LA FARMACIA DEI SANI – EPISODIO 4 – Onere della prova, orecchio assoluto, riforma della giustizia tributaria e auspicabile de profundis per le c.d. presunzioni giurisprudenziali

Di Alberto Marcheselli -

Abstract

Si esaminano alcune contraddizioni nell’inquadramento dei concetti di prova e onere della prova e alcune distorsioni applicative. Nella riforma della giustizia tributaria potrebbe trovarsi una soluzione.

We examine some contradictions in the design of the concepts of proof and burden of proof and some consequential distortions in law enforcement. A solution could be possibly found in the tax justice reform.

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Onere della prova, oggi e domani. – 3. Prova e onere della prova, nelle indagini e nei provvedimenti, una relazione clandestina che può diventare pericolosa. – 4. Il Convitato di pietra: le presunzioni legali. – 5. Il mostro venuto dagli abissi: la c.d. presunzione giurisprudenziale. – 6. Il diritto non comanda la storia. – 7. Una luce in fondo al tunnel? La riforma della giustizia tributaria.

 

1. Riccardo, il mio medico, ha l’orecchio assoluto, che è quella cosa per cui uno riconosce le note musicali come i colori. Mi dice che sia un gran dono (è un mirabile pianista) ma anche una dannazione: se per strada sente fischiettare in modo stonato è come se sentisse passare una fresa nelle orecchie.

Lo invidio molto perché a volte mi sembra di possedere la versione dei poveri dell’orecchio assoluto, rispetto alla logica giuridica, comunque una vera e propria tortura.

Un esempio di attualità si può trarre dagli abomini – ovviamente l’enfasi è scherzosa – che si leggono in termini di onere della prova in materia tributaria.

2. Ogni procedimento deve stabilire una regola per risolvere i casi dubbi. Come si deve decidere il caso in cui non sia stato possibile raggiungere la prova?

A questo scopo serve la c.d. regola dell’onere della prova.

In senso letterale, onere della prova significherebbe che chi aveva l’onere, per vincere, deve attivarsi a fornire la prova. In realtà, in quasi tutti i procedimenti, la regola è diversa: per vincere basta che la prova sia stata prodotta, non importa da chi (principio della acquisizione della prova). Il soggetto “onerato” vince anche se la prova la ha portata controparte. A essere precisi, quindi, la regola non impone un onere (“vinci solo se provi”), essa è, più che altro, una regola di giudizio per il caso dubbio. Ad esempio, nel caso del rimborso, in caso di incertezza sul diritto, il rimborso deve essere negato. Il concetto si esprime anche dicendo che il contribuente ha l’onere della prova del diritto al rimborso, ma il rimborso gli va riconosciuto in tutti i casi in cui il diritto sia provato, anche se per caso la prova è stata raccolta dalla Agenzia.

Ciò vale per la prova in giudizio.

Nel procedimento amministrativo inquisitorio, dove cioè le indagini sono fatte direttamente dalla autorità chiamata a provvedere, l’onere della prova assume un significato composito e almeno duplice.

In primo luogo, si tratta di stabilire uno standard di diligenza di indagine: stabilire cosa e quanto il Fisco debba cercare per ben provvedere, detto altrimenti: quale è la istruttoria doverosa?

In secondo luogo, a valle di questo, si tratta di stabilire come si debba provvedere se, effettuate indagini diligenti e diligentemente valutati gli esiti, permanga incertezza.

Quanto al primo aspetto, la individuazione dei doveri di indagine, secondo la giurisprudenza formatasi prima della riforma di cui alla L. n. 130/2022, l’ente impositore doveva ricercare le prove della evasione fiscale attuata mediante occultamento di proventi o simulazione o esagerazione di costi, dovendo, invece, il contribuente fornire la prova del suo diritto al rimborso o la applicazione di regimi speciali e favorevoli (tali ritenendosi agevolazioni ed esenzioni).

Quanto al secondo aspetto, la regola di decisione del caso dubbio, la stessa giurisprudenza costruiva un sistema alquanto articolato, distinto a seconda del tipo di evasione accertata. In esito a tali doverose indagini, infatti, si riteneva che l’Agenzia delle Entrate potesse accertare i proventi occulti solo positivamente provandone la percezione, mentre, per disconoscere i costi o le detrazioni non spettanti, sarebbe stato sufficiente raccogliere qualcosa di meno, non la piena prova, ma ragionevoli motivi per dubitare del diritto alla deduzione (c.d. onere di contestazione argomentata), dovendosi a quel punto attivare il contribuente. Attivazione del contribuente sempre e comunque necessaria, invece, per ottenere rimborsi e regimi favorevoli. In sostanza, tre regole diverse, per la prova, rispettivamente di: a) proventi nascosti (onere della prova della Agenzia); b) costi e detrazioni non spettanti (onere di contestazione argomentata all’Agenzia, quindi onere al contribuente); c) rimborsi o regimi favorevoli (direttamente onere della prova al contribuente).

Con la introduzione del comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992 la situazione parrebbe mutare nel senso di permanere l’onere di attivazione esclusiva del contribuente solo per la prova del rimborso, negli altri casi dovendosi sempre dar torto alla Agenzia delle Entrate, in caso di mancata prova. Parrebbe pertanto mutata la regola per quanto attiene detrazioni e deduzioni, nonché regimi favorevoli speciali.

Si tratta di riforma la cui portata resta da valutare alla luce della elaborazione giurisprudenziale che verrà.

3. Tanto premesso, risulta evidente che tra prova e c.d. onere della prova esiste un rapporto che va precisato, perché potenziale fonte di equivoci.

La regola dell’onere della prova, al momento delle indagini, influisce sull’oggetto delle indagini medesime. Al momento della decisione, la sua applicazione dipende dalle prove raccolte.

Sul piano della indagine, infatti, è ovviamente compito dell’Agenzia delle Entrate cercare le fonti di prova, nelle materie in cui ha un onere della prova o un onere di contestazione argomentata: senza tali ricerche essa non acquisirebbe i materiali che occorrono per fondare il suo provvedimento.

Sul piano decisionale, invece, la regola dell’onere della prova scatta solo se la prova non è stata raggiunta, nel senso che la prova manca. Quindi, c’è una reciproca esclusione: se c’è la prova non è luogo ad applicare la regola di giudizio dell’onere della prova (che presuppone, al contrario, che la prova manchi) e, viceversa, si applica la regola dell’onere della prova solo quando la prova non c’è.

Non è pertanto esatto affermare che, se una parte fornisce la prova, l’onere della prova passa all’altra. Tale affermazione è però assai frequente nella giurisprudenza, che spesso afferma, ad esempio, che, se l’Agenzia fornisce la prova di una certa circostanza, il contribuente perde se non prova il contrario.

A ben vedere, innanzitutto, si tratta di una complicazione concettuale inesatta e inutile: se l’Agenzia prova l’evasione, essa vince perché ne ha fornito la prova, non perché la controparte ha fallito un suo onere contrapposto. E, all’inverso, il contribuente perde perché la controparte ha fornito la prova, non per colpa di una sua inerzia.

Il che non vuol dire che, sul piano pratico, opporsi alla prova avversaria sia inutile, ovviamente, ma usare i termini sbagliati conduce a risultati abnormi.

Il concetto può spiegarsi più chiaramente con la metafora di una partita di calcio. Se la squadra avversaria fa goal, va in vantaggio, ma non perché non le si è impedito di farlo, ma perché la palla è entrata. Poi, certo, la squadra che ha subito può opporsi e chiedere l’intervento del VAR per far vedere all’arbitro che la palla non è entrata, oppure tentare di segnare un goal a propria volta per riequilibrare la partita. Ma non si perde per inadempimento di un onere, ma perché gli altri hanno segnato.

Tale precisazione non è solo importante per ragioni di esattezza concettuale, ma perché l’errore sopra descritto produce risultati pratici potenzialmente molto gravi, che sfuggono alla maggioranza degli osservatori.

Se si sposta il baricentro dell’attenzione dal fatto che la prova è stata fornita da una parte, al fatto che l’altra non ha fornito la prova contraria (due affermazioni che paiono equivalenti ma non lo sono affatto), il rischio è che si presti sempre meno attenzione al fatto che la prima prova è stata fornita, fino a rendere decisiva solo la mancanza della prova contraria.

Per chiarire il concetto con la metafora di cui sopra, si può passare dalla affermazione “I blu vincono perché hanno fatto un goal valido e i rossi non hanno segnato” a quella “I blu vincono perché hanno tirato e i rossi non hanno contestato che fosse goal, né hanno segnato”, per arrivare all’approdo finale. “I blu vincono perché hanno fatto un tiro e i rossi non hanno segnato un goal”.

Mentre la prima frase è conforme alle regole, nella seconda c’è già un primo errore, e cioè dimenticare che l’arbitro deve comunque verificare se la palla è andata in porta anche se non è contestato dagli avversari. E, nella terza frase, l’errore è elevato al quadrato: diventa irrilevante che la palla sia entrata in rete.

Fuor di metafora, una confusione di questo tipo, endemica nella giurisprudenza che utilizza talvolta un linguaggio frettoloso, determina degli effetti distorsivi concreti, e potenzialmente molto gravi.

Ad esempio, se una società di capitali evade, è possibile che l’utile occulto e nascosto al Fisco venga distribuito occultamente ai soci, come dividendo. Dovrebbe, pertanto, essere tassato sia l’utile evaso (dalla società) che il dividendo percepito (dal socio). Nella fisiologia, pertanto, si deve dimostrare sia la produzione dell’utile occulto, sia la sua percezione occulta da parte del socio.

Partendo dal presupposto che, se la società è piccola e i soci sono coesi, è probabile che essi si dividano l’utile occulto spartendosi dei dividendi occulti, si afferma che è provato che i soci hanno ottenuto il dividendo, per il fatto che questa è l’ipotesi più probabile, se non risultano altri impieghi dell’utile (ad esempio, altri investimenti della società).

Progressivamente, però, questa prima affermazione viene trasformata in quella secondo cui, se la società che evade ha soci tra loro amici, è tassato anche un dividendo dei soci, se questi non dimostrano di non averlo percepito (si sposta l’attenzione sulla prova contraria, sulla contestazione della squadra che ha subito il tiro, nella metafora).

Infine si giunge alla affermazione che, se la società con soci coesi evade, sono imponibili anche i soci, anche se non ricevono alcuna distribuzione di dividendi.

Come nella metafora del calcio, nel primo passaggio si è perso di vista il fatto che deve, comunque, essere provata la distribuzione del dividendo (perché è per quello che si applica l’imposta, non perché non si dimostra il contrario).

Nel secondo passaggio si è perso di vista l’elemento, fondamentale, che si tassa la distribuzione ai soci, così come, nell’esempio, che per far goal non basta tirare la palla ma essa deve oltrepassare la linea.

Un utilizzo disattento del concetto di prova e onere della prova può arrivare, pertanto, al risultato pratico di cambiare le regole sui tributi, in contrasto con la legge.

4. Talvolta sono previste delle disposizioni che prevedono che, se è provato un certo fatto, non sia più necessaria la prova di un altro fatto.

Si può trattare di norme di rigida applicazione, inderogabili, oppure flessibili, che consentono di provare che il secondo fatto, in realtà, non si è verificato.

Le prime sono norme sostanziali che, in pratica, estendono al primo fatto la disciplina del secondo. Se, per esempio, fosse previsto che è reddito di impresa lo svolgere attività commerciale abitualmente e, poi, fosse previsto che non è necessaria la prova della abitualità per chi effettua almeno mille vendite in tre mesi, la norma avrebbe l’effetto di ricomprendere nel concetto di abitualità l’ipotesi delle vendite superiori al limite. Tali norme possono, a seconda di come sono formulate, chiamarsi presunzioni legali assolute, definizioni, equiparazioni ma, in ogni caso non hanno niente a che vedere con la prova: sono norme sulle fattispecie.

Le seconde, invece, quelle che ammettono la prova contraria, sono note come presunzioni legali relative, e sono deroghe legali all’onere della prova. Per esempio, l’art. 45, comma 2, TUIR prevede che per i capitali dati a mutuo gli interessi, salvo prova contraria, si presumono percepiti alle scadenze e nella misura pattuite per iscritto. In base alle regole generali, l’Agenzia delle Entrate dovrebbe dimostrare quanto interesse è stato percepito nel periodo di imposta. Per effetto di questa norma, invece, ad essa basta provare quanto è l’interesse pattuito per iscritto e quale la scadenza, il resto lo fa la legge: presume la percezione. E sarà poi il contribuente a dover dimostrare la mancata o diversa percezione.

Si tratta di inversioni legali dell’onere della prova, o, se si vuole, di una facilitazione dell’onere probatorio di una delle parti.

In questo caso, si verifica, fisiologicamente, l’effetto di cui si trattava nel paragrafo che precede per denunciarne l’erroneità nel caso della prova: qui, se l’Agenzia prova che sono stabilite scadenze e importi per iscritto, l’onere (di dimostrare la mancata percezione) si ribalta sul contribuente.

Dovrebbe risultare chiara la rilevanza pratica della distinzione.

Se è la legge a prescrivere che non è necessaria la prova della percezione degli interessi, non è necessario che l’Agenzia (o il giudice) si convincano che sono stati percepiti, né essi possono sindacare se sia ragionevole presumere la percezione di quanto pattuito, basandosi sullo scritto: lo stabilisce la legge! Il contribuente può solo difendersi dimostrando a) che non è vero che c’è la pattuizione scritta oppure b) la mancata percezione. Egli non può contestare che non sia fondato desumere la percezione dalla pattuizione.

Se, invece, la percezione viene desunta non per effetto di un comando legislativo che modifica e inverte l’onere, nella presunzione legale, ma per effetto di una prova, per esempio perché si è utilizzato un ragionamento probatorio (ad esempio, il contribuente ha ricevuto un accredito su una postepay proveniente dalla moglie del debitore, quindi gli investigatori ne desumono un pagamento occulto dell’interesse), cioè una presunzione semplice, la situazione è molto diversa: l’Agenzia (e il giudice) devono convincersi positivamente che l’interesse è stato percepito. Non solo: il contribuente ha uno spazio difensivo molto più ampio: può dimostrare non solo che non è vero che è avvenuta la ricarica, non solo che gli interessi non sono stati percepiti, ma anche contestare che quel ragionamento probatorio è infondato in sé stesso, in quanto debole, ambiguo, ecc.

È quindi sommamente importante distinguere tra presunzioni legali e presunzioni semplici perché solo le prime possono invertire l’onere della prova. Affermare, come si afferma abitualmente e frettolosamente, che lo fanno anche le seconde, che cioè tutte le volte che una parte porta una prova è l’altra a dover dimostrare il contrario, significa cancellare una parte del diritto di difesa, eliminando la possibilità di contestare la plausibilità della prova. Non si può discutere un comando legislativo (la presunzione legale) ma certo si può contestare una prova, anche senza fornire una prova contraria.

Sul piano della corretta terminologia e della corretta sistemazione dei concetti va distinta la attività di “contrasto della prova” dalla “prova contraria”: questa seconda espressione richiama il raggiungimento del risultato della positiva dimostrazione di un fatto (ti dimostro che non ho percepito l’interesse), mentre la seconda è più semplicemente la argomentazione e dimostrazione della non plausibilità della prova altrui (ti contesto che non hai dimostrato che ho percepito l’interesse). Ovviamente, è bene che chi si vede opporre una prova la contrasti comunque, ma non si tratta di un onere: il giudice potrebbe comunque non trovare plausibile la prova, anche senza contrasto della controparte (se la prova è assurda il giudice non ci crede). Nulla di tutto ciò nelle presunzioni legali, dove non si può argomentare la poca fondatezza della presunzione, perché essa non è un ragionamento da verificare, ma un comando di legge (la legge si applica, non si valuta).

5. Negli ultimi decenni, in giurisprudenza, si è fatta strada la discussa categoria delle c.d. presunzioni giurisprudenziali, quale ipotetica terza via tra presunzioni semplici e legali.

Si allude a orientamenti consolidati della giurisprudenza relativi al giudizio di fatto. A orientamenti, cioè, che ritengono accertata una determinata fattispecie, in presenza di qualche elemento o fatto, diverso ma indiziario. La forza cogente del precedente giurisprudenziale attribuirebbe a tali presunzioni una efficacia vincolante per il giudice maggiore di quella della presunzione semplice. Essa, tuttavia, non essendo prevista dalla legge, non potrebbe rientrare nella categoria delle presunzioni legali, permanendo in una zona in qualche modo intermedia.

Un esempio nel diritto tributario sarebbe nella già citata ipotesi delle società di capitali a ristretta base societaria, in cui, provata l’evasione della società, si presumerebbe l’evasione del socio (che avrebbe nascosto la percezione di dividendi alimentati con l’evasione).

Tali fenomeni hanno certamente rilevanza giuridica: ad esempio concorrono a determinare il diritto vivente, che può essere oggetto di scrutinio davanti alla Corte di Giustizia UE (per stabilire l’effettività del rispetto del diritto UE).

Talvolta, tuttavia, si attribuisce a tali presunzioni un effetto più ampio, quello di invertire l’onere della prova, come le presunzioni legali. Ad esempio, il ripetersi di decisioni che accertano l’evasione del socio di società di capitali a ristretta base, quando evade la società, porterebbe all’effetto che, se evade la società, si deve ritenere che evada anche il socio, salvo che provi il contrario.

6. Tale impostazione, per quanto diffusa e maggioritaria nella giurisprudenza, appare suscettibile di serrata critica e, francamente, giuridicamente e logicamente errata.

In primo luogo, sul piano strettamente giuridico, la regola dell’onere della prova è di fonte legislativa e, pertanto, non può essere modificata senza una disposizione legislativa: la giurisprudenza non deroga la legge, la interpreta e la applica. Quindi una riforma dell’onere della prova non può avere fonte nella giurisprudenza.

In secondo luogo, non esiste in Italia un meccanismo formale di vincolo al precedente giurisprudenziale. Ne consegue che si tratta di fenomeni che rientrano nella materia delle presunzioni semplici. La reiterazione di esse non dovrebbe assumere, di regola, un significato rilevante nella sociologia del diritto, ma non nel diritto formale.

In terzo luogo, e si tratta di osservazione che pare autonomamente decisiva, anche se non rilevassero i due profili appena esposti, si tratta di decisioni che riguardano la ricostruzione dei fatti: cioè l’operazione – storica – di accertamento di accadimenti. Ebbene, il diritto non può disciplinare la storia: la ricostruzione dei fatti è operazione epistemologica, non giuridica. Non si può “comandare” una ricostruzione della realtà: essa può solo effettuarsi e valutarsi nella sua plausibilità sulla base delle categorie logiche e scientifiche.

Il giudice, quando deve stabilire se il maggiordomo ha ucciso la contessa o Tizio ha nascosto un provento, non applica norme.

Invece, nel riassumere le sentenze, una pubblicistica poco sorvegliata mette sullo stesso piano la ricostruzione dei fatti e l’applicazione delle norme, come se i giudici potessero stabilire delle regole sulla esistenza dei fatti.

Per dirla immaginificamente, il fatto che dieci maggiordomi siano stati condannati per aver ucciso dieci contesse, lasciando le impronte sulla scena del delitto, non rende in alcun modo più probabile che l’undicesimo maggiordomo abbia ucciso la undicesima contessa (né obbliga il giudice a emettere l’undicesima condanna), così come se uno, dieci o diecimila sentenze dicessero che i fiumi scorrono in salita, essi non scorrerebbero in salita. O, viceversa, se anche diecimila sentenze dicessero che i fiumi scorrono in discesa, i fiumi scorrerebbero in discesa per la gravità, e non per la autorevolezza delle decisioni.

Ogni processo concerne un singolo fatto e il compito del giudice è decidere bene quel caso e, nei gradi superiori, controllare se si sia deciso bene quel caso, non solo applicando le norme ma anche ricostruendo i fatti. La Corte di Cassazione, poi, eccezionalmente, stabilisce la corretta interpretazione della legge (e questo è l’unico profilo che trascende il singolo giudizio).

Nel giudizio sui fatti, invece, non si creano regole, neppure giurisprudenziali, ma si enucleano al massimo delle massime di esperienza, cioè ragionamenti empirici condivisibili.

Tali sono collegamenti tra fatti che normalmente sono ragionevoli, che possono essere fondati su leggi scientifiche (ad esempio la traiettoria di un proiettile, la efficacia di un veleno) o su ricorrenze e abitudini comportamentali e sociali (ad esempio, i parenti o amici sono legati da vincoli di solidarietà, che portano a condividere decisioni e cose), ma non esprimono regole giuridiche e pertanto non sono nel dominio di autorità giuridiche. Non esiste una auctoritas giuridica che crei o imponga le regole di plausibilità, perché questa deriva dalla epistemologia.

L’insieme di tali considerazioni vale a dimostrare che la legge o il “precedente della Suprema Corte” non hanno affatto lo stesso valore quando si esca dal caso singolo e dalla interpretazione della legge: la Suprema Corte fissa principi di diritto ma non regole epistemologiche. La Corte di Cassazione ha una funzione di c.d. nomofilachia: non stabilisce né insegna come è la realtà.

Le presunzioni giurisprudenziali, come regole sulla verità sono pertanto un assurdo logico.

E un assurdo potenzialmente assai dannoso, visto che, come sopra si sottolineava, portano a dimenticare che i fatti vanno sempre verificati e accertati nel singolo caso.

Il rischio è prima perdere di vista la necessità di accertare i fatti e, dopo, perdere di vista, addirittura, la rilevanza dei fatti.

Ancora una volta, vale l’esempio dell’accertamento delle società a ristretta base che, proprio grazie alla categoria delle presunzioni giurisprudenziali, ha comportato la creazione del vero e proprio nuovo regime fiscale di creazione giurisprudenziale.

Partendo dal presupposto che, se la società è piccola e i soci sono coesi, è probabile che essi si dividano l’utile occulto spartendosi dei dividendi occulti, si passa ad affermare che, se la società che evade ha soci tra loro amici, è tassato anche un dividendo dei soci, se questi non dimostrano di non averlo percepito, per concludere che, se la società con soci coesi evade, sono imponibili anche i soci, anche se non ricevono alcuna distribuzione di dividendi.

Il malgoverno dei concetti di prova e onere e la confusione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto altera equilibri ordinamentali fondamentali.

7. Il testo del comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992, introdotto dalla L. n. 130/2022 dovrebbe, se correttamente inteso, fare giustizia di tali errori, visto che ribadisce che l’Agenzia deve provare il fondamento della sua pretesa in conformità della disciplina sostanziale.

Con ciò ribadendo che a) la prova è oggetto di un giudizio di fatto singolo, per ogni singolo processo, insuscettibile di standardizzazioni; b) la regola dell’onere della prova ha fonte legislativa; c) debbono essere oggetto di prova tutti gli elementi della fattispecie sostanziale (ivi compresa, nell’esempio delle società, la distribuzione, che è il fatto su cui si fonda l’imposizione del socio).

Una luce in fondo al tunnel?

Si spera non sia il treno che arriva nella direzione opposta.

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