Finanziamenti “a cascata” ed esenzione dalla ritenuta sugli interessi ex art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973: l’assenza di un congruo margine (mark up) in capo alla società holding non implica di per sé la carenza del requisito del beneficiario effettivo
Di Alessandro Giannelli
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(commento a/notes to Cass., ord. 3 febbraio 2022, n. 3380)
Abstract
La Corte di Cassazione chiarisce che determinati elementi fattuali possono contare quali parametri spia della carenza di beneficial ownership solo nella misura in cui provino la presenza di un’obbligazione contrattuale o legale di ritrasferimento dello specifico pagamento ricevuto e che, pertanto, in mancanza di tale prova la mera assenza di un congruo margine in capo alla società holding non è sufficiente per escluderne lo status di beneficiario effettivo.
“Back-to-back” financing and the exemption from withholding tax on interest under art. 26 quater Presidential Decree No. 600/73: the lack of mark-up on the holding company does not exclude beneficial ownership – The Supreme Court clarifies that certain factual elements can reveal the lack of beneficial ownership only to the extent they prove the presence of a contractual or legal obligation to pass on the specific payment received and that, therefore, in the absence of such proof the lack of a mark-up by the holding company is not sufficient to exclude the beneficial owner status.
Sommario:1. Introduzione. – 2. La fattispecie affrontata dalla Corte di Cassazione – 3. Il concetto di beneficiario effettivo secondo la Corte di Cassazione e i “parametri spia” della sua carenza. – 4. Spunti sul rapporto tra abuso del diritto e beneficial ownership.
1. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in rassegna, torna ad occuparsi dell’applicazione in ambito unionale della clausola del beneficiario effettivo agli interessi corrisposti ad una società holding lussemburghese ed assoggettati al regime di esenzione dalla ritenuta ai sensi dell’art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973 e, dunque, in applicazione della Direttiva interessi & royalty (2003/49/CE).
La pronuncia, pur ponendosi nel solco di principi già espressi dalla Corte (Cass., 10 luglio 2020, n. 14756; Cass., 19 ottobre 2019, n. 25490; Cass., 28 dicembre 2016, n. 27112), merita particolare attenzione fornendo ulteriori spunti per una miglior comprensione degli elementi sintomatici della carenza di beneficial ownership e del loro rapporto con l’abuso del diritto (per una più ampia analisi dell’orientamento della Corte di Cassazione, anche con riferimento agli aspetti procedimentali e probatori rispetto allo status di beneficiario effettivo, si veda Arginelli P. – Tenore M., Key Decision of the Italian Supreme Court on the Relationship between the Concepts of Beneficial Ownership and Abuse of Tax Treaties, in Bulletin for International Taxation, 2022, 5, 261 e Giannelli A. – Pitrone F., Beneficiario Effettivo, in Avolio D., a cura di, Fiscalità internazionale e dei gruppi, Milano, 2020, 699).
I giudici, infatti, non si sono limitati a ribadire (i) che la clausola del beneficiario effettivo deve essere esaminata alla luce dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia nelle c.d. “Cause Danesi” (Corte di Giustizia, 26 febbraio 2019, casi riuniti C-116/16 e C-117/16, Skatteministeriet v. T Danmark e Y Denmark Aps; Corte di Giustizia, 26 febbraio 2019, casi riuniti C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, N Luxembourg 1 v. Skatteministeriet) e, quindi, da una prospettiva latamente antiabuso e (ii) che, all’interno di questo quadro, la sostanza economica delle società holding deve essere esaminata secondo criteri diversi da quelli applicabili alle società operative, ma hanno, inoltre, escluso – ed è questo l’aspetto di maggior rilievo – che l’assenza di un congruo margine (mark up) in capo alla holding finanziatrice non residente possa di per sé inficiarne lo status di beneficiario effettivo, allorchè, come nel caso di specie, dall’esame dei contratti risulti indubbia l’assenza di una preesistente obbligazione di ritrasferimento a soggetti terzi degli interessi pagati alla holding dalla società controllata italiana.
Non può sfuggire l’importanza di una tale pronuncia, visto che sovente nella prassi accertativa dell’Amministrazione finanziaria è proprio l’assenza di mark up ad essere assunta quale elemento decisivo per dimostrare la carenza di beneficial ownership soprattutto laddove la contestazione venga motivata facendo leva, in una prospettiva antiabuso, sulla limitata sostanza economica della società percipiente.
In questa prospettiva, il presente contributo si prefigge di mettere a fuoco la progressiva evoluzione dell’orientamento della Cassazione che, pur muovendo da una tendenziale sovrapposizione tra beneficiario effettivo ed abuso del diritto (Cass., 22 giugno 2021, n. 17746; Cass., 30 settembre 2019, no. 24287; Cass., 19 dicembre 2018, nn. 32840, 32841 e 32842; Cass., 25 maggio 2016, n. 10792; Cass., 28 dicembre 2016, n. 27113; Cass., 16 dicembre 2015, n. 25281), sembra dirigersi – e l’ordinanza in rassegnane ne è la conferma – verso un’interpretazione per certi versi maggiormente coerente con le indicazioni dell’OCSE, secondo cui (ferma restando la possibile prova dell’abusività della fattispecie) lo status di beneficiario effettivo deve essere escluso soltanto in presenza di un’obbligazione contrattuale o legale a ritrasferire a terzi lo specifico pagamento ricevuto.
2. I giudici di legittimità si sono espressi in relazione al caso di una società italiana che nel 2003 si era trovata nella circostanza di dover ristrutturare il proprio indebitamento bancario a fronte dell’emissione di un prestito obbligazionario destinato ad investitori statunitensi. Sennonché, per vincolo statutario, detto prestito non poteva essere emesso direttamente dalla società italiana che, quindi, ricorreva alla propria controllante, una società holding residente in Lussemburgo; quest’ultima, una volta effettuata l’emissione obbligazionaria, utilizzava la liquidità così rinvenuta per concedere alla società italiana un finanziamento soci “a specchio”, ossia con le medesime condizioni economiche del prestito obbligazionario e dunque senza alcun mark up. Successivamente, nel 2004, la società italiana modificava il proprio statuto al fine di poter effettuare un’emissione obbligazionaria interamente sottoscritta dalla holding e per il medesimo importo del finanziamento in precedenza ricevuto dalla stessa. Conseguentemente, il debito della società italiana verso la holding per il finanziamento concesso nel 2003 veniva ad estinguersi per compensazione a fronte della liquidità dovuta da quest’ultima per effetto della sottoscrizione delle suddette obbligazioni emesse nel 2004 dalla controllata italiana.
Così posta in essere, la complessiva operazione di finanziamento garantiva un flusso di interessi agli obbligazionisti statunitensi senza alcuna ritenuta: infatti, in applicazione dell’art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973, gli interessi dovuti dalla società italiana alla holding lussemburghese venivano corrisposti senza applicazione della ritenuta e alla stesso modo gli interessi dovuti dalla holding agli obbligazionisti statunitensi non venivano assoggettati a ritenuta in forza di quanto previsto dall’art. 12 del Trattato contro le doppie imposizioni tra il Lussemburgo e gli Stati Uniti.
Tuttavia, secondo la ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria gli interessi pagati dalla società italiana alla holding lussemburghese non potevano godere del regime di esenzione dalla ritenuta ex art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973, tornando, quindi, applicabile la ritenuta all’epoca prevista nella misura del 12,5% dall’art. 26, comma 5, D.P.R. n. 600/1973. Ciò sul presupposto che la holding, non avendo applicato alcun mark up sul finanziamento concesso alla società italiana, non avrebbe ricavato alcuna utilità dall’operazione finanziaria de qua, diversamente dagli investitori statunitensi che, invece, secondo il c.d. approccio look through seguito dall’Amministrazione finanziaria, sarebbero i beneficiari effettivi degli interessi pagati dalla società italiana alla predetta holding.
La Cassazione ha però sconfessato l’assunto erariale confermando, quindi, lo status di beneficiario effettivo della holding lussemburghese (Cass. n. 3380/2022, par. 4) posto che la società: a) esisteva da più di cinquant’anni; b) si articolava in una struttura operativa reale e non costituiva una “scatola vuota”; c) aveva per oggetto sociale la tenuta e la compravendita di partecipazioni in società editrici; d) conseguiva utili per oltre otto milioni di euro nell’anno di imposta oggetto di accertamento; e) aveva emesso il finanziamento in favore degli investitori americani sei mesi prima della controllata italiana proprio perché questa non poteva farlo; f) aveva iscritto gli interessi percepiti nel proprio bilancio, con conseguente concorso degli stessi alla formazione del reddito; g) aveva l’effettiva disponibilità delle somme, in assenza di obblighi contrattualmente fissati di diretto ritrasferimento; h) aveva emesso titoli obbligazionari propri, scontandone la relativa disciplina, e ponendo il proprio patrimonio a garanzia degli investitori americani.
3. In linea con i propri precedenti, nell’ordinanza in rassegna la Corte di Cassazione ribadisce che la clausola del beneficiario effettivo costituisce non solo una norma antiabuso, ma una «clausola generale dell’ordinamento fiscale internazionale … volta ad impedire che i soggetti possano abusare dei trattati fiscali attraverso pratiche di treaty shopping, con lo scopo di riconoscere la protezione convenzionale a contribuenti che, altrimenti non ne avrebbero avuto diritto o che avrebbero subito un trattamento fiscale, comunque, meno favorevole» (par. 3.1; tesi, peraltro espressa già a partire dalla sentenza n. 25281/2015 e poi successivamente ribadita anche da Cass., 28 dicembre 2016, n. 27113; sul punto si veda Pitrone F., Pianificazione fiscale aggressiva: l’utilizzo della clausola del beneficiario effettivo quale norma generale antiabuso, in Diritto Bancario, 13 gennaio 2015). Secondo la Corte, inoltre, può considerarsi beneficiario effettivo soltanto colui «che abbia l’effettiva disponibilità giuridica ed economica del provento percepito» e che, quindi, «non è tenuto ad alcun trasferimento dello stesso a terzi» (par. 3.1; si veda anche Cass., 22 giugno 2021, n. 17746, par. 3.1; Cass., 20 settembre 2019, n. 24287, par. 1.3; Cass., 19 dicembre 2018, n. 32840; per un’analisi in chiave critica di tale ricostruzione si veda: Corasaniti G., L’evoluzione della nozione di beneficiario effettivo tra il modello di Convenzione OCSE e la giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Dir. prat. trib., 2021, 6, 2493; Garbarino C. – Rizzo A., La nozione di beneficiario effettivo nella giurisprudenza UE [Case C-115/16; Case C-116/16], in Fisc. comm. intern., 2021, 11, 46).
È dunque, evidente, l’influsso delle Cause Danesi nelle quali, come noto, la Corte di Giustizia, anche con specifico riferimento alla Direttiva interessi e royalty, ha ricondotto la clausola del beneficiario effettivo nell’alveo dell’abuso del diritto (per un approfondimento di tale aspetto si veda Arginelli P., Spunti ricostruttivi della nozione di beneficiario effettivo ai fini delle convenzioni bilaterali per evitare le doppie imposizioni concluse dall’Italia, in Riv. dir. trib., 2017, 4, V, 29). È emblematico, in tal senso, che la Corte, rinviando espressamente alle Cause Danesi, abbia affermato che «proprio in tema di individuazione del beneficiario effettivo per i pagamenti di “interessi” e di “canoni” fra società consociate di Stati membri diversi, … la prova di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non sia stato conseguito e, dall’altra, un elemento soggettivo consistente nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa dell’Unione per mezzo della creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento» (par. 3.4). Non è un caso, pertanto, che la Cassazione giunga ad affermare che «non possono, quindi, essere ricomprese tra i “beneficiari effettivi” le “società relais” (società interposte)» e che «devono, quindi, essere utilizzate le norme anti-abuso volte a far prevalere la sostanza sulla forma nonché le regole di “sostanza economica”» (Cass. n. 3380/2022, par. 3.1); ciò in quanto «la società conduit è un soggetto che si frappone nei rapporti tra erogante e beneficiario finale, come soggetto percipiente solo formalmente, la cui costituzione non è supportata da motivazioni economiche apprezzabili diverse dal risparmio fiscale» (Cass. n. 3380/2022, par. 3.1).
Pur muovendo da tali premesse, che potrebbero far pensare ad una sorta di equivalenza tra assenza di beneficial ownership e carenza di sostanza economica, la Corte si allinea poi alla posizione dell’OCSE ribadendo che il proprium della clausola del beneficiario effettivo è, in ogni caso, rappresentato dalla «circostanza che il diritto del beneficiario dei flussi non sia vincolato da specifici obblighi legali o contrattuali di ritrasferimento» (par. 3.1) aggiungendo, inoltre, e per la prima volta rispetto ai propri precedenti, che tale obbligo, coerentemente con le ulteriori precisazioni fornite dall’OCSE a partire dalla versione del 2014 del Commentario al Modello di Convenzione (art. 11, par. 10.2) «deve però riguardare lo specifico pagamento ricevuto» (par. 3.2).
La posizione così definita dalla Corte, che a prima vista potrebbe ritenersi contraddittoria, riferendosi da un lato alla sostanza economica e dall’altro ad un elemento giuridico quale l’obbligazione legale o contrattuale di ritrasferimento, pare in realtà doversi intendere nel senso che la carenza di sostanza economica può a buon diritto contare come prova dell’assenza di beneficial ownership, ma solo se le circostanze fattuali così individuate dimostrino pur sempre la presenza di un’obbligazione di ritrasferimento dei redditi ricevuti. In tal senso depone il fatto che per la Cassazione «[t]ale obbligo che, di norma, deriva da documenti legali, … può anche discendere da circostanze di fatto» (par. 3.2), fermo restando che in ogni caso «è necessario valutare alcuni parametri-spia per valutare in concreto la sussistenza dell’unico elemento normativamente rilevante ai fini della nozione di “beneficiario effettivo”, costituito dalla padronanza ed autonomia della società-madre percipiente, sia nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute, sia nel trattenimento ed impiego dei “dividendi” percepiti» (par. 3.3). Al riguardo non può però sfuggire una possibile tensione rispetto alla posizione dell’OCSE. Infatti, il riferimento della Corte anche alla «padronanza ed autonomia … nell’adozione delle decisioni di governo ed indirizzo delle partecipazioni detenute» potrebbe leggersi nel senso che quel che conta non è solo la libertà di disporre dei redditi incassati, ma anche dell’impiego degli asset (i.e. le partecipazioni) a cui tali redditi si riferiscono. Tale aspetto è rinvenibile, peraltro, anche in altri precedenti della Corte, tra cui Cass. n. 14756/2020 e Cass. n. 27112/2016. Si tratta, tuttavia, di un punto espressamente escluso dall’OCSE per il quale il riferimento deve essere esclusivamente al potere di disporre (con un sufficiente grado di autonomia) dei redditi incassati (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 10, par. 12.6). Ciò sembra rivelare un’eccessiva commistione tra abuso del diritto e beneficiario effettivo: è, infatti, solo concependo la clausola del beneficiario effettivo nei termini di una norma antiabuso generale che può ritenersi del tutto fisiologico individuarne il presupposto applicativo in tutte quelle circostanze, incluse quindi quelle relative alle modalità di impiego degli asset detenuti, che rivelino l’utilizzo in chiave strumentale, ossia di mera interposizione, di determinate strutture societarie. Il che spiegherebbe, peraltro, il fatto che per la Cassazione, come già ricordato, quel che conta non è solo la disponibilità giuridica dei redditi incassati, ma anche quella economica (si veda anche Cass., 22 giugno 2021, n. 17746, par. 3.1; Cass., 20 settembre 2019, n. 24287, par. 1.3; Cass., 19 dicembre 2018, n. 32840. Principio verosimilmente giustificabile in una prospettiva antiabuso, ma che mal si concilia con la natura “legale” o “contrattuale” dell’obbligazione di ritrasferimento a cui si riferisce l’OCSE quale elemento dirimente per escludere lo status di beneficiario effettivo.
Ad ogni modo, i “parametri-spia” presi in esame dalla Cassazione devono poter evidenziare che «il gruppo di società sia strutturato in modo tale che la società percettrice degli interessi versati dalla società debitrice debba ritrasferire gli interessi medesimi ad una terza società, non rispondente ai requisiti d’applicazione della direttiva 2003/49» precisando, tuttavia, che tale circostanza può «essere accertata quando l’unica attività della medesima sia costituita dal percepimento degli interessi e dal loro successivo trasferimento al beneficiario effettivo» (par. 3.4).
Ciò non vuol dire però che rispetto a determinate società, come le holding, per natura costituite in funzione servente rispetto ai soggetti retrostanti e tipicamente dotate di una struttura leggera, la presenza del suddetto obbligo di ritrasferimento sussista in re ipsa, dovendo, quindi, assumersi carente a priori il requisito di beneficial owenrship. Rileva, infatti, la Cassazione, come già affermato in passato (sentt. 28 dicembre 2016, n. 27112 e 10 luglio 2020, n. 14756 – tale ultima pronuncia presenta, inoltre, alcune similitudini con la vicenda affrontato nell’ordinanza in rassegna avendo ad oggetto il caso di una holding che aveva conseguito un margine particolarmente esiguo pari allo 0,125%), che «la relazione di controllo tra capogruppo ed holding, o sub-holding, avente ad oggetto la pura detenzione di partecipazioni geografiche non esclude di per sé che quest’ultima sia dotata di autonomia organizzativa e gestionale» e ciò in quanto «non può farsi riferimento agli elementi caratteristici di una società operativa, dando rilievo ai modesti crediti operativi, alla mancanza di dipendenti e di una struttura organizzativa adeguata, dovendosi, invece, apprezzare l’autonomia organizzativa e gestionale della società» (Cass. n. 3380/2022, par. 3.3). Tale impostazione non si traduce però in una presa di distanza dai Casi Danesi secondo cui, infatti, «l’assenza di un’effettiva attività economica dev’essere al riguardo dedotta, alla luce delle peculiarità che caratterizzano l’attività economica in questione» (cause riunite C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, par. 131; in senso conforme sent. “Deister”, C‑504/16, “Juhler Holding A/S”, C‑613/16 nonché “Eqiom” C-6/16 – al riguardo si veda anche Roccatagliata F. – Cerioni L., Anche una sub-holding pura vale come “beneficiario effettivo” per la direttiva interessi e canoni. Alla ricerca dell’“effettivo beneficiario” perduto, in GT – Riv. giur. trib., 2021, 2, 166).
Si spiegherebbe così che con l’ordinanza in commento la Corte abbia di fatto escluso che certi indici di carenza di sostanza economica, come ad esempio l’assenza di mark up, possano di per sé provare il venir meno dello status di beneficiario effettivo laddove una simile circostanza risulti superata da altri elementi rivelatori di una sufficiente autonomia e potere decisionale della società (la necessità di procedere secondo un’opera di bilanciamento ai fini degli indici di abusività denota, peraltro, un ulteriore elemento di continuità con i Casi Danesi, C-116/16 e C-117/16, par. 99).
Infine, e coerentemente con tale impostazione, va altresì evidenziato che il riferimento della Cassazione al fatto che l’obbligazione di ritrasferimento debba riguardare in modo specifico il pagamento ricevuto, vale a chiarire che tale obbligazione deve soddisfare la seguente relazione biunivoca per poter essere rilevante ai fini della clausola del beneficiario effettivo: (i) il percipiente non avrebbe incassato un certo reddito se non avesse avuto un obbligo di ritrasferirlo ad un terzo e (ii) nessun ritrasferimento avrebbe avuto luogo in assenza di tale preventivo incasso (solo così, infatti, può assicurarsi che l’obbligazione di ritrasferimento abbia ad oggetto la traslazione dello specifico pagamento ricevuto non coinvolgendo, per l’effetto, tutti i pagamenti di importo ad esso equivalente, ma alimentati da risorse finanziarie e liquidità diversa o comunque derivanti da un fisiologico impiego dei redditi incassati (Weber D., EU beneficial ownership further developed: a view from a different angle, in World Tax Journal, 2022, 2, 71, nonchè sentenza Velcro Canada Inc. v. Majesty Queen, 24 febbraio 2012). Infatti, proprio al riguardo, il Commentario al Modello OCSE di Convenzione precisa che rispetto alla nozione di beneficiario effettivo non assumono rilevanza tutti quegli obblighi legali e contrattuali non correlati al pagamento ricevuto (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2014, art. 11, par. 10.2), quali ad esempio gli obblighi assunti come debitore nell’ambito di operazioni finanziarie ovvero di distribuzione di un fondo pensione o dei veicoli di investimento collettivo aventi i requisiti per beneficiare del trattamento convenzionale. Il che costituisce riprova del fatto che l’assenza di beneficial ownership non può rinvenirsi nella mera corrispondenza economica tra il pagamento in entrata e quello in uscita, né può essere inferita da meri indici di carenza di sostanza economica (ciò è coerente col fatto che il Commentario al Modello OCSE non ha accolto la proposta avanzata nel discussion draft denominato «Clarification of the Meaning of “Beneficial Owner” in the OECD Model Tax Convention», 2011, di declinare il potere di disporre del reddito ricevuto in termini di “full right to use and enjoy”; sul punto si veda, ex multis, Avolio D. – Santacroce B., Il Discussion Draft » OCSE sul beneficiario effettivo e le questioni ancora aperte, in Corr. trib., 2011, 38, 3109, Escalar G., La nuova definizione OCSE di effettivo beneficiario, in Corr. trib., 2017, 48, 3685 nonché IBFD, Response from IBFD Research Staff to: Clarification of the Meaning of ’Beneficial Owner’ in the OECD Model Tax Convention, 2011, 4 secondo cui «the important point is not the simple existence of an obligation that affects the income received, but rather the nature of that obligation. An obligation to apply, or spend, income, should not negate the beneficial ownership of the person receiving the income, but this situation should be distinguished from an obligation to pass the income received to another person»).
4. La novità dell’ordinanza in commento pare, quindi, doversi ricercare nel tentativo di voler meglio definire, rispetto al passato, il rapporto tra due prospettive tra loro in apparente contrasto: da un lato, quella della Corte di Giustizia per come espressa nelle Cause Danesi, incentrata sull’abuso del diritto e sulla carenza di sostanza economica e, dall’altro, quella dell’OCSE in cui, invece, viene ad essere privilegiato il ruolo dell’obbligazione di ritrasferimento e, quindi, un profilo di natura squisitamente giuridica (l’obiettivo di unificare tali prospettive può verosimilmente ritenersi originato dal fatto di rinvenire nella prospettiva antiabuso della Corte di Giustizia la via per addivenire ad una nozione internazionale di “beneficiario effettivo” coerentemente spendibile in ambito unionale in quanto cogente per tutti gli Stati membri: cfr., Weber D., EU beneficial ownership further developed: a view from a different angle, cit., 54; sul tema oggetto di indagine nel prosieguo, v. Contrino A., Note in tema di dividendi “intraeuropei” e “beneficiario effettivo”, tra commistioni improprie della prassi interna e nuovi approdi della giurisprudenza europea, in Riv. tel. dir. trib., n. 2020, 1, II, 106).
In particolare, stando ai principi indicati dalla Corte, tale questione dovrebbe essere risolta tenendo a mente che non vi è coincidenza, sul piano concettuale, tra carenza di sostanza economica e insussistenza dello status di beneficiario effettivo, ma che al più può esservi una sovrapposizione nella misura in cui gli indici di abusività siano al contempo evidenza di un’obbligazione, giuridicamente apprezzabile, di un obbligo di ritrasferimento dei redditi incassati. E, infatti, nel cassare con rinvio la sentenza impugnata, la Corte ha affermato che «in ragione dell’esame delle condizioni contrattuali … non si rinvengono obblighi, limiti o condizionamenti che prevedano il trasferimento agli Stati Uniti di quanto percepito dall’Italia, lasciando quindi autonomia imprenditoriale e responsabilità patrimoniale in capo alla società lussemburghese, peraltro vocata per statuto ad operazioni societarie di tal tipo» (par. 4, penultimo capoverso). Ben può accadere, quindi, ragionando in questi termini, che una società, pur dotata di sostanza economica, non soddisfi la clausola del beneficiario effettivo laddove, rispetto alla percezione di determinati flussi reddituali, risulti giuridicamente vincolata a ritrasferirli a terzi; così come può accadere che l’assenza di sostanza economica sul piano generale risulti compatibile con lo status di beneficiario effettivo allorché la traslazione ad altri soggetti dei redditi ricevuti non risulti vincolata da un’obbligazione di ritrasferimento dipendente dalla stessa percezione di tali redditi.
Parte della dottrina ha però osservato che un simile approccio finirebbe per tradursi in una concezione eccessivamente ristretta tale per cui la carenza dello status di beneficial ownership si verificherebbe soltanto in situazioni limite, perdendo così la gran parte della sua utilità, finendo, in particolare, per applicarsi soltanto verso soggetti che agiscono come intermediari, agenti o nominees, lasciando così scoperte la gran parte delle ipotesi di treaty shopping (Arnold B.J., Tax treaty case law news – a trio of recent cases on beneficial ownership, in Bullentin for international taxation, 2012, 6, 323). In tale ottica, il criterio del beneficiario effettivo andrebbe, invece, applicato privilegiando un’analisi fattuale, e più precisamente in termini di sostanza economica, ed in base alla quale, ad esempio, l’assenza di mark up unitamente all’immediato trasferimento di un importo equivalente a quello ricevuto dovrebbe assumersi quale prova decisiva della carenza dello status di beneficiario effettivo (si veda Corte d’Apello del Regno Unito, sent. 2 marzo 2006, caso Indofood).
Secondo altra parte della dottrina, invece, una lettura in chiave esclusivamente economica del concetto di beneficiario effettivo non risulterebbe coerente con la sua originaria e primaria funzione. Va, infatti, ricordato che per l’OCSE la clausola del beneficiario effettivo ha lo scopo di chiarire il significato dell’espressione “pagato a” (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 10, par. 12.1) e, peraltro, non con valenza generale, ma limitatamente a redditi che per loro natura potrebbero essere facilmente manovrati e dirottati verso soggetti diversi dai loro formali percettori e residenti in un terzo Stato, come nel caso dei flussi di dividendi, interessi e royalty, così frustrando lo scopo dei trattati e la loro natura bilaterale (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 10, parr. 12, 12.3). In tal senso la funzione primaria della clausola del beneficiario effettivo è quella di fornire un criterio di attribuzione del reddito – seppur con potenziali risvolti antielusivi rispetto a certi specifici fenomeni di treaty (o directive) shopping (in tal senso si è espresso il Tribunale fiscale del Canada con la sentenza Velcro, 24 febbraio 2012; si veda anche Jimenez A.M., Beneficial Ownership: Current Trends, in World Tax Journal, 2010, 1, 51-52). L’obiettivo così perseguito è duplice: da un lato, evitare conflitti di qualificazione tra gli Stati contraenti (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 10, par. 12.6), e, dall’altro, stabilire quando simili redditi (non) debbano essere attribuiti ai loro diretti percipienti con conseguente decadenza degli stessi da determinati benefici convenzionali (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 11, par. 9). A tale riguardo è interessante notare che con la recente sentenza del 20 maggio 2022, n. 44445, caso Planet, il Consiglio di Stato francese ha ammesso la possibilità di invocare, a favore del contribuente, la clausola del beneficiario effettivo, al fine di poter applicare le Convenzioni contro le doppie imposizioni direttamente con lo Stato di residenza del reale beneficiario nonostante il percipiente diretto (non beneficiario effettivo) risultasse residente in un altro Stato. Ciò denota, quindi, un utilizzo del criterio del beneficiario effettivo non (solo) nei termini di una clausola antiabuso, ma (anche) come criterio di attribuzione del reddito che, dunque, deve poter essere invocabile a proprio favore anche dal contribuente. Tale conclusione risulta, inoltre, in linea con la posizione della Corte di Giustizia espressa nelle Cause Danesi secondo cui «la sola circostanza che la società percettrice degli interessi in uno Stato membro non ne sia il “beneficiario effettivo” non esclude necessariamente l’applicabilità dell’esenzione…. È, infatti, concepibile che gli interessi medesimi siano esentati a tal titolo, nello Stato della fonte, nel caso in cui la società percettrice ne trasferisca l’importo ad un beneficiario effettivo stabilito nell’Unione che risponda peraltro a tutti requisiti indicati dalla direttiva 2003/49 ai fini del beneficio dell’esenzione» (Corte di Giustizia, 26 febbraio 2019, cause riunite C‑115/16, C‑118/16, C‑119/16 e C‑299/16, par. 94, si veda anche Cass. n. 24291/2019, n. 24288/2019 e n. 24297/2019 nonché Agenzia delle Entrate, ris. n. 86/E/2006 e ris. min fin. n. 12/431/1987). Peraltro, il fatto che così concepita la clausola del beneficiario effettivo non consenta di colpire tutte le ipotesi di treaty shopping, non si traduce in una lacuna dell’ordinamento. Infatti, all’esito del progetto BEPS, il Modello OCSE di Convenzione (2017) è stato dotato di un principio antielusivo generale, ossia il principal purpose test, recato dal comma 9 del nuovo art. 29 (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 19, par. 4 parr. 169 ss.), proprio allo scopo di colmare tutti i possibili interstizi elusivi, incluse le variopinte forme di treatyshopping (in tal senso si veda anche Weber D., EU beneficial ownership further developed: a view from a different angle, cit., 68 secondo cui «[a] strict interpretation of the beneficial owner requirement (and thus a limited importance of facts that occur after the payment) is necessary in order to be able to make a proper distinction between the beneficial ownership requirement and the PPT [i.e. principal purpose test]»; sul fatto che tale contesto debba favorire una riappropriazione per la clausola del beneficiario effettivo della sua originaria funzione di criterio di attribuzione del reddito si veda Ballancin A., Direttrici evolutive della clausola del beneficiario effettivo: ritorno alle origini?, in Corr. trib., 2020, 5, 477).
In effetti, anche con riferimento alla Direttiva interessi e royalty, la funzione della clausola del beneficiario effettivo non sarebbe quella di definire una norma antiabuso ad ampio spettro, ma di delineare in primis un criterio di attribuzione degli interessi pagati, così da garantire che gli stessi risultino fiscalmente attribuibili, e dunque qualificabile come “pagati a”, una delle categorie di soggetti UE individuati dalla Direttiva stessa. Ciò traspare con sufficiente chiarezza anche dall’art. 1, comma 4, della citata Direttiva che individua il beneficiario effettivo nel soggetto che riceve il pagamento degli interessi “for its own benefit” escludendo espressamente proprio il caso degli agenti, intermediari e nominees – così come previsto dall’OCSE – nonché dal fatto che l’art. 5 della Direttiva fa salva l’applicazione di disposizioni nazionali o convenzionali necessarie per impedire frodi o abusi prevedendo, inoltre, che gli Stati membri, nel caso di transazioni aventi come obiettivo principale o come uno degli obiettivi principali l’evasione o l’elusione fiscale, o gli abusi, possono revocare i benefici della Direttiva o rifiutarne l’applicazione (secondo parte della dottrina, invece, tale espressione dovrebbe giustificare una lettura in chiave economica del concetto di beneficiario effettivo, così De Broe L., Should Courts in EU Member States take account of the ECJ’s judgement in the Danish Beneficial Ownership Cases when interpreting the beneficial owner requirement in tax treaties?, in Maisto G., a cura di, Current tax treaty issues, par. 16.1.4.1, Amsterdam, 2020; Weber D., EU beneficial ownership further developed: a view from a different angle, cit., 61).
Ciò, peraltro, giova ribadirlo, non esclude in alcun modo, come ben testimoniato dall’ordinanza in commento, che lo status di beneficiario effettivo non possa in concreto essere contestato facendo leva anche soltanto su elementi fattuali, in quanto ad es. indicativi di carenza di sostanza economica. Secondo l’OCSE, infatti, l’esistenza di un’obbligazione di ritrasferimento può ben essere inferita anche da “fatti e circostanze” (OCSE, Model Tax Convention on Income and on Capital, 2017, art. 11, par. 10.2). Ciò dovrebbe però costituire più l’eccezione che la regola. Per l’OCSE, infatti, gli elementi fattuali possono risultare rilevanti solo ove indichino in modo chiaro (clearly) l’esistenza di una siffatta obbligazione, atteso che la stessa “will normally derivefrom relevant legal documents”. Dunque, l’esame degli elementi fattuali deve essere svolto con estrema accortezza e, in ogni caso, non allo scopo – come in effetti sembra suggerire l’ordinanza in rassegna – di sostituirsi ad un’analisi degli elementi giuridici della fattispecie, visto che, in fin dei conti, quel che deve essere accertato è un profilo, per l’appunto, giuridico: l’esistenza di un’obbligazione di ritrasferimento (legale o contrattuale che sia) dello specifico pagamento ricevuto; ciò implica, inoltre, che gli elementi fattuali rilevanti ai fini di una contestazione antiabuso e quelli da assumere rispetto alla clausola del beneficiario effettivo non è detto che siano tra loro interscambiabili. Volendo esemplificare, infatti, nella Cause Danesi la Corte di Giustizia considera, quale elemento sintomatico di un abuso, anche il fatto di creare artatamente le condizioni per sfruttare l’introduzione di nuovi regimi fiscali di favore in vista del conseguimento di un vantaggio fiscale indebito (Corte di Giustizia, 26 febbraio 2019, casi riuniti C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, par. 133), ma tale aspetto non dovrebbe assumere alcuna rilevanza ai fini della clausola del beneficiario effettivo in cui l’onere della prova a carico del Fisco non ha ad oggetto l’illegittimità del vantaggio fiscale ricercato, ma solo ed esclusivamente la sussistenza di un’obbligazione di ritrasferimento.
Diversamente opinando, ed è forse proprio questo l’obiettivo ricercato dalla Cassazione, la clausola del beneficiario effettivo finirebbe per essere tout court riassorbita nel campo di applicazione del generale divieto di abuso del diritto costituendone un inutile (e fuorviante) doppione (sul punto si veda Commissione Europea, Proposal for a Council Directive on a common system of taxation applicable to interest and royalty payments made between associated companies of different Member States, COM[1998]67 final, 4 marzo 1998, 7, v. commento all’art. 3, lett. c nonché Hristov D., The Interest and Royalty Directive, in Lang M. – Pistone P. – Schuch J. – Staringer C., a cura di, Introduction to European Tax Law: Direct Taxation, Vienna, 2008, 188 e Terra B.J.M. – Wattel P.J., European Tax Law, Alphen aan den Rijn, 2008, 612).
Si tratta di un punto estremamente importante poiché, se correttamente compreso, confermerebbe, sulla scorta dell’ordinanza in commento e di quanto già denunciato precedentemente in dottrina (Contrino A., Note in tema di dividendi “intraeuropei” e “beneficiario effettivo”, tra commistioni improprie della prassi interna e nuovi approdi della giurisprudenza europea, cit., 106), l’illegittimità di una certa prassi accertativa dell’Amministrazione finanziaria sempre più incline a giustificare l’applicazione della clausola del beneficiario effettivo in termini di abuso e, dunque, facendo leva sulla mera assenza di sostanza economica, non preoccupandosi, invece, di provare in modo specifico la sussistenza di un’obbligazione di ritrasferimento giuridicamente apprezzabile ed avente ad oggetto lo specifico pagamento incassato (in tale ottica può essere interessante notare che ai sensi del comma 12 dell’art. 10-bis, L. n. 212/2000 l’abuso del diritto è contestabile solo ove la fattispecie non risulti accertabile in base ad altre disposizioni; dunque, l’art. 10-bis deve intendersi come una last resort provision e, quindi, una volta distinto l’abuso del diritto dalla clausola del beneficiario effettivo, presente ad es. nell’art. 26-quater D.P.R. n. 600/1973, l’art. 10-bis non dovrebbe poter essere utilizzato ad libitum per contestare una fattispecie di interposizione abusiva, ma soltanto in via residuale – ossia laddove, tornando all’esempio del predetto art. 26-quater, ciò non sia possibile utilizzando in modo specifico la clausola del beneficiario effettivo da esso recata). Il che, peraltro, dovrebbe suggerire, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia nelle Cause Danesi (Corte di Giustizia, 26 febbraio 2019, casi riuniti C-115/16, C-118/16, C-119/16 e C-299/16, par. 145), che è parte dell’onus probandi gravante in capo all’Amministrazione finanziaria anche l’individuazione del presunto beneficiario effettivo; se così non fosse, infatti, l’Amministrazione non potrebbe dedurre l’esistenza di alcuna obbligazione di ritrasferimento, visto che ne verrebbe a mancare un elemento costitutivo: il suo destinatario (e ciò, a ben vedere, dovrebbe valere anche ove venga invocato l’art. 10-bis atteso che ai sensi del relativo comma 9 la prova dell’indebito vantaggio fiscale è carico del Fisco e ciò, verosimilmente, richiede la preventiva identificazione del presunto beneficiario effettivo poiché diversamente non sarebbe possibile misurare l’ipotetico risparmio fiscale e la sua eventuale illegittimità; sul punto Avolio D. – Giannelli A., La responsabilità del sostituto d’imposta ai fini della clausola del “beneficiario effettivo”, in il fisco, 2021, 17, 1611). Tale aspetto non è però stato correttamente messo a fuoco nell’ordinanza in commento che, invero, si è limitata a recepire il principio enunciato dai giudici unionali non ritenendo, quindi, che l’Amministrazione finanziaria debba anche indicare l’identità del supposto beneficiario effettivo (par. 3.4).
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