Divisione con collazione nell’imposta di registro, tra codice civile e norme tributarie

Di Guido Salanitro -

Abstract

La Cassazione, sconfessando l’orientamento consolidato dell’Agenzia delle Entrate, riconosce che, nel determinare il rapporto tra quota di diritto spettante e quota di fatto attribuita in sede di divisione ereditaria, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, occorre considerare anche il valore delle donazioni collazionate.

Division with collation in the registration tax, between civil code and tax rules. – The Corte di Cassazione, disavowing the consolidated orientation of the Revenue Agency, recognizes that, determining the relationship between the rightful share and the share de facto attributed in the inheritance division, for the purposes of applying the registration tax, the value of the collated donations should be also considered..

 

 

Sommario: 1. Il fatto. – 2. La tesi dell’Agenzia delle Entrate. – 3. Le norme. – 4. La decisione della Cass. civ., sez. V, 27 gennaio 2023, n. 2588 – 5. Il coordinamento delle norme tra codice civile e disciplina tributaria.

1. Un notaio riceve una divisione ereditaria nella quale si procede ad imputazione alla quota a sé spettante ad opera della condividente donataria dei beni da lei ricevuti a titolo di donazione, con prelievo, ad opera dei restanti condividenti, di quote superiori a quelle di diritto del relictum. In altri termini, si stipula una normale divisone con collazione per imputazione delle donazioni effettuate in vita dal de cuius a favore di taluno dei condividenti, atto ordinariamente disciplinato dal codice civile ma poco frequentemente concluso formalmente nella prassi proprio per ragioni fiscali.

Il notaio, infatti, applica l’aliquota nella misura del 1%, in applicazione dell’art. 3 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, relativo agli atti di natura dichiarativa relativi a beni o rapporti di qualsiasi natura. Norma pacificamente applicabile alle divisioni anche alla luce dell’art. 34 del medesimo D.P.R., per il quale la divisione, con la quale ad un condividente sono assegnati beni per un valore complessivo eccedente a quello a lui spettante sulla massa comune, è considerata vendita limitatamente alla parte eccedente. Il legislatore tributario, infatti, ha almeno parzialmente accolto la tesi della natura dichiarativa della divisione, senza dar rilievo alle opposte teorie che talvolta emergono nel diritto civile, salvo appunto eventuali eccedenze tra quota di diritto spettante e quota di fatto attribuita e le c.d. masse plurime (che qui non interessano).

L’Agenzia delle Entrate notifica al notaio un avviso di liquidazione con il quale richiede (verosimilmente applicando l’aliquota del 9% relativo ai trasferimenti immobiliari) la maggiore imposta dovuta per la presenza di una divergenza tra le quote di fatto e le quote di diritto derivante proprio dall’(incauta) applicazione dell’istituto della collazione. L’Agenzia ravvisa infatti un conguaglio a favore della donataria che, se non si considera quanto ha ricevuto in donazione, risulta avere una quota inferiore a quella degli altri condividenti. In altri termini, riscontra, nell’ambito della divisione, una vendita e vi applica la relativa aliquota.

2. Per l’Agenzia delle Entrate, infatti, «l’istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell’asse ereditario e nel calcolo delle quote su cui verranno applicate le aliquote d’imposta. I beni donati non rientrano pertanto nelle masse ereditarie e non possono considerarsi esistenti in data di apertura della successione. Le quote di diritto verranno calcolate sulla base del valore dell’asse ereditario netto» (ris. 12 maggio 1987, n. 250249). Con la conseguente applicazione dell’art. 34, comma, 2, per il quale i conguagli superiori al 5% del valore della quota di diritto, ancorché attuati mediante accollo di debiti della comunione, sono soggetti all’imposta con l’aliquota stabilita per i trasferimenti mobiliari fino a concorrenza del valore complessivo dei beni mobili e dei crediti compresi nella quota e con l’aliquota stabilita per i trasferimenti immobiliari per l’eccedenza. In altri termini, il valore delle quote di diritto non deve comprendere il valore dei beni oggetto di collazione, con la conseguenza che ogni volta che si applica l’istituto della collazione si ha una differenza con le quote di fatto. E con la conseguenza pratica che si cerca spesso di non fare emergere la collazione nella divisione formale.

3. La tesi dell’Agenzia può, a prima vista, apparire totalmente infondata, soprattutto nell’ottica del “civilista” che non comprende quando il notaio suggerisce di non far emergere le collazioni.

Bisogna, però, riconoscere che si tratta di tesi che ha sicuramente un suo apparente fondamento testuale. Infatti il citato 34, al secondo periodo statuisce che «la massa comune è costituita nelle comunioni ereditarie dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione, e nelle altre comunioni, dai beni risultanti da precedente atto che abbia scontato l’imposta propria dei trasferimenti». E l’art. 8 D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (Testo Unico delle disposizioni concernenti l’imposta sulle successioni e donazioni) prevede che il valore globale netto dell’asse ereditario è costituito dalla differenza tra il valore complessivo, alla data dell’apertura della successione, dei beni e dei diritti che compongono l’attivo ereditario, determinato secondo le disposizioni della stessa legge, e l’ammontare complessivo delle passività deducibili e degli oneri. Il valore globale netto dell’asse ereditario, peraltro, è maggiorato, ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili a norma dell’art. 7, di un importo pari al valore attuale complessivo di tutte le donazioni fatte dal defunto agli eredi e ai legatari.

In altri termini, dal combinato disposto delle due norme sembra desumersi che il valore dei beni donati rilevi solo ai fini della determinazione delle aliquote (disposizione ormai superata dalle innovazioni successive ma formalmente mai abrogata) e che l’asse ereditario sia costituito dai soli beni esistenti alla data di apertura della successione. Con la conseguenza che in caso di collazione il valore dei beni donati fa inevitabilmente saltare la corrispondenza tra quote di fatto e quote di diritto (e quindi il notaio meno incauto farà in modo di non evidenziarle). Né ci aiutano i precedenti testi normativi: sia il previgente art. 32 D.P.R. n. 634/1972, che nelle due versioni pro-tempore vigenti, prevedeva che la massa comune è costituita dal valore, riferito alla data della divisione, dei beni esistenti alla data di apertura della successione; e nella precedente formulazione si disponeva che la massa comune fosse costituita dal valore, riferito alla data della divisione, dell’asse ereditario netto; l’art. 48 del Regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, a sua volta stabiliva che «Le assegnazioni che hanno luogo nelle divisioni di beni mobili od immobili tra comproprietari o fra soci, non sono considerate traslative della proprietà dei beni rispettivamente assegnati, quando ciascun condividente riceve una quota che corrisponda ai diritti che realmente gli spettano. Parimente non sono considerate traslative di proprietà le assegnazioni, che, entro i limiti delle rispettive quote, vengono fatte ad un condividente, di beni immobili esistenti nell’asse comune, e ad un altro condividente di beni mobili, rendite, crediti e denari che fanno parte dello stesso asse. Questa disposizione si applica nelle divisioni di eredità quando i mobili, le rendite, i crediti ed i denari assegnati risultino denunziati nel loro preciso ammontare per la tassa di successione». E più o meno la stessa dizione dell’art. 8 era il precedente art. 7 D.P.R. n. 637/1972.

Pertanto, procedendo con un esempio, se l’asse ereditario netto vale 90, gli eredi sono tre, hanno diritto ad un terzo ciascuno in base alle norme del codice civile, e uno ha ricevuto una donazione del valore di 30, gli altri due prenderanno beni per il valore di 40 e chi ha ricevuto la donazione beni per il valore di 10. Nella logica del codice civile, ciascuno ha ricevuto tra relictum e donatum un valore di 40, nella logica dell’Agenzia è come se un condividente avesse venduto beni per il valore complessivo di 20 agli altri due eredi, con conseguente conguaglio a suo favore.

4. Nonostante la posizione dell’Agenzia, fatta propria da alcune decisioni della Cassazione (da ultimo Cass. civ., sez. V, ord. 27 aprile 2021, n. 11040), il notaio rogante e destinatario dell’avviso di liquidazione presenta ricorso (in base a quel particolare procedimento per il quale l’imposta principale è recuperata con apposito atto notificato al solo notaio e non alle parti, in conformità alla disciplina degli artt. 3-bis ss. D.Lgs. n. 463/1997).

E, ancor più “stranamente” (considerato che spesso si adegua ai consolidati orientamenti dell’amministrazione), la Cassazione, con la sentenza della sez. V civile, 27 gennaio 2023, n. 2588, accoglie l’istanza del notaio (tecnicamente rigettando il ricorso dell’Agenzia, visto che la Commissione tributaria aveva dato ragione al pubblico ufficiale, e compensando le spese di lite), con una sentenza che ben riassume le diverse posizioni e che, sulla scia di un precedente conforme del 2021 (Cass. civ., sez. V, ord. 3 agosto 2021, n. 22123), sembra aprire definitivamente la strada ad una diversa interpretazione più coerente con il codice civile.

La Cassazione ricorda alcune decisioni (v. la citata Cass. n. 11040/2021, l’ordinanza 16 ottobre 2018, n. 25929; la sentenza 10 aprile 2006, n. 8335) per le quali «l’istituto della collazione non rileva in alcun modo nella determinazione del valore imponibile dell’asse ereditario e nel calcolo delle quote su cui verranno applicate le aliquote d’imposta». E l’esclusione delle donazioni pregresse si giustificherebbe in ragione del fatto che ai fini della (richiamata) imposta di successione, la base imponibile: «è costituita esclusivamente dall’incremento patrimoniale verificatosi in favore dei successori, senza che assuma alcun rilievo il valore dei beni già appartenenti a questi ultimi, il cui assoggettamento a tassazione si tradurrebbe d’altronde in una duplicazione d’imposta, trattandosi di beni sui quali, nella normalità dei casi, è stata già pagata l’imposta sulle donazioni» (e fin qui il ragionamento è perfettamente condivisibile, come vedremo il valore del donatum non si assoggetta all’imposta dichiarativa). Ma con il risultato che: «in sede di divisione ereditaria, la differenza tra la quota determinata senza tener conto del donatum e quella risultante a seguito dell’aggiunta dei beni oggetto di collazione dal donatario deve considerarsi conguaglio».

In senso opposto la Cassazione ricorda il precedente n. 22123/2021, per il quale l’art. 34 TUR, prevedendo che la massa comune sia costituita dal valore dell’asse ereditario netto determinato a norma dell’imposta di successione, «va interpretato in accordo con la disciplina civilistica, nel senso di comprendere i beni del compendio successorio tenendo conto anche del valore delle donazioni collazionate e con imputazione dei debiti secondo quanto prescritto dall’art. 724 c.c.; pertanto la base imponibile per calcolare l’imposta di registro sulla divisione deve essere determinata sulla somma del valore del bene caduto in successione e del valore del bene collazionato per imputazione»; con l’opposto risultato pratico per cui: «l’assegnazione dell’unico bene rimasto nell’asse ereditario a un condividente, se il relativo valore coincide con la sua quota di diritto sull’intera massa, non comporta l’emersione di conguagli né tantomeno l’imposizione di alcunché secondo le regole della vendita».

Precisiamo subito che è condivisibile che il valore delle donazioni rilevi ai fini della determinazione del rapporto tra quote di fatto e quote di diritto, meno condivisibile l’idea che la base imponibile per calcolare l’imposta di registro sulla divisione debba essere determinata sulla somma del valore del bene caduto in successione e del valore del bene collazionato per imputazione. E in realtà la stessa Cassazione n. 22123/2021 in un passo successivo e finale dell’ordinanza afferma che «l’imposta di registro troverà applicazione sulla parte effettivamente caduta in successione».

La Cassazione argomenta, in primo luogo, che il criterio letterale non appare conferente in quanto – il richiamato D.Lgs. n. 346/1990, art. 8, comma 4, benché non espressamente abrogato in sede di nuova istituzione dell’imposta, è stato, tuttavia, ritenuto implicitamente superato in quanto testualmente ed inequivocabilmente riferito («ai soli fini della determinazione delle aliquote applicabili») alla sola applicazione di un sistema progressivo di aliquote (non anche del diverso parametro della franchigia) già precedentemente eliminato (art. 69 L. n. 342/2000) e sostituito con un prelievo ad aliquote percentuali fisse per grado di parentela, in rapporto alle quali la già richiamata funzione antielusiva del coacervo tra relictum e donatum non avrebbe ragion d’essere.

Venuto meno il richiamo ex art. 34 cit. alla base imponibile dell’imposta di successione, deve soccorrere il criterio civilistico ex art. 737 c.c. che invece «impone l’obbligo della collazione al fine di riequilibrare in sede di apertura della successione gli assetti patrimoniali alterati dalle donazioni poste in vita dal de cuius».

La Cassazione ricorda, inoltre, che se non si tenesse conto delle donazioni, l’imposta di registro sulla divisione ereditaria verrebbe a colpire un disavanzo tra quota di fatto e quota di diritto che non è significativo né rivelatore dell’attribuzione di una ricchezza supplementare, quanto soltanto della riconduzione ad equilibrio e parità delle porzioni del patrimonio del de cuius rispettivamente e definitivamente assegnate ai condividenti. Pertanto, soltanto l’opzione interpretativa che muova dalla imputazione delle donazioni alla massa comune da dividere soddisfa il cardine costituzionale di cui all’art. 53 Cost., allineando inoltre il regime fiscale a quello civilistico di obbligatoria imputazione all’asse ereditario da dividere (salva dispensa nei limiti della quota disponibile) delle donazioni eseguite in vita dal de cuius, ex art. 724 c.c.

In tal modo il coacervo tra donatum e relictum viene sì recuperato, ma nell’ambito di un’operazione di riunione fittizia e per imputazione avente immediata incidenza sulla massa comune e non sulla base imponibile dell’imposta di registro applicabile all’atto di divisione; – in forza di un istituto di portata generale (la collazione) esperibile non solo ai fini dell’azione di riduzione, ma ogniqualvolta si renda necessario ricostruire l’asse ereditario, il che supera l’obiezione dell’Amministrazione secondo cui delle donazioni in vita non potrebbe tenersi conto ai fini in esame sol perché relative a beni non ricompresi nella massa ereditaria da dividere, in quanto estranei al patrimonio del de cuius al momento della successione.

5. La decisione della Cassazione n. 2588/2023 appare più decisa di quella, pur conforme, n. 22123/2021, perché esclude senza incertezze il donatum dal calcolo della base imponibile della divisione. Entrambe, però, lasciano insoddisfatti nella misura in cui sembrano ispirate, come spesso accade in materia di tributi “notarili”, a principi civilistici. Sembra quasi che la Cassazione dica che si applica il codice civile in luogo delle norme tributarie, ed in questo caso il “gioco è facile” a causa del mancato coordinamento delle diverse discipline delle imposte di registro e di successione che si sono stratificate (forse sarebbe meglio dire accavallate) negli anni (quasi ammettendo che prima delle modifiche la tesi dell’Amministrazione finanziaria fosse corretta). Infatti, la Corte (giova riportare di nuovo alcuni passi) assume che «Il rinvio operato dall’art. 34 TUR all’imposta di successione non può non risentire del fatto che la disciplina di quest’ultima è stata fatta oggetto, com’è noto, di varie e non sempre lineari riforme e stratificazioni normative e che, in particolare, la norma che dovrebbe fungere da parametro di riferimento (l’art. 8 comma 4 TUS) è stata privata di ogni pratica e complessiva rilevanza (implicita abrogazione) per il venir meno, a seguito del superamento normativo del regime impositivo proporzionale, della finalità prettamente antielusiva che essa perseguiva»; e che «soltanto l’opzione interpretativa che muova dalla imputazione delle donazioni alla massa comune da dividere soddisfi il cardine costituzionale di cui all’art. 53 Cost., allineando inoltre il regime fiscale a quello civilistico di obbligatoria imputazione all’asse ereditario da dividere (salva dispensa nei limiti della quota disponibile) delle donazioni eseguite in vita dal de cuius, ex art. 724 c.c.». E facendo proprio quanto sostenuto dal precedente conforme del 2021, dove è scritto che «venuto sostanzialmente meno il richiamo ex art. 34 cit. alla base imponibile dell’imposta di successione, deve soccorrere il criterio civilistico ex art. 737 c.c. che invece “impone l’obbligo della collazione al fine di riequilibrare in sede di apertura della successione gli assetti patrimoniali alterati dalle donazioni poste in vita dal de cuius (…)”».

Ma come abbiamo visto, il variare delle norme non è significativo a partire da quelle del 1923.

E quindi vanno forse trovate altre ragioni per cercare di giungere alla stessa conclusione, ricordando fin da subito che fin dal 1987, quando è uscita la risoluzione prima citata, la dottrina ha contestato la risoluzione dell’Agenzia, in un contesto normativo tributario alquanto stabile.

Se si guarda l’art. 34, senza dare per scontata la lettura dell’Amministrazione finanziaria, gli unici punti fermi sono che il legislatore non riconosce la minore tassazione con l’aliquota degli atti dichiarativi (1% in luogo del 9%) in presenza di masse plurime (tranne nel caso in cui l’ultimo acquisto di quote derivi da successione a causa di morte), quando vi sono conguagli ancorché attuati mediante accollo di debiti della comunione, e quando vi è differenza tra quota di diritto spettante e quota di fatto attribuita. In tutte le formulazioni della disposizione non compare mai il fenomeno della collazione, silenzio dal quale non appare necessario desumere alcun significato. È vero che si fa riferimento all’asse ereditario netto, o in precedenti versioni all’insieme dei beni esistenti al momento dell’apertura della successione, ma questo riferimento serve a determinare la base imponibile dell’imposta, tant’è che non si riscontra una disposizione specifica nell’art. 43, rubricato base imponibile. E sotto questo aspetto, non rileva la collazione dei beni donati, che non saranno soggetti all’aliquota dell’1% perché già soggetti all’imposta sulla donazione. Quanto, invece, al rapporto tra quota di fatto e quota di diritto la norma non esclude espressamente la rilevanza della collazione. Può certamente leggersi la norma nel senso sostenuto dall’Agenzia delle Entrate; è, però, preferibile prendere atto che in una divisione scritta bene, e conforme al codice civile che non prevale sulle norme tributarie ma va applicato in eguale misura (peraltro è il codice civile che detta le quote di diritto), i beni donati (attraverso il metodo dell’imputazione, ma direi anche con quello della collazione in natura) rilevano nella formazione delle quote dando equivalenza tra le stesse e consentendo la giusta distribuzione dei beni tra gli eredi (salvo ovviamente diverse determinazioni che portino di fatto ad attribuzioni non conformi alle quote di diritto). In altre parole, dà rilevanza al valore dei beni donati il coordinamento tra le norme tributarie e le norme civilistiche che non prevalgono su quelle fiscali “confuse” e poco “lineari” (e neanche soccorrono le stesse) ma indicano le quote di diritto spettanti e i termini e i requisiti della collazione.

Una divisione con collazione delle donazioni non è una vendita, né per il diritto civile né per il diritto tributario né, e soprattutto, per il senso comune, non ricevendo ciascun erede più di quanto gli spetta (e senza bisogno di scomodare la Costituzione e la capacità contributiva).

La decisione della Cassazione, quindi, va accolta con favore (anche se puntualizzando che è conforme al diritto tributario, che non è poco lineare e non ha bisogno di soccorso) ed è auspicabile che l’Agenzia delle Entrate prenda atto di questo nuovo orientamento, che a questo punto sembra consolidato, dando le relative istruzioni agli uffici e consentendo ai notai di far emergere con tranquillità le collazioni nei loro atti pubblici.

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