La deduzione dei costi per “attività di ricerca” nel reddito d’impresa

Di Francesco Crovato -

Abstract

Il contributo si sofferma sulla deduzione dei costi per attività di ricerca. Queste attività in tutte le imprese hanno come scopo principale stimolare l’innovazione sia delle tecniche produttive sia dei prodotti. Appare interessante in questo contesto “leggere” la disposizione fiscale dell’art. 108, comma 3, TUIR, alla luce del concetto di immobilizzazione in corso e nella prospettiva di cogliere gli esiti dell’innovazione, senza duplicare deduzioni e al tempo stesso preservando costi fiscalmente riconosciuti non ancora “spesi” sul piano del reddito imponibile. Le interrelazioni fra diritto industriale, tributario e contabile, possono in questo senso migliorare l’informativa di bilancio su investimenti duraturi, talvolta veri e propri fattori industriali distintivi, valorizzando ed esprimendo al meglio l’innovazione e i beni immateriali delle imprese.

Deduction of costs related to “research activities” in business income. – The article focuses on the deduction of costs for research activities. The main aim of these activities in all companies is to stimulate innovation in both production techniques and products. It is interesting in this context to “interpret” the fiscal provision of art. 108, paragraph 3, TUIR, in the light of the concept of immobilization in progress and in the perspective of capturing the output of innovation, without duplicating deductions and at the same time preserving eligible tax costs, which are not yet deducted on the taxable income. The interrelations between industrial law, tax law and accounting law may improve financial reporting on long term investments, that may sometimes represent the real distinctive industrial factors, enhancing and stressing the innovation and the intangible assets in these companies.

 

Sommario: 1. Ricerca e innovazione tra deduzioni e crediti d’imposta. – 2. Gli investimenti in “attività di ricerca” nell’art. 108 TUIR. – 3. Il ruolo delle immobilizzazioni in corso per comprendere la disposizione fiscale. – 4 La possibilità che la ricerca abbia esito negativo – 5. La scarsa percezione dell’innovazione nel bilancio. – 6. Una prospettiva combinata (diritto industriale, diritto tributario e modelli contabili) per valorizzarla.

1. La ricerca è divenuta attività imprescindibile in tutti i settori produttivi ed in particolare per le imprese proiettate sull’inventiva, sulla progettazione, dalle quali dipendono anche le efficienze produttive e distributive dei beni. L’attenzione ai temi della ricerca e dell’innovazione è cresciuta di pari passo anche a livello istituzionale, con un incremento significativo degli incentivi pubblici (si possono qui ricordare il Piano Transizione 4.0 e in precedenza il Piano Industria 4.0). Tanto che non è facile comprendere in quale misura sia l’interesse pubblico a stimolare quello privato o sia quest’ultimo a sollecitare, e trainare, l’attenzione istituzionale.

Comunque sia, lo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni ha trasformato radicalmente il modo di “fare impresa” e si è manifestata l’esigenza di sostenere, da un lato, gli investimenti delle imprese più innovative che accelerano lo sviluppo del sistema e, dall’altro, i processi di rinnovamento delle imprese tradizionali. Tra i numerosi strumenti pubblici che fungono da “acceleratori” dei processi di ricerca e innovazione si può qui ricordare il credito d’imposta per le attività di ricerca, sviluppo, innovazione e design (CIRSI) introdotto dalle Legge di bilancio 2020, e modificato dalla Legge di bilancio 2021(in generale, sulle misure fiscali di favore riservate all’innovazione industriale e alla ricerca si vedano Boria P., La ricerca e l’innovazione industriale come fattori di una fiscalità agevolata, in Riv. dir. trib., 2017, 5, I, 1869 ss.; Leone F., La fiscalità di vantaggio tramite il regime del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, in La fiscalità del food and beverage, a cura di Crovato F., Rimini 2021, 289 ss., quest’ultimo Autore sia in generale sia con esempi concreti riferiti a un settore d’impresa).

Nonostante questa attenzione da parte delle istituzioni, l’attività di ricerca agevolabile non trova una precisa definizione nel nostro ordinamento (come sottolinea Boria P., La ricerca e l’innovazione industriale, cit., par. 4.1).

Il più delle volte non vi è comunque necessità di rigide definizioni, soprattutto quando si tratta di aiuti finanziari tradizionali alle imprese con identificazione di alcune attività e alcuni costi agevolabili. In questo caso siamo infatti di fronte incentivi che presuppongono una procedura di assegnazione e una valutazione dei progetti presentati; l’ente gestore dell’aiuto ha il compito di verificare la coerenza del progetto con le attività ammesse, senza che si renda necessario qualificare preventivamente il progetto.

Questa necessità emerge invece con forza per gli incentivi automatici, come i crediti di imposta sopra ricordati, dove per di più si associa una misura agevolativa diversa a seconda che l’attività svolta sia classificabile come ricerca e sviluppo, innovazione e via enumerando. La loro autoliquidazione comporta infatti assenza di analisi preventiva da parte delle Autorità fiscali competenti. Questo senza dubbio diminuisce gli aspetti burocratici, ma costringe il contribuente a compiere scelte interpretative di inquadramento giuridico ex ante, che potrebbero in seguito essere disconosciute dagli uffici tributari, soprattutto quando vi è una certa carenza definitoria (un ausilio per il credito ricerca e sviluppo viene comunque dal decreto attuativo del Mi.SE del 2020 che rinvia anche a documenti internazionali come la comunicazione della Commissione – 2014/C 198/01 – del 27 giugno 2014, concernente la “Disciplina degli aiuti di Stato a favore di ricerca, sviluppo e innovazione” e i Manuali di Oslo e Frascati).

I meccanismi di incentivazione tramite credito d’imposta operano in ogni caso sul piano della riscossione dei tributi e non incidono sulla deduzione dei costi sostenuti dal reddito d’impresa che rimangono ordinariamente deducibili, dovendo passare al vaglio del principio di inerenza e delle regole ordinarie contenute nell’art. 108 TUIR (sul tema si veda Falsitta G. – Moschetti F., I costi di ricerca scientifica nell’evoluzione del concetto di inerenza, Milano, 1988), oggetto di approfondimento in questo contributo.

Anche la disposizione dedicata a questa tipologia di investimenti nel reddito d’impresa si limita a richiamare il concetto di “attività di ricerca” senza definirlo. Ma in questo caso una definizione legislativa non è necessaria e per la ricostruzione della nozione di spesa di ricerca viene in ausilio la tecnica contabile per il rapporto di intima derivazione che ormai connota la determinazione del reddito d’impresa.

2. Da alcuni anni infatti il diritto tributario rinvia sempre più ai criteri civilistici e ai principi contabili sulle valutazioni di bilancio. Dopo un avvio riservato alle grandi aziende che utilizzavano i principi contabili internazionali (c.d. IAS/IFRS), oggi per tutte le società, salvo quelle “minori”, la qualificazione delle operazioni e la loro classificazione in bilancio (oltre che la loro imputazione temporale) seguono anche fiscalmente i principi contabili (sul tema, Zizzo G., a cura di, La fiscalità delle società IAS/IFRS, Milano, 2018; Crovato F., a cura di, La fiscalità degli IAS, Milano, 2011; Tinelli G., Bilancio di esercizio, principi contabili internazionali ed accertamento tributario (parte II), in Riv. dir. trib., 2010, 3, I, 283; Salvini L., Gli IAS/IFRS e il principio fiscale di derivazione, in Aa. Vv., IAS/IFRS, La modernizzazione del diritto contabile in Italia, del diritto contabile, Milano, 2007, 193; Stevanato D., Dal principio di derivazione alla diretta rilevanza dei principi contabili internazionali nella determinazione del reddito d’impresa, in Dialoghi trib., 2008, 1, 72 ss.; Corasaniti G., I principi contabili internazionali nel Testo Unico delle imposte sul reddito, in Camodeca R., a cura di, Bilancio di esercizio ed imposizione tributaria, Padova, 2014, 231; Grandinetti M., Il principio di derivazione nell’Ires, Padova, 2016, 176). Sarà quindi in base ai principi contabili che occorrerà inserire nella contabilità e nel bilancio anche i costi legati alle attività di ricerca.

A questo proposito, nei documenti che contengono i criteri di redazione del bilancio ovvero i principi contabili nazionali – OIC – e i principi contabili internazionali – IAS/IFRS, emerge che l’attività di ricerca è diretta a un arricchimento delle conoscenze utili all’impresa riferibili ai prodotti, al processo produttivo, e via enumerando, con due fasi principali, la “ricerca” e lo “sviluppo”.

Questa distinzione fra le due fasi diventa significativa anche per il diritto tributario. Tra l’altro, la disposizione fiscale attuale ha abbandonato la precedente impostazione che lasciava scegliere al contribuente fra la deduzione nell’esercizio di sostenimento e la deduzione in quote costanti nell’esercizio e in quelli successivi ma non oltre il quarto. L’art. 108 TUIR disciplina ora esplicitamente solo l’eventuale risultato degli studi e delle ricerche. Le quote di ammortamento dei beni eventualmente ottenuti a seguito della ricerca – stabilisce la disposizione – “sono calcolate sul costo degli stessi diminuito dell’importo già dedotto”.

Se ne desume dunque che quando le attività di ricerca sono prive di utilità pluriennale dovranno essere necessariamente dedotte come costo d’esercizio. La ripartizione in più esercizi è ammessa solo nel caso di utilità pluriennale effettiva e non in ragione di una scelta del contribuente. E diventa dunque determinante distinguere i “costi di ricerca” dai “costi per lo sviluppo” vero e proprio. Solo questi ultimi, a determinate condizioni, possono infatti essere capitalizzati. Si tratta in questo caso di una facoltà per i principi contabili nazionali, di un obbligo solo per gli IAS. Così in particolare l’OIC 24 richiede, ai fini della capitalizzazione, che i costi di sviluppo siano relativi ad un prodotto o processo chiaramente definito, identificabile e misurabile; siano riferiti ad un progetto tecnicamente realizzabile per il quale la società possa disporre delle necessarie risorse; siano recuperabili attraverso i ricavi che si prevede di realizzare grazie al progetto. I ricavi dovrebbero essere almeno sufficienti a coprire i costi sostenuti per lo studio del progetto, dopo aver dedotto tutti gli altri costi di sviluppo, i costi di produzione e di vendita.

Dunque, la fase della ricerca comprende tutte le attività di studio antecedenti all’eventuale sviluppo, prima che l’attività sperimentale permetta eventualmente di individuare con chiarezza un prodotto o un processo da realizzare. Tanto che la ricerca può anche rimanere tale se si tratta di studi, esperimenti e indagini che non hanno o non approdano a un obiettivo specifico. La fase dei costi di sviluppo comincia in un momento eventuale e successivo, quando si è individuato il prodotto o il processo da sviluppare.

L’esito della ricerca potrebbe essere anche un bene immateriale individuato e protetto giuridicamente in modo idoneo in quanto innovativo e originale. La disposizione fiscale si occupa esplicitamente – come anticipato – proprio di eventuali “beni” esito della ricerca e della loro valorizzazione che deve avvenire in base ai costi non ancora dedotti. Si tratta dunque, una volta ottenuto il bene, di capitalizzare su di esso i costi di ricerca non ancora dedotti ai fini reddituali e seguire a quel punto il regime di ammortamento previsto per il bene ottenuto (ad esempio, un brevetto, una forma, un modello, design di confezionamento, e via enumerando). Per comprendere appieno il significato della disposizione tributaria occorre però fare una digressione sul concetto di immobilizzazione in corso, come segue.

3. Dal punto di vista civilistico le immobilizzazioni in corso hanno un ruolo significativo per il tema trattato in questo contributo. Sono infatti rappresentate «dai costi interni ed esterni sostenuti per la realizzazione di un bene immateriale per il quale non sia stata ancora acquisita la piena titolarità del diritto (nel caso di brevetti, marchi, ecc.) o riguardanti progetti non ancora completati (nel caso di costi di sviluppo)» (OIC 24, par. 14). I costi interni ed esterni sono ad esempio costi del lavoro, materiali, consulenza, e via enumerando.

Non è detto dunque che i costi di sviluppo possano essere direttamente iscritti fra le immobilizzazioni immateriali, e ammortizzati. Il costo di sviluppo in quanto tale non “esiste” ancora dal punto di vista civilistico, e naturalmente anche da quello fiscale per il principio di derivazione, se il progetto non è stato completato; si tratta per il momento di un’immobilizzazione in corso.

Solo una volta ricorrano tutti i requisiti richiesti dai principi contabili, i costi sostenuti possono essere “trasferiti” nella classe di riferimento dell’attivo immobilizzato e comincia il processo di ammortamento. Detto altrimenti, fino a quel momento (ovvero finché il progetto non è portato a termine) è come ci trovassimo di fronte a una crisalide a uno stadio non ancora sufficientemente maturo per divenire costo di sviluppo o diritto immateriale.

Se l’obiettivo è realizzare un prodotto o un processo che l’impresa non può, o non intende, proteggere giuridicamente, i costi vengono sospesi nelle immobilizzazioni in corso per essere in seguito trasferiti nell’ambito dei costi di sviluppo. Se scopo del progetto è, invece, approdare a un diritto, come per esempio un brevetto, l’impresa sospende i costi finché non lo ottiene, iscrive il diritto nell’attivo dello stato patrimoniale e a quel punto inizia l’ammortamento in ragione della disciplina di riferimento.

In entrambi i casi dunque si sospendono i costi, ma il costo di sviluppo è assoggettato a una diversa e più restrittiva regola di ammortamento, la cui durata (quando la vita utile non è stimabile attendibilmente) è tassativamente fissata in cinque anni; per la capitalizzazione occorre inoltre il consenso del collegio sindacale. Se la ricerca approda invece a un brevetto o a un altro diritto immateriale, l’impresa deve programmare il processo di ammortamento stimando la vita utile del bene, tenendo conto dei vincoli collegati a sistemi di registrazione funzionali alla protezione giuridica; e anche ai fini fiscali dovrà applicare specifiche discipline.

Il costo di sviluppo potrebbe riferirsi ad esempio a una ricerca finalizzata a un nuovo tipo di pellicola protettiva per il confezionamento di prodotti alimentari. La ricerca inizierà studiando un imprecisato numero di materiali e fino a quel punto rimarrà tale, generando costi di periodo. Quando la sperimentazione porterà ad individuare un materiale interessante, con una data composizione, e si inizierà a lavorare a uno specifico progetto con lo scopo di ottenere un nuovo tipo di packaging da immettere sul mercato, ecco cominciare la fase di sviluppo. Il progetto partirà come immobilizzazione in corso e quando lo sviluppo del bene sarà terminato, ottenendo il nuovo prodotto, i costi sospesi sul progetto potranno essere riclassificati fra i costi di sviluppo (nell’esempio, riferiti al nuovo packaging) e inizierà l’ammortamento, di regola di durata quinquennale.

Se invece il progetto ha dato luogo ad un intangibile, come un brevetto per il nuovo materiale, informazioni riservate di processo (il c.d. know-how) o design di confezionamento, i costi sospesi verranno riclassificati sul bene immateriale ottenuto, e l’ammortamento seguirà le regole previste per quella specifica categoria di bene.

La norma tributaria si adatta, a ben vedere perfettamente, a questo percorso.

La ricerca potrebbe nascere senza essere ancora finalizzata a uno progetto definito, con la deduzione di costi di periodo. Potrebbe proseguire con l’individuazione di un programma specifico e di una timeline dedicata, nel qual caso viene “abbandonata” la fase della ricerca e inizia quella dello sviluppo. Tutti i costi sostenuti per il progetto sono immobilizzazioni in corso fin quando il progetto non viene completato, e i costi sono dunque sospesi anche ai fini fiscali per effetto dell’impostazione contabile adottata in bilancio.

Il progetto potrebbe infine sfociare in un prodotto, in un processo o finanche in un diritto oggetto di privativa. Quando nasce il vero e proprio costo di sviluppo capitalizzato, o viene iscritto un diritto fra le immobilizzazioni immateriali, ci sarà dunque una storia pregressa di costi già dedotti, e solo in parte sospesi, oppure fin dall’inizio sospesi perché relativi a un progetto specifico.

Appare molto interessante in questo contesto la disposizione fiscale dell’art. 108, comma 3, TUIR, che può essere letta nella prospettiva di cogliere gli output dell’innovazione, senza duplicare deduzioni e al tempo stesso preservando costi fiscalmente riconosciuti non ancora “spesi” sul piano del reddito imponibile. Questa disposizione assicura infatti che il risultato degli studi e delle ricerche, ovvero i beni acquisiti al termine di tali attività (come processi e prodotti, nonché diritti), abbiano un valore fiscale pari al «costo degli stessi diminuito dell’importo già dedotto».

Dunque, se nel processo di studio e ricerca l’impresa aveva inizialmente spesato dei costi imputandoli direttamente a conto economico, ad esempio perché riteneva l’esito della ricerca ancora incerto, non potrà più utilizzare quei costi che non potranno coerentemente più far parte del valore del bene o diritto ottenuto: diversamente, determinerebbero una doppia deduzione. I costi che erano invece rimasti “sospesi” nelle immobilizzazioni in corso verranno trasferiti, anche fiscalmente, sullo sviluppo o sul diritto esito degli investimenti effettuati. Si tratta dunque di una disposizione che assicura un allineamento convincente col concetto di costi di ricerca e sviluppo della contabilità.

4. Ovviamente se il progetto di ricerca e innovazione porta a un nulla di fatto, l’intero importo dei costi sospesi sarà imputato a conto economico; e anche fiscalmente la deducibilità dei costi non potrà essere rimessa in discussione per difetto di inerenza sulla base di una valutazione a posteriori. La contestazione è però possibile tanto che la stessa giurisprudenza è dovuta intervenire per ribadire, ove ve ne fosse bisogno, che le spese per l’attività di ricerca e sperimentazione possono essere pienamente dedotte anche quando abbiano avuto un esito deludente (si veda, in questa direzione, Cass. 23 ottobre 2006, n. 22786 su cui si leggano le considerazioni di Giorgi S., I beni immateriali nel sistema del reddito d’impresa, 2020, Torino,172). Cosa che potrebbe verificarsi con una certa frequenza proprio per le imprese più innovative e per i beni immateriali: una ricerca nuova e originale, e perciò più rischiosa e dagli esiti incerti, potrebbe rivelarsi qualche volta fallimentare e non portare ad alcun risultato. L’insuccesso tecnico potrebbe anzi paradossalmente avvalorare l’esistenza di un’attività di ricerca e sviluppo inerente, provando le incertezze scientifiche e tecnologiche dell’attività svolta. Una conferma a quanto sopra si rinviene, da ultimo, anche nella normativa sull’incentivo per ricerca, sviluppo e innovazione dove si legge che «Si considerano ammissibili al credito d’imposta le attività svolte in relazione a un progetto di ricerca e sviluppo che persegua tale obiettivo anche nel caso in cui l’avanzamento scientifico o tecnologico ricercato non sia raggiunto o non sia pienamente realizzato» (cfr. art. 2, decreto Mi.SE 26 maggio 2020).

5. Un ruolo basilare nelle attività di ricerca ha l’innovazione, decisiva per apportare conoscenze incrementali, come emerge anche nella prospettiva europea (Arginelli P. – Pedaccini F., Prime riflessioni sul regime italiano di patent box in chiave comparata ed alla luce dei lavori dell’OCSE in materia di contrasto alle pratiche fiscali dannose, in Riv. dir. trib., 2014, 9, V, 60 s.) e in particolare nei documenti internazionali sulla promozione – anche tributaria – della ricerca (si veda Commissione UE, Oslo Manual, Bruxelles, 2005, 9 e 31 ss.).

In Italia, di regola, la ricerca innovativa nella maggior parte dei settori d’impresa è considerata però dal lato degli input nell’aggregato spese di ricerca e sviluppo, più che da quello degli output. Insomma, i costi non vengono isolati come tali e capitalizzati, ma trattati insieme agli altri costi di periodo e confluiscono in una voce complessiva che non porta a identificare la capacità innovativa delle imprese, al di là di quanto possa fare la semplice evidenziazione delle spese di R&S.

Naturalmente vi sono eccezioni. Nel settore farmaceutico, ad esempio, esistono prassi consolidate nel gestire i costi sviluppo, così come nelle società di scopo appositamente costituite per realizzare nuovi progetti industriali. In questi casi esiste una “storia” di capitalizzazione dei costi di sviluppo e procedure sperimentate e stabili.

In altri settori d’impresa, la tendenza generale sullo sviluppo e sugli intangibili è invece ben diversa. Spesso gli output della ricerca (know-how, modelli, forme, ecc.) non trovano valorizzazione nell’attivo dello stato patrimoniale. Nei bilanci delle imprese si vede il marchio, di rado il know-how, ancor più raramente forme e modelli, denotando una scarsa abitudine a riconoscere l’output dell’attività immateriale.

Questa tendenza è in parte ascrivibile ai modelli contabili generalmente applicabili che limitano la capitalizzazione dei costi sostenuti. Inoltre, per coloro che redigono il bilancio secondo le regole del codice civile, inserire i costi di sviluppo fra le attività immateriali rimane comunque un comportamento facoltativo, anche quando vi siano i presupposti per farlo.

Si pone anche una questione di valore. Il sistema italiano infatti è notoriamente ancorato al concetto di costo storico, e pure quando gli intangibili sono rilevati si crea una grossa forbice fra il loro valore di mercato e i costi sostenuti (a volte questo costo è molto ingente, ma spesso – pensiamo a un marchio – consiste nel costo del deposito e poco altro, anche se dal punto di vista degli investitori e del mercato è molto importante), tanto che solo in caso di business combination (più rara l’eventualità di “cessioni” di singoli diritti, non sussistendo un mercato attivo per tali attività) il valore reale degli intangible può emergere anche dal punto di vista del bilancio nella società acquirente.

Se da un lato c’è questo aspetto, il punto vero tuttavia è che spesso questi costi non vengono proprio capitalizzati anche quando un progetto è identificato e un effettivo sviluppo è realistico e individuabile. Rilevarli nel bilancio sarebbe il comportamento più coerente, ma i principi contabili e le indicazioni normative lasciano un ampio margine di discrezionalità, per cui spesso le imprese privilegiano la soluzione più semplice imputando direttamente i costi a conto economico.

Probabilmente non si è lontani dal vero nell’affermare che i modelli contabili non riescono attualmente a misurare compiutamente l’output delle attività di R&S e a seguire l’innovazione di prodotto e di processo. Questa impostazione dipende anche dalle diverse finalità del reporting bilancistico rispetto a un reporting di tipo valutativo. In ogni modo, spesso le opportunità di migliorare la percezione del valore dell’azienda esisterebbero lo stesso – pur considerando le differenti finalità – anche attraverso uno strumento di rendicontazione consuntiva, e in parte statica, quale il bilancio d’esercizio ordinario. Ma cedono il passo a favore di soluzioni contabili meno sofisticate e in ottica di mera compliance.

L’aggregato “spese di R&S” nel suo insieme in questo senso non è significativo nel fornire informazioni sui risultati e nel mettere in evidenza le capacità di innovazione delle imprese; non riesce cioè ad esprimere i livelli di efficienza ed efficacia dei processi di ricerca evidenziando, quando è il caso, gli esiti di queste attività, al di là – lo ripetiamo – di quanto possa fare la semplice evidenziazione in bilancio delle spese di R&S sostenute nell’anno. Talvolta si registra, almeno nelle società non quotate, un approccio “minimale” anche nella stesura della relazione sulla gestione che, a corredo del bilancio, secondo l’art. 2428 c.c. avrebbe il compito di fornire informazioni sull’andamento della gestione e le attività di ricerca e sviluppo.

6. Una strada da percorrere in futuro potrebbe essere allora quella di concentrare l’attenzione sulle fasi dove le attività sperimentali si realizzano, utilizzando metodi di rilevazione, valutazione e rappresentazione in bilancio dei costi che consentano di apprezzare l’efficacia degli investimenti sia nella fase di ideazione sia in quella di realizzazione di nuovi prodotti, processi, brevetti, forme, modelli e altri intangible.

Del resto sul piano dei principi contabili, sia nazionali che internazionali, le possibilità di capitalizzare esistono eccome. I principi contabili nazionali (in particolare, l’OIC 24) inseriscono nella voce B.I.2 (Costi di sviluppo) i costi sostenuti dall’impresa per la costruzione o la realizzazione interna di immobilizzazioni immateriali, costi che rilevati nel corso dell’esercizio possono essere stornati dai componenti di reddito e rilevati tra le attività patrimoniali. Ancora includono in questa posta i costi per la progettazione, la costruzione e la verifica di prototipi o modelli che precedono la produzione o l’utilizzo degli stessi. Sempre il principio contabile nazionale sulle immobilizzazioni immateriali (OIC 24) inserisce poi nella voce B.I.3 “Diritti di brevetto industriale e diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno” i costi, sia di produzione interna sia di acquisizione esterna, dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, di brevetti per modelli di utilità e per modelli e disegni ornamentali (nella voce B.I.4 troviamo invece “Concessioni, licenze, marchi e diritti simili”). Naturalmente in presenza delle condizioni previste, come la recuperabilità dei costi di iscrizione tramite i benefici economici futuri derivanti dall’applicazione dei diritti, la possibilità di determinare in maniera attendibile il costo per l’impresa, e via enumerando.

Anche per i principi contabili internazionali nella fase di sviluppo è possibile identificare l’attività immateriale e dimostrare che genererà probabili benefici economici in futuro. Si tratta, anche qui, di una fase più avanzata rispetto a quella di ricerca, e quando ci si trova a questo stadio le spese sostenute devono essere rilevate in bilancio iscrivendo l’attività immateriale, sempreché l’impresa sia in grado di dimostrare alcune condizioni relative all’attività. Soddisfatte queste condizioni, il valore dell’attività immateriale corrisponderà a tutte le spese necessarie per creare, produrre e preparare l’attività in modo che essa sia in grado di operare. Sotto il profilo definitorio (si veda lo IAS 38) vi sono dunque sostanziali punti di contatto con i principi contabili nazionali, mentre resta la divergenza sulla necessità/possibilità di iscrivere l’attività immateriale (perché lo IAS 38 obbliga a iscrivere il costo di sviluppo come attività immateriale in bilancio, mentre per l’OIC 24 l’iscrizione dell’attività è una mera facoltà).

Occorre dunque apprezzare l’aspetto contabile non solo come semplice compliance con il set di regole previste, ma con una visione di insieme anche del business e delle strategie portate avanti dal management di un’impresa. In particolare, è opportuno soffermarsi su modelli di analisi più sofisticati che trasmettano tutte le informazioni per formulare una valutazione fondata della capacità dell’impresa di creare valore. Framework che consentano di rappresentare al meglio i fattori produttivi strumentali dell’azienda, fattori che spesso sono distintivi e indicatori di innovazione.

Evidenziare un fattore distintivo (al di là dell’aspetto costo/valore di mercato) significa inviare un messaggio importante ai lettori del bilancio, che finisce per mancare del tutto se i costi finiscono genericamente nel “calderone” del conto economico (dunque rappresentati, sostanzialmente, solo come supporto ordinario all’attività d’impresa della società). In questo caso non verranno mai commentati e, anche nel caso lo fossero, nel bilancio successivo saranno inevitabilmente già dimenticati. Se invece i fattori distintivi vengono rilevati e rimangono iscritti per cinque o sei bilanci nel caso di un costo di sviluppo, o per un periodo più lungo quando l’impresa decide di registrare un diritto di privativa (con un asset all’attivo dello stato patrimoniale collocato fra le immobilizzazioni immateriali e con un periodo di ammortamento che evidenzia anche a conto economico la presenza dell’intangible), la rappresentazione contabile consente di restituire un’immagine più precisa dei punti di forza dell’impresa, con informazioni di carattere strategico.

A livello di singola impresa, questo aiuterebbe a comprendere meglio la capacità delle scelte aziendali di creare valore. Le informazioni che assumono rilievo per valutare i contenuti delle attività di R&S dipendono naturalmente dalle peculiarità del settore osservato che ha proprie caratteristiche e specificità. Ad esempio, riferendoci alle direttrici dell’innovazione in concreto settore d’impresa (su cui La fiscalità del food and beverage, a cura di Crovato, Rimini, 2021, capitoli 11, 12 e 13), l’industria alimentare italiana è in grado di esprimere brevetti e generare know-how di grande rilevanza competitiva e in molti segmenti di mercato, dal vitivinicolo al caseario, dagli integratori alimentari alle bevande energetiche. Anche il packaging alimentare può essere oggetto di diverse privative, dal brevetto per un materiale innovativo al marchio tridimensionale fino al profilo di privativa – più interessante da approfondire sul tema – del design di confezionamento.

Rilevare nel bilancio gli sforzi innovativi dell’impresa, sempre chiaramente nel rispetto di tutti i postulati di bilancio, apre anche altre prospettive interessanti, se si tiene presente che l’informazione sulle attività di R&S riveste un significato che va ormai ben oltre i confini della mera tecnica contabile.

Sul piano fiscale è possibile accedere alle agevolazioni previste per favorire l’innovazione come nel caso della Patent Box, o alla rivalutazione dei beni d’impresa che in alcune finestre temporali la legislazione fiscale consente. A ben vedere, proprio dal lato tributario, con l’introduzione del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, le società hanno cominciato ad acquisire una maggiore consapevolezza sugli output di queste attività. Le opportunità non colte sono molte anche sul piano del diritto industriale.

Ma non si tratta di guardare a queste discipline solo per cogliere opportunità. Le interrelazioni fra diritto industriale, tributario e contabile, possono migliorare l’informativa di bilancio e la stessa gestione aziendale. Se il business punta su investimenti duraturi, questi dovrebbero essere valorizzati e considerati come fattori industriali distintivi, con necessità di un monitoraggio costante e puntuale dei risultati ottenuti per dimostrare la loro recuperabilità con finalità bilancistiche (di impairment) e appunto strategiche. Proprio queste interrelazioni e sinergie sembrano essere la chiave per valorizzare ed esprimere al meglio l’innovazione e i beni immateriali delle imprese italiane, anche perché non sempre vi è una diffusa consapevolezza della loro esistenza e rilevanza. Con una serie di indicatori inseriti all’interno dei documenti di bilancio, al di là di della semplice evidenziazione delle spese di R&S, si potrebbe invece far percepire la creazione di valore conseguita dall’impresa; e consentire che essa sia opportunamente riflessa anche all’esterno nelle quotazioni di mercato e nei prezzi.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Sulle spese di ricerca al vaglio del principio di inerenza e delle regole ordinarie di deduzione dal reddito d’impresa si veda Falsitta G – Moschetti F., I costi di ricerca scientifica nell’evoluzione del concetto di inerenza, Milano, 1988. Più di recente, Giorgi S., I beni immateriali nel sistema del reddito d’impresa, 2020, Torino.

In linea generale, sulle misure fiscali di favore riservate all’innovazione industriale e alla ricerca Boria P., La ricerca e l’innovazione industriale come fattori di una fiscalità agevolata, in Dir. prat. trib., 2017, 5, I, 1869 ss.; Leone F., La fiscalità di vantaggio tramite il regime del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, in Crovato F., (a cura di), La fiscalità del food and beverage, Rimini 2021, 289 ss. e capitolo 7, quest’ultimo Autore sia in generale sia con esempi concreti riferiti a un settore d’impresa. Per una lettura in materia di innovazione nella prospettiva europea si veda Arginelli P. – Pedaccini F., Prime riflessioni sul regime italiano di patent box in chiave comparata ed alla luce dei lavori dell’OCSE in materia di contrasto alle pratiche fiscali dannose, in Riv. dir. trib., 2014, 9, V, 60 ss.)

Sul tema della derivazione (importante per cogliere anche il concetto di attività di “ricerca e sviluppo”), in generale fra molti Zizzo G. (a cura di), La fiscalità delle società IAS/IFRS, Milano, 2018; Crovato F. (a cura di), La fiscalità degli IAS, Milano, 2011; Tinelli G., Bilancio di esercizio, principi contabili internazionali ed accertamento tributario (parte II), in Riv. dir. trib., 2010, 3, I, 267 ss. Salvini L., Gli IAS/ IFRS e il principio fiscale di derivazione, in Aa.Vv., IAS/IFRS, La modernizzazione del diritto contabile in Italia, del diritto contabile, Milano, 2007, 193 ss.; Stevanato D., Dal “principio di derivazione” alla diretta rilevanza dei principi contabili internazionali nella determinazione del reddito d’impresa, in Dialoghi trib., 2008, 1, 72 ss.; Corasaniti G., I principi contabili internazionali nel Testo Unico delle imposte sul reddito, in Camodeca R. (a cura di), Bilancio di esercizio ed imposizione tributaria, Padova, 2014, 231 ss.; Grandinetti M., Il principio di derivazione nell’Ires, Padova, 2016, 176 ss.

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