Riflessioni critiche sul collegamento fra autotutela “sostitutiva” e principio di “perennità’” dell’azione impositiva

Di Antonio Perrone -

Abstract

Con opinabile orientamento, la Suprema Corte ha esteso i confini dell’autotutela c.d. sostitutiva fino a ricomprendervi un principio di “perennità” dell’azione amministrativa, che mal si raccorda, laddove non ne nega addirittura la ratio sottostante, con la disciplina positiva che regola i presupposti per l’esercizio della funzione impositiva e per la sua rinnovazione. Siffatto principio, peraltro, appare in contrasto con quello della “buona amministrazione” (diretta declinazione dell’art. 97 Cost.) nella misura in cui essa trova la sua moderna dimensione nell’essere anche strumento di tutela dell’amministrato dall’esercizio (extra ordinem) dei pubblici poteri.

Remarks on Italian Supreme Court case law that allows domestic tax officers to “freely” delete a tax assessment and renew it. – The Italian Supreme Court has confirmed its case law that allows Italian tax officers to delete a tax assessment and renew it in absence of new and different items, by simply reconsidering their previous evaluations, thus arising critical issues in complaining with principles ruling domestic tax assessment. In particular, this could result in breach of the “fair administration” principle, issued by art. 97 of Italian Constitution, insofar as it aims to protect also taxpayer’s right of certainty in legal relationship with the Public Administration.

 

 

Sommario: 1. I principi di diritto contenuti nell’ordinanza n. 27706/2022 della Suprema Corte. – 2. Inconciliabilità del principio di perennità con la teoria che vede nell’autotutela tributaria l’esercizio del medesimo potere che caratterizza la funzione impositiva. – 3. Distonie (sull’esistenza del principio di perennità) fra l’ordinanza n. 27706/2022 della Suprema Corte e la sentenza n. 181/2017 della Consulta. – 4. Il principio di perennità mal si raccorda con la disciplina che regola i presupposti per l’esercizio della funzione impositiva e la sua rinnovazione. – 5. Il principio della “buona amministrazione” come limite al “principio di perennità”.

 

 

1. Con l’ordinanza n. 27706, pubblicata il 22 settembre 2022, la sez. V civ. della Suprema Corte ha consolidato ed ulteriormente ribadito un suo orientamento che sostanzialmente si articola nel far derivare dall’autotutela “sostitutiva” (sul tema, senza pretesa di esaustività, cfr. Stevanato D., L’autotutela dell’amministrazione finanziaria. L’annullamento d’ufficio a favore contribuente, Padova, 1996, 16 ss.; Ficari V., Autotutela e riesame nell’accertamento del tributo, Milano, 1999, 60 ss.; Rossi P., Il riesame degli atti di accertamento. Contributo allo studio del potere di annullamento d’ufficio a favore del contribuente, Milano, 2008; più di recente, Donatelli S., Profili ricostruttivi dell’avviso di accertamento modificativo, in Dir. prat. trib., 2022, 3, 759 ss.; Guarini K., Limiti all’esercizio dell’autotutela in Dir. prat. trib., 2022, 4, 1385 ss.), che comporta l’annullamento d’ufficio dell’atto d’imposizione e la sua sostituzione con uno successivo, un principio c.d. di “perennità” (condizionata) dell’azione impositiva.

L’ormai granitica posizione della Corte suscita, in chi scrive, non poche perplessità e solleva, al contempo, questioni giuridiche di non secondario spessore, per affrontare le quali si impone però, preliminarmente, un rapido richiamo ai principi che la Cassazione, richiamando diversi suoi precedenti, ha affermato nell’ordinanza in commento. Essi possono così sintetizzarsi:

  • il potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria ha carattere generale, per cui l’annullamento d’ufficio di un atto e la sua sostituzione con uno successivo possono essere legittimamente attuati sino al momento in cui su quell’atto non si sia formato un giudicato (sostanziale), ovvero sino a quando non sia decorso il termine decadenziale di accertamento previsto dalle singole leggi d’imposta per l’emanazione dell’atto sostitutivo (la Suprema Corte opera qui un esteso richiamo a suoi precedenti in materia: Cass., sez. V, 2 febbraio 2022, nn. 3267, 3268; Cass., sez. V, 7 dicembre 2021, n. 38744; Cass., sez. V, 30 giugno 2021, n. 18446; Cass., sez. V, 30 giugno 2021, n. 18388; Cass., sez. V, 23 giugno 2021, n. 17924; Cass., sez. II, 28 ottobre 2019, n. 27481; Cass., sez. II, 31 maggio 2017, n. 24994; Cass., sez. III, 7 aprile 2009, n. 8379);
  • in assenza del giudicato o della decadenza, l’autotutela sostitutiva è, non solo legittima, ma addirittura doverosa, in ossequio al c.d. “principio di perennità”, cui soggiace l’Amministrazione finanziaria, ed in ragione del quale – secondo quanto riferito dal Pubblico Ministero nelle sue conclusioni scritte, che la Corte mostra di condividere – «l’esercizio del potere di autotutela non implica consumazione del potere impositivo, sicché, rimosso con effetto ex tunc l’atto di accertamento illegittimo od infondato, la Amministrazione finanziaria conserva ed anzi è tenuta ad esercitare – nella permanenza dei presupposti di fatto e di diritto – la potestà impositiva». Siffatto principio, secondo i giudici di legittimità, si riferisce in generale all’azione amministrativa e trova fondamento negli artt. 53 e 97 Cost. Esso risponde «all’esigenza di continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico», poiché il potere dell’Autorità che adotta l’atto non si esaurisce unicamente nella verifica della sua legittimità e «nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l’illegittimità» (corre qui nella sentenza in commento il riferimento a Corte cost., 13 luglio 2017, n. 181), ma (aggiungiamo noi) si estende alla possibilità (recte: doverosità) di sostituire l’atto illegittimo o infondato con uno diverso;
  • in ragione del richiamato principio di perennità, e stante l’assenza nella disciplina fiscale di una norma, quale quella dell’art. 21-novies n. 241/1990, che ponga dei limiti all’autotutela, rimosso il previo atto con effetto ex tunc, il potere d’imposizione della Pubblica Amministrazione può essere esercitato (salvo il giudicato o l’intervenuta decadenza) anche con riguardo alla medesima fattispecie (corre qui il riferimento alle già citate sentenze nn. 3267 e 3268 del 2022, nonché a Cass., sez. V, 11 maggio 2018, n. 11510 e Cass., sez. V, 8 luglio 2015, n. 14219);
  • il potere-dovere di rinnovare l’imposizione non soggiace al limite della sola esistenza di vizi dell’atto di carattere formale, «ma può investire la pretesa impositiva nel suo complesso, anche per vizi di natura sostanziale, al fine di soddisfare l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi» (v’è qui di nuovo il riferimento a Corte cost., n. 181/2017). Per cui, «[n]el caso in cui l’Ufficio ritenga di procedere a un nuovo accertamento, sostituendo l’accertamento precedente, l’annullamento dell’atto precedente si giustifica quale attività doverosa, al fine del rispetto del divieto di plurime imposizioni di cui all’art. 67 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Cass., Sez. V, 23 ottobre 2019, n. 27091)». Come dire che l’autotutela sostitutiva troverebbe il suo presupposto, non nella tipologia o gravità del vizio dell’atto annullato, ma nella necessità (recte, nell’opportunità e – quindi – nel re melius perpensa) di emettere un altro atto d’imposizione, che impone l’annullamento del precedente per evitare un effetto di duplicazione del tributo.

2. Premesso che, dalla lettura dell’ordinanza risulta che il ricorrente, con il suo primo motivo di ricorso, aveva lamentato la mancanza di elementi nuovi che giustificassero l’annullamento dell’atto originario e la sua sostituzione con uno diverso, si deve ritenere che la più evidente criticità giuridica che discende dai succitati principi di diritto si ravvisi proprio nell’avere la Cassazione ammesso la possibilità di annullare e rinnovare l’accertamento in assenza di nuovi elementi. Si è così, per un verso riconosciuto che l’autotutela sostitutiva può consistere nel diverso apprezzamento di elementi che avevano già formato oggetto di valutazione nell’atto originario annullato (esclude siffatta possibilità Paparella F., Lezioni di diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2021, 209 e 272-273) e, per l’altro, che non rileva la tipologia (se di forma o di sostanza) o la gravità del vizio dell’atto, quanto l’esigenza (recte, l’opportunità) di sostituirlo.

Ipoteticamente, al fondo di tale argomentazione giuridica potrebbe intravedersi un’implicita conferma della tesi, autorevolmente sostenuta in dottrina (La Rosa S., Autotutela e annullamento d’ufficio degli accertamenti tributari, in Riv. dir. trib., 1998, I, 1131 ss., ed anche in Scritti scelti, vol. II, Torino, 2011, 711 ss.), secondo la quale l’autotutela non implica l’esercizio di un potere diverso da quello connesso alla funzione impositiva, ma è medesima manifestazione di quel potere, poiché esso comprende tanto la possibilità di emettere l’atto d’imposizione, quanto la possibilità di annullarlo (nell’interesse della stessa Amministrazione). In linea teorica, proprio il riferimento a siffatta tesi potrebbe giustificare l’affermazione (della Suprema Corte) secondo la quale l’autotutela non esaurisce l’esercizio dell’azione impositiva, che dunque – sussistendone i presupposti – sarebbe rinnovabile quante volte l’Amministrazione “ritenga” di procedere ad un nuovo accertamento. D’altro canto la Cassazione ha operato un plurimo richiamo alla sentenza n. 181/2017 della Consulta che, come vedremo, sembra aver condiviso il nucleo concettuale di quella dottrina.

V’è, però, da un canto, che la dottrina di cui si discute ha chiaramente affermato che l’autotutela sostitutiva, nel campo delle II.DD. e dell’IVA, rimane preclusa dai limiti che la legge pone alla possibilità di riesaminare gli elementi «già considerati negli accertamenti già emanati» (La Rosa S., op. cit. 729, nota 50. Cfr., altresì, Id., Accertamento tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., Torino, 1987, 1554), così implicitamente escludendo la possibilità che essa sia volta al mero diverso apprezzamento degli stessi elementi posti a base dell’atto annullato, e dall’altro, che la Cassazione, così declinando il principio di perennità, ha di fatto invertito la logica dei presupposti: non è il vizio dell’atto che ne giustifica (e quindi è presupposto de) l’annullamento e sua sostituzione, ma è l’esigenza di sostituzione – motivata dalla necessità di «continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico» – che giustifica (ed è quindi presupposto de) l’annullamento dell’atto sostituito.

Orbene, non penso che la teoria appena sopra richiamata abbia un’elasticità tale da poter giustificare tale conclusione. Ma soprattutto, non sembra che possano concettualmente assimilarsi l’idea che vede nell’autotutela una diversa forma di estrinsecazione del medesimo potere d’imposizione e quella secondo la quale la funzione impositiva possa liberamente (recte: sussistendone i presupposti in fatto ed in diritto) replicarsi entro lo spazio decadenziale previsto per l’attività di accertamento. Siffatta assimilazione implica infatti (a mio modo di vedere) una confusione concettuale fra il potere di imposizione (nel cui perimetro rientra anche la possibilità di annullamento dell’atto che ne costituisce esercizio) e i presupposti per la sua rinnovazione, che devono essere primariamente individuati nella legge, alla quale per prima, dunque, dovrà farsi riferimento.

Ne consegue che il principale vizio concettuale del consolidato orientamento della Suprema Corte è quello di sfumare oltremodo i contorni fra esercizio dell’autotutela sostitutiva e presupposti (normativi) della funzione impositiva. Altrimenti detto: affermare l’esistenza di un principio (di perennità) che consentirebbe l’incondizionata rinnovazione del potere impositivo entro lo spazio decadenziale (e salvo il giudicato) impone preliminarmente di analizzarne la compatibilità con le disposizioni positive che quella rinnovazione disciplinano. Analisi, che non sembra la Corte abbia fatto ed alla quale si procederà di seguito.

 

3. Prima, però, occorre dar conto, seppur assai sinteticamente, della circostanza che il tema dell’inquadramento concettuale dell’annullamento d’ufficio degli atti d’imposta e della natura della funzione di amministrazione (se “attiva” o “giustiziale”) che in esso si esplica, ha suscitato un contrasto in dottrina, che si deve qui menzionare, poiché esso, seppur implicitamente, ha formato oggetto di attenzione da parte della Consulta nella sentenza n. 181/2017 che la Suprema Corte (nell’ordinanza in commento) più volte ha richiamato proprio per giustificare l’affermato principio di perennità.

In antitesi alla dottrina (sopra richiamata) che ha ravvisato nell’autotutela l’esercizio di una funzione di amministrazione (attiva) che partecipa della stessa natura di quella che presiede all’emanazione dell’atto d’imposizione – così ravvisando nell’annullamento d’ufficio di quell’atto null’altro che una forma di ius poenitendi dell’Amministrazione finanziaria – v’è stata altra dottrina (Stevanato D., op. cit., 9 ss. e 42 ss.) che ha ricondotto l’autotutela all’esercizio di una funzione “giustiziale”, configurando quindi il potere di annullamento d’ufficio come diverso da quello che sta a base dell’emissione dell’atto originario e la funzione amministrativa di autotutela come non inquadrabile all’interno di quella impositiva.

Al fondo di tale teorica v’è la configurazione di un autonomo potere dell’Amministrazione, che si esercita con lo scopo di mediare fra l’istanza di certezza e stabilità dei risultati che conseguono dall’applicazione delle regole che disciplinano i rapporti d’imposta e l’istanza di giustizia sostanziale che dovrà essere riaffermata laddove l’applicazione di quelle regole abbia condotto all’emanazione di atti palesemente illegittimi o macroscopicamente ingiusti. Proprio in siffatte massime patologie dell’atto – secondo tale dottrina – dovrebbe ravvisarsi il limite all’esercizio del potere di autotutela, perché una più ampia (o illimitata) applicazione dello stesso finirebbe con il compromettere o gravemente inficiare la disciplina delle decadenze, che rimane essenziale nel garantire la certezza dei rapporti tributari. Peraltro, l’aver ricondotto l’attività di annullamento d’ufficio dell’atto alla precipua funzione di amministrazione giustiziale, ha indotto gli esponenti della dottrina in esame ad affermare, per un verso, l’obbligatorietà della pronuncia sull’istanza (di annullamento) del contribuente e, per l’altro, l’esigenza di un sindacato giurisdizionale sull’esercizio del potere di autotutela con conseguente affermazione dell’impugnabilità dell’atto di diniego tacito (sul tema, oggetto di ampio dibattito dottrinale, ci si limita a richiamare alcuni recenti contributi, rimandando alla bibliografia ivi indicata: Piantavigna P., Disorientamenti della Corte costituzionale in materia di autotutela tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2017, 4, II, 96 ss.; Procopio M., Il contrasto in tema di autotutela tra i principi costituzionali ed i poteri riconosciuti all’Amministrazione finanziaria, in Rass. trib., 2019, 1, 92 ss.; Farcomeni G., Autotutela tributaria ed interesse generale alla rimozione, in questa Rivista, 11 ottobre 2022).

Come premesso, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 181/2017, nell’affrontare proprio la questione dell’impugnabilità del diniego tacito, sembra aver preso posizione sul menzionato contrasto dottrinale. Essa, infatti, ha in quell’occasione riconosciuto che l’autotutela tributaria, essendo un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali sulla base di valutazioni largamente discrezionali, non è strumento di protezione del contribuente. E quanto alla tesi secondo la quale l’annullamento d’ufficio dell’atto d’imposizione costituirebbe rimedio di carattere sostanzialmente giustiziale, ha affermato che esso «non ha funzione giustiziale», essendo espressione di amministrazione attiva e comportando di regola «valutazioni discrezionali». Sulla base di tali considerazioni il giudice delle leggi ha escluso tanto l’obbligatorietà della pronuncia sull’istanza di annullamento, quanto l’impugnabilità del diniego tacito di autotutela.

Ciò posto, seppur è vero che i giudici della Consulta hanno riconosciuto che l’esercizio dell’autotutela comporta una manifestazione di amministrazione attiva (e non funzione giustiziale), non sembra però che essi abbiano altresì affermato l’esistenza del principio di perennità (come implicitamente sembra ritenere la Suprema Corte). Di fatti, pur avendo sostenuto che il potere dell’Autorità (che attua l’autotutela) non si esaurisce «nella verifica della legittimità dell’atto e nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l’illegittimità», non hanno da ciò fatto conseguire il principio secondo il quale, ricorrendone i presupposti di fatto e diritto, l’Amministrazione finanziaria avrebbe il dovere di rinnovare la funzione impositiva. Né pare che la Consulta abbia collegato il «fine di soddisfare l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi» alla possibilità per l’Ufficio fiscale di replicare l’attività di accertamento quante volte lo ritenga opportuno, come, invece, sembra implicitamente sostenere la Cassazione.

Richiamare dunque – come fa la Suprema Corte – la sentenza n. 181/2017 per ivi trovare un fondamento dell’esistenza dell’affermato principio di perennità, appare quantomeno poco appropriato.

 

4. Passando ora all’analisi della compatibilità del principio in questione con la disciplina normativa che regola il potere impositivo ed i presupposti per la sua rinnovazione, sembra che siffatta disciplina sia già idonea a garantire quella «[e]sigenza di continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico» che la Corte di Cassazione richiama; per cui non pare via sia alcuna necessità di ancorarsi al principio di perennità per tutelarla. Né, al fine di contrastare quest’ultimo, è necessario affidarsi al diverso principio di “unicità” dell’accertamento tributario, che pure il ricorrente aveva richiamato.

Di fatti, la disciplina positiva, mercé i due istituti dell’accertamento parziale e dell’accertamento integrativo, fornisce già all’Amministrazione finanziaria la necessaria elasticità per adeguare l’azione impositiva agli eventuali presupposti, in fatto ed in diritto, che dovessero nel tempo manifestarsi. In particolare, il primo istituto, soprattutto dopo che ne è stato esteso l’ambito di applicabilità anche alle attività istruttorie di cui all’art. 32, comma 1, numeri da 1) a 4), D.P.R. n. 600/1973, consente agli Uffici fiscali di emettere l’atto di accertamento (parziale) anche in esito ad un’attività istruttoria non definitiva, garantendo così la possibilità di rinnovare, entro il termine di decadenza, l’azione impositiva sulla base di eventuali elementi e presupposti che dovessero successivamente manifestarsi o essere apprezzati. L’accertamento “integrativo”, poi, garantisce l’adeguamento della funzione impositiva (pur sempre entro i limiti di decadenza) alla sopravvenuta conoscenza “oggettiva” di nuovi elementi (non conosciuti, né conoscibili dianzi) che dovessero emergere anche nell’ipotesi in cui l’attività istruttoria sia stata attuata in modo definitivo e si sia concretizzata nell’emissione di un avviso di accertamento (non parziale).

Se dunque l’esigenza che si intende tutelare è quella di un continuo e costante adeguamento dell’azione amministrativa all’interesse pubblico, del principio di perennità non pare che vi sia alcun bisogno, poiché quell’esigenza è già ampiamente garantita dalla vigente normativa. Se, invece, il principio di cui si discute fosse posto a presidio di una diversa istanza, e cioè quella di consentire agli Uffici fiscali di “sanare” i vizi di sostanza di atti d’imposizione già confezionati, magari tenendo conto delle allegazioni difensive di parte che quei vizi hanno evidenziato, dovrà convenirsi che siffatto principio sarebbe assai poco compatibile con la disciplina, testé richiamata, che regola l’esercizio della funzione impositiva ed i presupposti per il suo rinnovo. Dalla stessa, infatti, non emerge in alcun modo che il legislatore abbia inteso garantire al Fisco l’opportunità di “correggere il tiro”.

In ultima analisi, la stretta correlazione che la Suprema Corte ravvisa fra esercizio dell’autotutela sostitutiva e principio di perennità dell’azione impositiva, da un canto non trova fondamento nelle norme che regolano quell’azione ed i presupposti per la sua rinnovazione e, dall’altro, appare porsi addirittura in contrasto con la ratio di quelle disposizioni, che, se intendono garantire l’adeguamento dell’azione amministrativa agli elementi che via via si possano manifestare all’attenzione del Fisco, certamente non intendono, invece, consentire agli organi accertatori la possibilità di correggere in corso d’opera gli errori che nell’analisi di quegli elementi abbiano compiuto. Ciò che, di fatto, si risolverebbe in una modalità extra ordinem di rinnovazione della funzione impositiva.

 

5. Dalle superiori riflessioni dovrebbe risultar confermato che il principale profilo di criticità della sentenza in commento (e dell’orientamento giurisprudenziale cui essa dà conferma) attiene proprio alla svalutazione della rilevanza e tipologia (se di forma o di sostanza) del vizio dell’atto ed alla conseguente possibilità, che è stata concessa all’Amministrazione finanziaria, di operare l’annullamento di un avviso di accertamento e la sua sostituzione semplicemente sulla base di un diverso apprezzamento (magari indotto dalle doglianze del ricorrente) degli stessi elementi che erano stati posti a base dell’avviso annullato.

Di contro, siffatta possibilità dovrebbe essere riconosciuta agli Uffici fiscali solo a seguito dell’emersione di nuovi elementi – ipotesi che, come detto, non ricorreva nel caso deciso dall’ordinanza in esame – oggettivamente non conosciuti né conoscibili al momento della confezione dell’atto originario. Diversamente opinando, infatti, si aprirebbe la strada a quella possibile, quanto illegittima, inversione della logica dei presupposti cui si è dianzi fatto cenno, dovendosi riconoscere che l’annullamento dell’atto possa essere determinato (non dalla rilevanza o tipologia del vizio che lo inficia, ma) dall’esigenza – recte dall’opportunità – di emetterne uno nuovo meglio confezionato rispetto al precedente.

E per affermare che la possibilità di “correggere il tiro” non dovrebbe in alcun modo essere consentita al Fisco, non occorre necessariamente richiamare il principio dell’unicità dell’accertamento o quello dell’affidamento del contribuente (principio pur richiamato dal ricorrente nel caso in esame), essendo bastevole il riferimento all’art. 97 Cost., che invece la Suprema Corte ha richiamato proprio per fondare la legittimità del principio di perennità.

In diverse occasioni, infatti, la stessa Corte di Cassazione ha avuto modo di affermare che all’Ufficio non è consentito, in corso di giudizio, modificare l’atto impugnato, integrandone o correggendone la motivazione (cfr., ad esempio, Cass., ord. n. 28655/2018), anche se non si può sottacere l’esistenza di un recente, quanto “pericoloso”, ripensamento sul tema da parte della stessa giurisprudenza di legittimità (Cass., ord. n. 28560/2021, commentata da Califano C., La Suprema Corte apre alla possibilità di formazione frazionata della motivazione dell’atto nel corso del processo, in Riv. tel. dir. trib. 2021, 2, IV, 741 ss.).

Ora, sembra a me, che concedere all’Ufficio fiscale la possibilità, seppur entro il limite decadenziale, di annullare un accertamento già in essere e sostituirlo con uno diverso quante volte lo ritenga necessario (o opportuno) allo scopo di garantire una continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico, rappresenta un modo per eludere indirettamente il richiamato divieto di modifica o integrazione dell’atto impugnato. Come escludere, infatti, che l’esigenza di annullamento e rinnovazione possa essere determinata dall’acquisita consapevolezza (da parte dell’Ufficio fiscale), a fronte delle difese del ricorrente, della fragilità dell’atto impugnato e quindi dall’opportunità di annullarlo e sostituirlo con uno nuovo che meglio resista a quelle difese? E ciò non rappresenterebbe un viatico per eludere, seppur indirettamente, il divieto di modificare quell’atto in corso di causa?

Per evitare siffatti “inconvenienti” il rimedio più immediato dovrebbe ravvisarsi proprio nel principio della «buona amministrazione» che discende dall’art. 97 Cost. Come infatti ha condivisibilmente affermato autorevole dottrina amministrativistica «la buona amministrazione da principio in funzione della efficacia della pubblica amministrazione (“ex parte principis”), è divenuto principio in funzione dei diritti dei cittadini (“ex parte civis”). Prima era considerata mezzo per assicurare che il potere pubblico fosse efficace, perché gli interessi collettivi e pubblici ad esso affidati fossero pienamente tutelati. Poi è divenuta strumento per assicurare una difesa dal potere pubblico, perché le situazioni giuridiche soggettive dei privati potessero essere tutelate più efficacemente» (così Cassese S., Il diritto alla buona amministrazione, in ERLP[European Review of Pubblic Law], 2009, vol. 21, n. 3, 73). E’, dunque, la buona amministrazione, così declinata, che, se per un verso impone la «continua e puntuale aderenza dell’azione amministrativa all’interesse pubblico» come pur opportunamente sostiene la Suprema Corte nella sentenza in commento, per l’altro è strumento di difesa contro i possibili abusi di quell’azione (e del potere che la presiede), imponendo quindi coerenza e linearità e non esponendo il contribuente a ripetute forme di esercizio della pretesa impositiva al di là dei naturali limiti che la legge prescrive.

Un’ultima notazione conclusiva appare doverosa.

Il neointrodotto comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, stabilisce che la nuova Corte di Giustizia Tributaria annulla l’atto impositivo «se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni». Sebbene la “cripticità” della novella disposizione sia stata già rilevata da accorta dottrina (cfr. Muleo S., Le “nuove” regole sulla prova nel processo tributario, in www.giustiziainsieme.it, 20 settembre 2022), rimane il fatto che la mancanza di fondamento, la contraddittorietà o l’insufficienza della prova, comporteranno d’ora innanzi la caducazione dell’atto impugnato. E’ facile quindi immaginare che, a fronte di eccezioni del ricorrente concernenti siffatti vizi della prova che dovessero ritenersi fondate, sarà forte la tentazione degli uffici fiscali di avvalersi della possibilità, sempre che non sia medio tempore intercorsa la decadenza, di annullare e sostituire l’atto impugnato in applicazione del principio di perennità.

Urge, pertanto, un revirement della Suprema Corte che correttamente riconduca il rapporto fra autotutela sostitutiva ed esercizio dell’azione impositiva entro i limiti che la legge consente.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Cassese S., Il diritto alla buona amministrazione, in ERLP (European Review of Pubblic Law), 2009, vol. 21, n. 3, 73

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