegliere una via tortuosa e poco battuta, quella della riscossione del giusto tributo (cfr. Marcheselli A. – Dominici R., Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, Torino, 2016), cioè quello che viene esatto rispettando i principi ed i diritti sanciti a livello nazionale e sovranazionale.

Un tradizionale punto di frizione è stato rappresentato dal diritto alla prova in sede giurisdizionale e, in questo ambito, dal problema della preclusione della prova testimoniale.

 

B. Il punto di partenza quindi non può che essere il fatto che l’art. 7, comma 4, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 precludesse tale prova.

E’ noto che la disposizione nasceva con la volontà di assicurare la natura marcatamente inquisitoria, scritta e documentale del processo tributario, dal momento che la testimonianza – intesa quale dichiarazione assunta in contraddittorio dinnanzi ad un giudice terzo ed imparziale – meglio rappresenta il carattere orale del giudizio.

Una previsione del genere, però, supportata da una ratio non così tanto granitica, porgeva il fianco ad una pluralità di critiche.

Un primo e lampante biasimo veniva dal fatto che già dal 2009 la disposizione potesse considerarsi arretrata, dal momento che in quell’anno, con la L. 18 giugno 2009, n. 69 il legislatore aveva introdotto nel processo civile (!) la possibilità di utilizzare la testimonianza scritta ex art. 257-bis c.p.c.

Un secondo ordine di considerazioni negative sulla preclusione poi proveniva dallo stesso impianto normativo del processo tributario, dal momento che norme quali quella contenuta nell’art. 32, n. 8-bis), D.P.R. n. 600/1973, consentono all’Amministrazione «invitare ogni altro soggetto ad esibire o trasmettere, anche in copia fotostatica, atti o documenti fiscalmente rilevanti concernenti specifici rapporti intrattenuti con il contribuente e a fornire i chiarimenti relativi». La critica in questo caso è figlia puramente della logica: perché vietare la testimonianza quando in fase procedimentale è invece consentito all’Amministrazione raccogliere le dichiarazioni di soggetti terzi, dichiarazioni che poi potrebbero essere usate contro il contribuente in sede processuale?

Un altro importante filone critico derivava da un atteggiamento elusivo della preclusione, tenuto dall’Amministrazione: essa infatti sfruttava nei giudizi le verbalizzazioni della Guardia di Finanza, le quali potevano essere la trascrizione di dichiarazioni rese sia da soggetti terzi sia dallo stesso contribuente.

Quest’ultimo aspetto in particolare ha dato luogo ad un giudizio di legittimità costituzionale avente per oggetto l’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 546/1992, ritenuto in contrasto con gli artt. 3, 24 e 53 Cost.: nella celeberrima sentenza n. 18/2000 (Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18), la Consulta aveva asserito come «il divieto di prova testimoniale (…) non possa collidere con il principio di “parità delle armi”».

Le statuizioni della Suprema Corte muovevano dalla basilare (e criticabile) considerazione che non fosse costituzionalmente rilevante la sussistenza di un’identità di forme tra i tipi processuali. Se però è vero che delle lontananze nella forma dei riti sono non solo necessarie, ma anche fisiologiche, è allo stesso modo vero che proprio al momento della pronuncia della sentenza era già da un anno in vigore il nuovo art. 111 Cost., che al primo comma recita: «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», che si riferisce letteralmente ad “ogni processo’’ avente carattere giurisdizionale e, quindi, anche a quello tributario (come afferma Gallo F., Verso un ‘giusto processo’ tributario, in Rass. trib., 2003, 1, 11).

La Consulta, inoltre, posta dinnanzi al bivio tra riconoscere l’illegittimità della preclusione della testimonianza o di difenderlo graniticamente, aveva optato per una soluzione “ibrida”, mantenendo l’esclusione, ma temprandola con la possibilità di utilizzare «le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’amministrazione finanziaria a carico del contribuente», non essendo ciò, ad avviso della Corte, «in contrasto né con il principio di eguaglianza né con il diritto di difesa del contribuente medesimo». Il giudice delle leggi, compiendo tale scelta, ha permesso un restringimento del principio della parità delle parti processuali – ammettendo le sole dichiarazioni rese dai terzi «eventualmente raccolte dall’Amministrazione» – ritenendo però che tale sacrificio potesse essere controbilanciato dal riconoscimento di un peso probatorio inferiore – ingiustificato – delle stesse.

Successivamente è nato un filone interpretativo nella giurisprudenza di Cassazione che ha tentato di “correggere” le statuizioni della Corte Costituzionale.

In particolare, con la sentenza 21 aprile 2008, n. 10261, i giudici di legittimità hanno avuto il coraggio di seguire una strada precisa e priva di contraddizioni, basata sull’assunto per cui dette dichiarazioni «in forza del principio di parità delle parti, ben possono essere prodotte in giudizio dal contribuente» (Corte di Cassazione, sent. 21 aprile 2008, n. 10261), asserendo quindi che queste debbano avere il «medesimo valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione finanziaria, cioè quello proprio degli elementi indiziari», creando così una spaccatura tra la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità.

L’impostazione della Corte di Cassazione gode, rispetto a quella della Consulta, di una maggiore sensibilità rispetto al già citato art. 111 Cost., poiché, come affermato, «il riconoscimento per il contribuente di godere dello stesso potere di cui gode l’Ufficio (…) rappresenta la concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 Cost., per garantire il principio della parità delle armi processuali nonché l’effettività del diritto di difesa» (Cass., sez trib., n. 18065/2016).

L’affermata preclusione generava, poi, delle frizioni rispetto alla giurisprudenza CEDU, contrastando con quanto sancito dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella sentenza “Jussila” (CEDU, 23 novembre 2006, Jussila v. Finlandia): nel caso vagliato la Corte infatti aveva individuato quale discrimen di legittimità dei divieti probatori il fatto che da essi non potesse derivare “un grave pregiudizio” per il contribuente.

Considerando il cospicuo numero di ricorsi per Cassazione fondati (quantomeno principalmente) sulla richiesta del contribuente stesso di ammettere nel quadro probatorio le dichiarazioni dei terzi, può pacificamente affermarsi che nel nostro ordinamento tributario la preclusione della testimonianza rappresenti un cristallino impedimento per il contribuente di condurre nel processo informazioni e conoscenze per esso fondamentali.

Se le affermazioni della Corte di Strasburgo appaiono granitiche e vincolanti per il nostro ordinamento, le corti domestiche mantengono un atteggiamento restio nei loro confronti (come denunciato, ex plurimis, da Buffa F., I rapporti tra sistema tributario domestico e CEDU, relazione del 18 maggio 2017 alla Corte Costituzionale in Roma, all’incontro di studio per magistrati tributari, organizzato dal Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria; Marcheselli A. – Dominici R., Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, cit.; Chiarizia G. – Giuliani F., Diritto tributario, CEDU e diritti fondamentali dell’U.E. Incidenza e applicazioni pratiche, Milano, 2017), sebbene «la Convenzione debba applicarsi anche alle liti tributarie, anche come conseguenza del fatto che le norme della CEDU riguardano pure il diritto tributario sostanziale» (così, Tesauro F., Scritti scelti di diritto tributario, Torino, 2022, 47).

In definitiva, si era in presenza di una preclusione da considerarsi come un residuo storico che aveva resistito all’usura del tempo (sul punto, Russo P., Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 2000, 2, 375), che, nella sostanza, era stato “aggirato” da un’interpretazione limacciosa della Corte Costituzionale, corretta dalla Cassazione per far sì che non fosse svilito il principio della “parità delle armi”, rimanendo comunque incapace di soddisfare i dettami dell’art. 6 della Convenzione, come interpretata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

 

C. La L. 31 agosto 2022, n. 130 ha previsto all’art. 4, comma 1, lett. c) che: «all’articolo 7, il comma 4 è sostituito dal seguente: 4. Non è ammesso il giuramento. La corte di giustizia tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme di cui all’articolo 257-bis del codice di procedura civile. Nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale».

È preliminarmente doveroso riconoscere al legislatore il merito di aver avvicinato la disciplina vigente al modello del “giusto processo”, permettendo l’ingresso di questo mezzo istruttorio nel contenzioso tributario.

Per quanto riguarda l’iter procedurale per l’assunzione della testimonianza, si attinge mediante richiamo all’art. 257-bis c.p.c., per cui la Corte di giustizia tributaria, una volta ammessa la prova, potrà «disporre di assumere la deposizione chiedendo al testimone, anche nelle ipotesi di cui all’art. 203, di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato».

Regnano, tuttavia, il silenzio e la confusione sul momentum in cui ciò dovrà avvenire, in quanto lo stesso art. 7, che si occupa lacunosamente della fase istruttoria del processo tributario, nulla dice circa il fatto che venga nominato un giudice istruttore o che vi sia un’udienza ad hoc per l’assunzione delle prove: seguendo il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit, si può giungere alla conclusione che questa dovrà avvenire nell’unica udienza prevista per il processo ordinario.

Con riguardo alla disponibilità della prova, sono in molti – e autorevoli – a ritenere che il potere istruttorio del giudice tributario possa spingersi persino all’assunzione della testimonianza ex officio (cfr. Glendi C., Prova testimoniale scritta nel processo tributario riformato: quali confini applicativi?, consultabile in ipsoa.it, 14 ottobre 2022).

Sembrano, tuttavia, esserci due dati contrari all’esistenza di un potere di tal fatta.

Un primo dato è di carattere sistematico: se nel processo tributario – sulla base della clausola generale di cui all’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992 –  si applicano «per quanto compatibili, le norme del codice di procedura civile», allora vige incontrastato l’art. 112 c.p.c., in ossequio al quale «salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti». Non sembra, allora, possibile per la Corte invocare un testimone, posto che lo stesso art. 7 legittima i poteri istruttori del giudice tributario limitatamente «ai fatti dedotti dalle parti», senza possibilità di svolgere indagini al fine di ricercare fatti non dedotti dall’Amministrazione finanziaria e porli a sostegno dell’atto impositivo in luogo di quelli su cui l’atto è fondato (Lombardo L., Le prove nel processo tributario, consultabile in www.giustizia-tributaria.it, 22 ottobre 2016). Il secondo dato è di stampo letterale, e lo si ricava direttamente dal testo della disposizione modificata: se si afferma che «può ammettere la prova testimoniale», la soluzione dovrebbe essere nel senso che ia un potere delle parti promuovere l’assunzione della testimonianza, rispetto alla quale la Corte potrà compiere solamente un vaglio di ammissibilità.

Meritano una riflessione i due limiti che il legislatore ha voluto porre all’ammissibilità della prova, uno di carattere oggettivo e uno di carattere processuale.

Il primo – posto dal nuovo comma 4 dell’art. 7 – riguarda l’oggetto della testimonianza, stabilendosi che essa non può essere utilizzata per asserire il contrario di quanto contenuto in un atto di un pubblico ufficiale, per il semplice motivo che è necessaria una querela di falso.

S’immagini che venga prodotto dall’Amministrazione un processo verbale di constatazione, in cui il pubblico ufficiale riferisce che sia stato ritrovato un documento capace di dimostrare l’evasione del contribuente. Se, come ante riforma, il verbale risulta essere dotato ex art. 2700 c.c. di quella “prova piena” circa il fatto che il documento sia stato rinvenuto dallo stesso, essa non è in grado di abbracciare il testo del documento ivi contenuto. Ed è proprio a questo punto che irrompe la novità: se prima il testo del documento (e non del PVC) era contestabile con un limitato novero di mezzi istruttori, tra essi oggi si può invece finalmente considerare anche la testimonianza.

Il secondo limite invece, cioè quello di natura processuale, riguarda la “necessità” della prova testimoniale.

Osservando la littera legis della disposizione, si può notare come questa risulti essere totalmente identica a quella utilizzata dal legislatore per l’art. 58 D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 536, rubricato “Nuove prove in appello”.

Tale corrispondenza lessicale potrebbe permettere – senza particolari problemi – di fruire delle considerazioni effettuate da dottrina e giurisprudenza sull’art. 58, traslandole ed applicandole al novellato comma 4 dell’art. 7.

Tuttavia già in merito all’art. 58 erano emerse posizioni contrastanti, in particolare tra chi riteneva che la disposizione – avendo il legislatore delegato utilizzato il termine “necessità” anziché “indispensabilità”, presente invece nell’omologa norma per il processo civile – «avesse sì inteso porre una limitazione, ma al contempo l’abbia voluta, mitigare, attribuendo al giudice d’appello tributario un margine di manovra più ampio rispetto a quello ordinario o del lavoro» (Pistolesi F., L’appello nel processo tributario, Torino, 2002, 335), mentre altra parte della dottrina riteneva che l’attributo della necessità postulasse la possibilità di ammettere prove nuove solamente laddove «il giudice sarebbe altrimenti stato costretto a ricorrere alla regola del giudizio fondata sull’onere della prova (…) considerando dunque gli aggettivi “necessaria” e “indispensabile” come equivalenti» (Santi Di Paola N., a cura di, Contenzioso tributario, Rimini, 2009, 1318).

Tale contrasto interpretativo si è poi tramandato al nuovo comma 4 dell’art. 7: la dottrina maggioritaria ritiene, infatti, che tale nozione vada interpretata nel senso di collocare la testimonianza quale extrema ratio nel caso in cui essa «sia l’unica idonea a dirimere l’incertezza sui fatti decisivi per risolvere la lite» (Pistolesi F., La testimonianza scritta nel processo tributario riformato, consultabile in www.giustiziainsieme.it, 29 settembre 2022).

In questo contesto, potrebbe essere utile tentare di definire a livello puramente logico-lessicale la nozione di “prova necessaria”.

In negativo, è scontato escludere dal novero delle prove necessarie quelle che non portano nulla di nuovo a un quadro probatorio già specificamente definito (quelle che potrebbero appellarsi come “superflue”) e quelle che vertono su circostanze che nulla hanno a che fare con l’oggetto del giudizio (che potrebbero essere definite come “irrilevanti”).

In positivo, una prima domanda da porsi è se la necessità della prova vada intesa in senso stretto, cioè se la prova sia necessaria al punto tale che in sua assenza il giudice non possa pervenire ad una decisione.

La risposta a questo interrogativo deve essere negativa, essendo pacifica la presenza nel processo tributario del principio della disponibilità delle prove in capo alle parti e, soprattutto, dell’onere della prova: il giudice sarebbe in grado di pervenire a un provvedimento decisorio valido anche qualora non vi fosse alcuna allegazione, poiché la parte gravata dall’onus probandi che non allega dev’essere dichiarata soccombente. Si può allora tranchant escludere il fatto che per “necessità” della prova debba intendersi una necessità in senso stretto.

Una seconda domanda è, poi, se la necessità della prova vada intesa come una sua capacità intrinseca di risoluzione di un quadro probatorio incerto.

Secondo i primi commenti, la «nuova formulazione del comma 4 attribuisce alla prova testimoniale un carattere di eccezionalità» (Stancati G. – Attardi C. – Dal Corso G. – Nobile L. – Renda A., La riforma introduce la prova testimoniale nel processo tributario, consultabile in www.ipsoa.it, 5 ottobre 2022), per cui la testimonianza dovrebbe essere ammessa solamente laddove il quadro probatorio non sia chiaro. Ma se così fosse, in un qualunque caso in cui sia presente non solo un quadro probatorio cristallino, ma addirittura un convincimento del giudice già formatosi, non dovrebbe essere ammessa la prova testimoniale (potenzialmente) atta a un ribaltamento dello stesso? E una prova di tal peso non dovrebbe essere considerata come necessaria ai fini del giudizio?

Ragionando in termini generali, sembra doversi concludere che una prova può intendersi come “necessaria” nel momento in cui risulti utile ai fini del giudizio, e cioè ogniqualvolta sia idonea a determinare una modificazione del quadro probatorio, indipendentemente dal fatto che il convincimento del giudice si sia già formato o meno. Pervenire, infatti, alla soluzione che la testimonianza possa essere utilizzata solamente laddove «essa sia considerata indispensabile per dirimere la controversia» (così, Pellecchia I. – Nizza L., Prova testimoniale nel processo tributario: limiti e prospettive, in www.dirittobancario.it, 4 novembre 2022), rischia di attribuire allo strumento introdotto il ruolo di extrema ratio e di svilirne totalmente la portata innovatrice.

 

D. Alla luce delle considerazioni effettuate, è possibile trarre conclusioni tra loro speculari circa il ruolo della nuova testimonianza nel processo tributario.

Da un lato, infatti, può essere letto come manifesto del fatto che il destino del processo tributario non possa essere altro che quello di avvicinarsi sempre più al modello ideale del “giusto processo”, cioè – si perdoni la ripetizione – arrivare ad una “processualizzazione” massima del rito tributario, per mettere tutte le parti su di un perfetto piano di parità (Villani M., Progetto di legge di mini riforma del processo tributario, in Tribuna Finanziaria, 2022, 4/5, 26). Allo stesso tempo, però, sembra che la legislazione tributaria non abbia il coraggio di andare a fondo nelle questioni: perché riconoscere la possibilità di fruire della prova testimoniale, senza poi prevedere un’udienza ad hoc nella quale assumerla?

Comune all’atteggiamento conservativo del legislatore è quello della dottrina, che aprioristicamente arriva ad attribuire all’istituto una portata applicativa minore di quella che in realtà possiede.

La L. n. 130/2022 va quindi presa in considerazione come un intervento di riforma estremamente efficace o come l’ennesimo provvedimento “zoppo”?

La risposta dipende dal punto di vista di osservazione.

Se, infatti, si prendono in considerazione gli aspetti ideali che essa contiene, e cioè la riforma del giudice tributario (divenuto finalmente un giudice professionale e capace di soddisfare i canoni europei) e quella della testimonianza (valorizzandone il requisito della necessità nel senso di riconoscerlo come sussistente ogniqualvolta essa possa portare un elemento conoscitivo ulteriore, indipendentemente dalla chiarezza e coerenza del quadro probatorio, e utile ai fini del giudizio), la legge può allora essere vista come la prima pietra per costruire il nuovo tempio del giusto processo tributario. Se, invece, la si osserva dalla vetusta prospettiva del processo tributario come processo inquisitorio, puramente cartolare e restio ad un’evoluzione che lo avvicini agli omologhi civili e penali, la legge rischia allora di essere l’ennesima pietra di una cattedrale nel deserto.

Ad oggi resta ancora ancestrale il desiderio di vedere «l’araba fenice della legislazione italiana», ossia la codificazione tributaria (cfr. Iacobellis L., Certezza del diritto e codificazione tributaria nel nuovo disegno di legge delega per la revisione in materia fiscale, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 1, I, 52), ma è oltremodo necessario, per valorizzare le linee direttrici delle Corti europee, modellare gli istituti già presenti nel nostro ordinamento con un’interpretazione libera dalla vecchia concezione del processo tributario, ma anzi ringiovanita dalla stella polare del “giusto processo”.

In tale prospettiva, dovrebbe prevalere l’interpretazione del requisito della necessità della prova testimoniale nella maniera più ampia possibile e coerente con il principio emerso nella sentenza Jussila, cioè permettendo al contribuente di non subire limitazioni processuali prive di una solida ratio giustificativa, e lasciando a quest’ultimo uno strumento ulteriore di cui godrebbe in tutti gli altri riti.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Buffa F., I rapporti tra sistema tributario domestico e CEDU, relazione del 18 maggio 2017 alla Corte Costituzionale in Roma, all’incontro di studio per magistrati tributari, organizzato dal Consiglio di Presidenza della giustizia tributaria

Chiarizia G. – Giuliani F., Diritto tributario, CEDU e diritti fondamentali dell’U.E. Incidenza e applicazioni pratiche, Milano, 2017

Gallo F., Verso un ‘giusto processo’ tributario, in Rass. trib., 2003, 1, 11 ss.

Glendi C., Prova testimoniale scritta nel processo tributario riformato: quali confini applicativi?, consultabile in www.ipsoa.it, 14 ottobre 2022

Iacobellis L., Certezza del diritto e codificazione tributaria nel nuovo disegno di legge delega per la revisione in materia fiscale, in Rivista di Diritto Tributario, 2022, 3, I, p. 166.

Iacobellis L., Certezza del diritto e codificazione tributaria nel nuovo disegno di legge delega per la revisione in materia fiscale, in Riv. tel. dir. trib., 2022, 1, I, 52 ss.

Lombardo L., Le prove nel processo tributario, consultabile in www.giustizia-tributaria.it, 22 ottobre 2016

Marcheselli A. – Dominici R., Giustizia tributaria e diritti fondamentali. Giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo, Torino, Giappichelli, 2016.

Pellecchia I. – Nizza L., Prova testimoniale nel processo tributario: limiti e prospettive, consultabile in www.dirittobancario.it, 4 novembre 2022

Pistolesi F., L’appello nel processo tributario, Torino, 2002

Pistolesi F., La testimonianza scritta nel processo tributario riformato, consultabile in www.giustiziainsieme.it, 29 settembre 2022

Russo P., Problemi della prova nel processo tributario, in Rass. trib., 2000, 2, 375 ss.

Santi Di Paola N., a cura di Contenzioso tributario, Rimini, 2009

Stancati G. – Attardi C. – Dal Corso G. – Nobile L. – Renda A., La riforma introduce la prova testimoniale nel processo tributario, consultabile in www.ipsoa.it, 5 ottobre 2022

Tesauro F., Scritti scelti di diritto tributario,Torino, 2022

Villani M., Progetto di legge di mini riforma del processo tributario, in Tribuna Finanziaria, 2022, 4/5, 26 ss.

 

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