Dall’anno 2016 la giurisprudenza di legittimità ha affrontato in modo disomogeneo il tema delle sanzioni IVA su operazioni inesistenti in reverse charge. Tuttavia, la prospettiva offerta dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 20 luglio 2022, n. 22727 ha dipanato molti dubbi sul reale significato della disposizione legislativa contenuta nel secondo periodo dell’art. 6, comma 9-bis.3, D.Lgs. n. 471/1997, cui gli organi giurisdizionali dovranno conformarsi. Nel saggio si offre, altresì, un’interpretazione critica di alcuni ulteriori principi fissati con la predetta sentenza che, da un punto di vista sistematico, non si integrano in modo corretto rispetto all’attuale cornice legislativa.
Can the jurisprudential conflict on the subject of VAT penalties on non-existent reverse charge transactions be said to be over? – Since 2016, the Italian Supreme Court has dealt unevenly with the issue of VAT penalties on non-existent transactions recorded in reverse charge. However, the perspective offered by the Joint Sections of the Court of Cassation with Judgment no. 22727 of 20 July 2022 has unraveled many doubts about the real meaning of the legislative provision contained in the second sentence of art. 6, paragraph 9-bis.3 of Legislative Decree no. 471/1997, to which the future decisions of Italan courts must comply. In any case, the present essay also offers a critical interpretation of some further principles established by the aforementioned judgment which, from a systematic standpoint, do not integrate correctly with respect to the current legislative framework.
Sommario:1. Introduzione. – 2. Breve excursus sull’evoluzione giurisprudenziale nazionale in tema di sanzioni IVA da errata applicazione del “reverse charge”. – 3. Sulla graduazione dell’impianto sanzionatorio IVA da reverse charge alla luce del principio di proporzionalità. – 4. Sull’estensione applicativa dell’art. 6, comma 9-bis.3 anche alle operazioni imponibili soggettivamente inesistenti senza prova del coinvolgimento del cessionario.
1. La sentenza n. 22727 depositata il 20 luglio 2022 dalla Suprema Corte, ed emessa a Sezioni Unite, ha dipanato molti dei dubbi interpretativi esistenti sul reale significato della disposizione legislativa contenuta nel secondo periodo del comma 9-bis.3 di cui all’art. 6 D.Lgs. n. 471/1997, alla quale gli altri giudici, l’Amministrazione finanziaria ed i contribuenti dovranno uniformarsi. In alcuni passaggi, la citata decisione pare, tuttavia, essersi spinta oltre, cercando di soddisfare le istanze di proporzionalità del sistema sanzionatorio IVA per operazioni in inversione contabile, come a voler modulare il canone della proporzionalità all’estrema eterogeneità delle operazioni inesistenti in ambito tributario; principio che, tuttavia, pare in alcuni casi addirittura travalicare l’intento del legislatore di sanzionare condotte con un potenziale effetto fraudolento a danno del sistema IVA.
Infatti, pur risultando assolutamente apprezzabile lo sforzo compiuto dalla Corte di Cassazione nel suo complesso, non si può concordare con l’applicabilità dell’«art. 6, c. 9-bis.3 anche al caso di operazioni soggettivamente inesistenti imponibili per le quali ricorrono comunque i requisiti per il riconoscimento del diritto alla detrazione, per carenza di prova dell’elemento psicologico» (Cassazione, passo 13 sentenza, cit.), laddove sarebbe comminata una sanzione proporzionata all’imponibile delle operazioni senza che vi sia compartecipazione da parte del cessionario nell’intento fraudolento: in tal caso, l’ignoranza incolpevole dell’acquirente risulterebbe ancor più che sostenuta dal fatto che l’operazione, così come strutturata in applicazione del sistema del reverse charge, di fatto asseconderebbe la volontà del legislatore nell’intento di prevenire il compimento di frodi proprio per il tramite della (erronea) effettuazione dell’inversione contabile.
2. L’intervento della Suprema Corte, con la citata sentenza n. 22727/2022, dirime i precedenti contrasti giurisprudenziali che, dal 2015 in avanti, si sono assestati lungo due direttrici fondamentali.
Le prime pronunce di legittimità successive alla riforma dell’impianto sanzionatorio amministrativo, con l’introduzione del “nuovo” comma 9-bis.3 nell’art. 6 D.Lgs. 471/1997 (cfr. art. 15 D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158 unitamente alla contestuale modifica dell’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972), hanno formato un orientamento incline ad un’interpretazione restrittiva del dettato normativo di cui al secondo periodo dell’art. 6, comma 9-bis.3, D.Lgs. n. 471/1997 (cfr. sent. 9 agosto 2016, n. 16679; sent. 19 maggio 2017, n. 12649; sent. 17 gennaio 2018, n. 958; sent. 31 gennaio 2019, n. 2862). Tale filone proponeva, in particolare, l’applicazione della norma suddetta alle sole operazioni inesistenti “esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta”, per le quali non opererebbe il disconoscimento ed il recupero della detrazione IVA, unitamente alla comminazione della sanzione più mite dal 5% al 10% dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro.
In senso opposto era orientata la prassi con la circolare dell’Agenzia delle Entrate 11 maggio 2017, n. 16/E dove il secondo periodo dell’art. 6, comma 9-bis.3, D.Lgs. n. 471/1997 veniva interpretato in modo disgiunto dal primo periodo: in tale documento si proponeva un’applicazione estensiva della disciplina prevista dal comma 9-bis.3 alle operazioni inesistenti tout court (sul tema Leo M., Ancora incertezze sulle sanzioni IVA: il caso delle operazioni inesistenti in regime di reverse charge, in Corr. trib., 2021, 1, 39 ss.), a prescindere quindi dalla natura dell’operazione ai fini IVA.
Adesivo alla posizione della prassi amministrativa e contrario alle prime sentenze di legittimità era, invece, il secondo filone giurisprudenziale (cfr. sent. 12 dicembre 2019, nn. 32552, 32553, 32554 e sent. 30 luglio 2020, n. 16367), secondo cui non vi era alcuna distinzione in tema di sanzioni IVA da errata applicazione del reverse charge tra operazioni inesistenti di tipo oggettivo o soggettivo.
Con la sent. 3 dicembre 2020 n. 27674, la Suprema Corte – riconoscendo l’opportunità di effettuare un approfondimento della disciplina sanzionatoria in tema di operazioni inesistenti in regime di reverse charge domestico, stante l’elevato numero di controversie pendenti sul tema – ha richiesto l’intervento dell’Ufficio del Ruolo e del Massimario per la redazione di una relazione tematica, nella chiara prospettiva di dirimere le incertezze sia dal punto di vista operativo che sul fronte istruttorio e giurisdizionale in materia.
Con l’ord. 20 gennaio 2022, n. 1703 la Cassazione ha rimesso alle SS.UU. la questione dell’ambito applicativo dell’art. 6, comma 9-bis.3, D.Lgs. n. 471/1997, che con la sent. 20 luglio 2022, n. 22727 hanno abbracciato il primo e più restrittivo degli orientamenti esposti, ritenendo che la «parte finale del comma 9-bis.3, laddove introduce per le operazioni inesistenti una sanzione ridotta rispetto a quella prevista per i casi nei quali il contribuente non ha applicato l’IVA con il sistema dell’inversione contabile interno…riguardi esclusivamente le operazioni inesistenti che siano astrattamente “esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta”, e non anche le operazioni inesistenti astrattamente imponibili per le quali non è ammesso il diritto a detrazione».
3. Per comprendere la correttezza sistematica della graduazione della sanzione amministrativa in caso di operazioni in reverse charge, di cui al citato art. 6, comma 9-bis.3, D.Lgs. n. 471/1997, occorre ripercorrere brevemente l’impianto normativo di cui ai precedenti commi 9-bis, 9-bis.1 e 9-bis.2, che disciplinano le diverse situazioni di mancata o errata applicazione del sistema dell’inversione contabile.
Nello specifico, il comma 9-bis prevede misure sanzionatorie generalmente applicabili a comportamenti omissivi degli adempimenti relativi all’inversione contabile per operazioni comunque rientranti nel meccanismo del reverse charge (sul tema, Giuliani G. – Spera M., Nuove sanzioni per le operazioni soggette al reverse charge, in il fisco, 2016, 16, 1534 ss.). I commi 9-bis.1 e 9-bis.2 introducono, invece, un trattamento sanzionatorio simmetrico (sul tema Balzanelli M. – Sirri M., Le nuove sanzioni per il “reverse charge”: luci e ombre di una norma attesa, in Corr. trib., 2016, 5, 353 ss.) applicabile ai casi speculari di irregolare assolvimento dell’imposta da parte del cedente/prestatore in luogo del cessionario/committente e viceversa. Si deve osservare che sia all’interno del 9-bis.1 sia nel comma 9-bis.2 il legislatore ha già previsto un trattamento sanzionatorio più pesante qualora l’errato assolvimento dell’IVA sia stata determinato da un intento di evasione o di frode: in questi casi, la sanzione applicabile (rispettivamente al cessionario, nel primo dei due commi, ovvero al cedente, nel secondo) è quella del comma 1 dell’art. 6.
Per altro verso, il comma 9-bis.3 disciplina la situazione di errata applicazione del reverse charge laddove da un’operazione “nata” come esente, non imponibile e non soggetta ai fini IVA, si crei documentalmente materia imponibile mediante assolvimento dell’imposta assolta dal cessionario o committente (sul tema, Salvini L. – La Rosa A.M., “Reverse charge” e operazioni inesistenti: brindano i “missing traders” o ha ragione la Cassazione? in Corr. trib., 2016, 3287 ss.), ancorché non risulti soddisfatto il requisito essenziale dell’imponibilità (sul punto, con la circ. n. 37/E/2015, 25, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che il «presupposto applicativo dell’inversione contabile è l’imponibilità dell’operazione»). Dopo aver previsto un meccanismo di sterilizzazione delle poste attive e passive, nel secondo periodo del medesimo comma, il legislatore ha introdotto una sanzione più mite dal 5% al 10% dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro, applicabile alle sole operazioni inesistenti “esenti, non imponibili o comunque non soggette a imposta”, per le quali non opererebbe il disconoscimento ed il recupero della detrazione IVA. Secondo le SS.UU., il secondo periodo del comma 9-bis.3 andrebbe interpretato in senso restrittivo, da leggersi congiuntamente al primo periodo, rimanendo pertanto applicabile la sanzione più grave di cui al comma 1 dell’art. 6 nei casi di operazioni inesistenti ancorché astrattamente imponibili.
Per valutare la proporzionalità e la graduazione del sistema sanzionatorio IVA su operazioni in reverse charge alla luce del principio sancito dalle SS.UU. si deve considerare la ratio dell’attenuazione punitiva perseguita dal legislatore delegato e contenuta nella Relazione illustrativa del D.Lgs. n. 158/2015, nei casi di «effetti sostanzialmente neutri» ricorrenti nel caso di reverse charge su operazioni inesistenti imponibili o meno (cfr. Farri F., Sanzioni IVA e principio di proporzionalità: nuove prospettive dalla Cassazione, in Riv. tel. dir. trib., 2016, 2, XI, 185 ss.). Inoltre, il D.Lgs. n. 158/2015, recante la revisione complessiva del sistema sanzionatorio tributario, si prefiggeva come obiettivo cardine la graduazione in modo maggiormente progressivo e puntuale della risposta sanzionatoria, rendendo maggiormente coerente il nuovo impianto normativo con l’effettiva gravità delle condotte perpetrate alla luce del principio di proporzionalità della sanzione (cfr. Arginelli P. – Rottoli A., Le nuove sanzioni amministrative applicabili in caso di irregolare assolvimento dell’IVA mediante reverse charge, in Riv. tel. dir. trib., 2016, 1, XII, 208 ss.). Infine, la proporzionalità dell’impianto sanzionatorio amministrativo tributario ex art. 6 D.Lgs. 471/1997 deve essere valutata anche alla luce del principio di cartolarità di matrice comunitaria, recepito dall’art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, quale norma di natura non sanzionatoria (cfr. Basilavecchia M., In tema di recupero dell’Iva non dovuta: presupposti, condizioni, modalità, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2004, 2, II, 45 ss.) e ispirato all’eliminazione del rischio di perdita di gettito fiscale.
Sulla base di tali considerazioni, la risposta sanzionatoria dovrebbe essere graduata e differenziata nelle fattispecie in cui il cessionario/committente assolva l’IVA al posto del cedente nell’erronea applicazione del regime del reverse charge su un’operazione inesistente, rispetto alle situazioni in cui il cedente addebiti l’IVA al cessionario in ragione del principio della rivalsa, quale rapporto di natura squisitamente privatistica (v., sul punto, Salvini L., IVA non dovuta: una nuova disciplina poco meditata, in Corr. trib., 2018, 21, 1607 ss.), trattandosi di operazioni (seppur inesistenti) che astrattamente rientrano nell’ambito dell’imponibilità IVA e che il committente registri in base al regime “ordinario”. In questo contesto non si sta indagando specificamente il diritto alla detrazione dell’IVA nel caso di operazioni inesistenti, nel qual caso non sarebbe tanto rilevante focalizzare l’attenzione sull’accertamento dell’indebito vantaggio fiscale conseguito, ma sarebbe piuttosto sufficiente verificare la presenza del requisito sostanziale della qualità di soggetto passivo del fornitore di beni o servizi. Il punctum pruriens è rappresentato dalla necessità di ragionare sulla graduazione dell’impianto sanzionatorio IVA alla luce dell’intervento delle SS.UU., laddove, in caso di reverse charge, l’evasione dell’imposta risulti inesistente, mentre del resto non si potrebbe nemmeno valutare la conoscibilità di un’evasione, che di fatto non esiste (cfr. Sirri M. – Zavatta R., Non è detraibile l’IVA se si indica un fornitore fittizio o se è provata l’evasione, in GT – Riv. giur. trib., 2022 2, 105 ss.).
Risulterebbe, quindi, avere molto più peso la valutazione del pregiudizio dell’interesse erariale nell’ottica della gradualità dell’impianto sanzionatorio ex art. 6 D.Lgs. n. 471/1997.
In altre parole, potrebbe essere avallato un differente trattamento sanzionatorio tra le due fattispecie di seguito proposte nel solo caso in cui vi fosse un differente danno (anche solo potenziale) per l’Erario nelle due ipotesi che prevedono:
(i) da un lato, operazioni “inesistenti” che abbiano (solo teoricamente, data la loro inesistenza) natura IVA di operazioni esenti, non imponibili o non soggette, ancorché registrate in reverse charge; mentre
(ii) dall’altro lato, operazioni “inesistenti”, che astrattamente abbiano natura di operazioni imponibili ai fini IVA, il cui assolvimento dell’IVA è avvenuto in inversione contabile,
nel solo caso in cui vi fosse una differente pericolosità della condotta fraudolenta al fine della tutela della riscossione dell’IVA, quale bene giuridico protetto dall’interesse erariale.
Nel caso di operazioni “esenti, non imponibili o non soggette”, non vi sarebbe ab origine circolazione di IVA. Pertanto, anche nel caso di operazioni (esenti, non imponibili o non soggette) simulate dal punto di vista soggettivo o oggettivo l’intento fraudolento non potrebbe consistere nell’evasione di IVA, e ciò a maggior ragione qualora la stessa fosse assolta erroneamente in reverse charge dall’acquirente; si potrebbe verificare semmai un vantaggio fiscale illecito attinente alla sfera dell’imposizione diretta e dell’IRAP. Nel caso di specie, il legislatore applicherebbe la sanzione ridotta dal 5% al 10% dell’imponibile (alla stregua di una “mini-aliquota” IVA).
Tuttavia, anche nel caso di operazioni simulate dal punto di vista soggettivo o oggettivo e astrattamente imponibili, ancorché registrate in reverse charge “erroneamente” (se così si può dire, considerando le dinamiche patologiche in cui tale situazione si verifica), non vi sarebbe alcuna circolazione dell’IVA: infatti, il cedente emetterebbe fattura senza applicazione dell’IVA, a fronte della quale il cessionario procederebbe con l’assolvimento dell’imposta in luogo del soggetto passivo ponente in essere la cessione o la prestazione imponibile, di fatto sterilizzando da un punto di vista finanziario l’operazione con la doppia registrazione. Tuttavia, secondo l’orientamento delle SS.UU., in tale circostanza troverebbe applicazione la sanzione dal 90% al 180% dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato, prevista dall’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997.
Nello specifico, considerando che le operazioni (che in realtà non esistono) sarebbero state generate in regime di imponibilità IVA, anche in ossequio al principio di cartolarità di matrice comunitaria ex art. 21, comma 7, D.P.R. n. 633/1972, la detrazione IVA verrebbe disconosciuta in capo al cessionario per via dell’ineffettività dell’operazione (soggettiva o oggettiva), mentre l’IVA assolta del medesimo soggetto risulterebbe dovuta.
Al riguardo, si ritiene corretta la posizione rigorosa assunta Suprema Corte che nega l’applicazione della sanzione amministrativa ridotta “compresa tra il cinque e il dieci per cento dell’imponibile, con un minimo di 1.000 euro” al caso di operazioni inesistenti astrattamente imponibili; tuttavia, tale impostazione restrittiva appare condivisibile solamente nella misura in cui l’esatta portata della norma definita dalle SS.UU. intenda attribuire maggior tutela all’azione di forte contrasto all’evasione (anche solo potenziale) e alle frodi ed al principio di cartolarità di matrice eurounitaria, rispetto al principio della sostanziale “neutralità fiscale” degli effetti delle operazioni in reverse charge avallato precedentemente sia dal legislatore nazionale che dall’Amministrazione finanziaria. In tale ottica, secondo le Sezioni Unite, il trattamento sanzionatorio applicabile non può che essere quello previsto dall’attuale art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997, con il quale «il legislatore ha inteso fortemente osteggiare le condotte integranti operazioni (non esenti o imponibili) inesistenti, destinate potenzialmente a prestarsi ad intenti frodatori ed evasivi, mancando per tali operazioni i requisiti sostanziali previsti per il riconoscimento del diritto alla detrazione».
È in tale contesto che, probabilmente, un rinvio pregiudiziale sollevato innanzi alla CGUE sarebbe stato ancor più risolutivo ed appropriato, trattandosi comunque della disciplina sanzionatoria del “tributo europeo”.
In sostanza, l’impostazione sanzionatoria delle Sezioni Unite sulle operazioni inesistenti “teoricamente imponibili” sposa la tesi più rigorosa, consistente nell’applicazione della sanzione dell’art. 6, comma 1 (con sanzione dal 90% al 180% dell’imposta relativa all’imponibile), cui andrebbe a sommarsi l’ulteriore sanzione di pari misura per indebita detrazione IVA ex art. 6, comma 6, del medesimo decreto e la correlata sanzione per infedele dichiarazione IVA a fronte di operazioni inesistenti ex art. 5, comma 4-bis del citato decreto (con sanzione dal 135% al 270% della maggiore imposta dovuta). In tal modo, si osserva pertanto una sostanziale parità di trattamento, sia nell’ottica del recupero dell’imposta che con riguardo alla comminazione delle relative sanzioni tra operazioni inesistenti imponibili (senza applicazione del reverse charge) a quelle in imponibilità con inversione contabile, al lordo degli eventuali effetti positivi derivanti dall’applicazione del cumulo giuridico.
Tale risultato non può lasciare pienamente soddisfatti i differenti operatori, proprio alla luce del canone della proporzionalità applicabile alla potestà sanzionatoria domestica (cfr. Antonini M. – Piantavigna P., Nelle operazioni fittizie l’assenza di un danno erariale consente la rettifica IVA ed esclude la sanzione, in Corr. trib., 2019, 8-9, 788 ss.).
4. Non è, invece, per nulla soddisfacente la posizione assunta dalle SS.UU. riguardo all’applicabilità dell’«art. 6, co. 9-bis.3 anche al caso di operazioni soggettivamente inesistenti imponibili per le quali ricorrono comunque i requisiti per il riconoscimento del diritto alla detrazione, per carenza di prova dell’elemento psicologico» (par. 13 della sentenza), laddove venisse comminata una sanzione proporzionata all’imponibile delle operazioni senza tuttavia che vi sia compartecipazione da parte del cessionario all’intento fraudolento. In tal caso, essendo acclarata l’ignoranza incolpevole dell’acquirente, l’applicazione di una sanzione proporzionale ad un soggetto in buona fede che applica il reverse charge, mentre sarebbe dovuto essere il cedente ad assolvere l’imposta, risulterebbe del tutto iniqua: infatti, in assenza di connivenza, l’operazione in commento risulterebbe sanzionata al pari di un’altra transazione (sebbene di natura esente, non imponibile o non soggetta) in cui l’intento fraudolento degli operatori sarebbe indiscusso; specie nel caso in cui, per via dell’assolvimento dell’imposta in applicazione del sistema del reverse charge, risulterebbe comunque rispettato nei fatti l’intento del legislatore di prevenire il compimento di frodi proprio per il tramite della (erronea) effettuazione dell’inversione contabile.
Una cautela idonea a rendere più aderente il sistema sanzionatorio ai fini IVA sopra delineato al principio di proporzionalità è rappresentata dalla facoltà dell’Ufficio accertatore o del Giudice tributario di graduare la sanzione applicabile in base all’art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997, con riduzione sino alla metà del minimo della sanzione se è «manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione».
Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti risulterebbe, invece, corretta l’applicazione della sanzione dal 90% al 180% dell’imposta relativa all’imponibile non correttamente documentato o registrato, prevista dall’art. 6, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997, laddove non risulti soddisfatto il requisito essenziale per la detrazione dell’IVA quale quello dell’identificazione del reale fornitore o prestatore e la relativa soggettività passiva IVA. Indipendentemente dal regime scelto dal cessionario per l’assolvimento dell’imposta, l’inesistenza a monte dell’operazione da un punto di vista soggettivo provocherebbe l’impossibilità per il cessionario di poter conoscere l’identità del fornitore con conseguenza incapacità di poter scientemente assolvere l’imposta in luogo del soggetto passivo che ha posto in essere la prestazione.
* La pubblicazione è fatta dall’Autore a titolo personale e non impegna in alcun modo l’Amministrazione di appartenenza.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Antonini M. – Piantavigna P., Nelle operazioni fittizie l’assenza di un danno erariale consente la rettifica IVA ed esclude la sanzione, in Corr. trib., 2019, 8-9, 788 ss.
Arginelli P. – Rottoli A., Le nuove sanzioni amministrative applicabili in caso di irregolare assolvimento dell’IVA mediante reverse charge, in Riv. tel. dir. trib., 2016, 1, XII, 208 ss.
Balzanelli M. – Sirri M., Le nuove sanzioni per il “reverse charge”: luci e ombre di una norma attesa, in Corr. trib., 2016, 5, 353 ss.
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Comelli A., Iva comunitaria e Iva nazionale, Padova, 2000.
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Diritti degli interessati
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1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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