Ancora sui costi indeducibili ma effettivi attribuiti per presunzione ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria

Di Paola Coppola -

(commento a/notes to Cass., sent. 25 agosto 2022, n. 25322)

 

 

Abstract

Con la recente sentenza 25 agosto 2022, n. 25322 la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sulla presunzione della distribuzione ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria degli utili occulti ai fini IRPEF confermando altri precedenti, anche recenti (Cass., ord. 4 aprile 2022, n. 10679; Cass., 2 febbraio 2021, sent. 2224) per i quali vi sarebbe analogia tra i casi di maggior reddito imponibile IRES dovuto al recupero di costi inesistenti/fittizi con quelli in cui la rettifica sulla partecipata dipenda dal mero disconoscimento di costi certi, effettivi per ragioni legate al principio di competenza o inerenza o per violazioni di regole fiscali. L’interpretazione, per come viene prospettata, non è condivisibile perché intrisa di errate impostazioni teoriche e pratiche in materia contabile e nella determinazione del reddito d’impresa in dipendenza (derivazione) dal risultato (utile o perdita) del bilancio.

Again on non-deductible but actual costs attributed by presumption to shareholders of limited share-based companies. – With the recent sentence of 25 August 2022, n. 25322 the Supreme Court returned to rule on the presumption of distribution to shareholders of limited share capital companies of hidden profits for IRPEF purposes, confirming other precedents, including recent ones (Cass. Ord. N. 10679, 4 April 2022; Cass. Sent. n. 2224, February 2, 2021) for which there would be similarity between the cases of higher taxable IRES income due to the recovery of non-existent/fictitious costs with those in which the adjustment on the investee depends on the mere disavowal of certain, effective costs for reasons related to principle of competence, or inherence, or for violations of tax rules. The interpretation, as proposed, cannot be shared because it is imbued with incorrect theoretical and practical approaches to accounting and the determination of business income depending on (derivation) from the result (profit or loss) of the financial statements.

 

Sommario: 1. Il sistema di tassazione per esenzione e quello per trasparenza degli utili di partecipazione in società di capitali e di persone. – 2. La presunzione della distribuzione di utili occulti nei casi (possibili) di disconoscimento di costi fittizi o inesistenti. – 3. La presunzione della distribuzione di utili occulti nei casi (impossibili) del disconoscimento di costi effettivi e documentati per ragioni fiscali. – 4. I fraintendimenti della giurisprudenza di legittimità: l’analogia tra gli utili extracontabili da costi fittizi/ inesistenti e quelli da costi effettivi/esistenti della partecipata. – 5. Le ragioni del dissenso.

1. Come è noto, il parametro di riferimento per stabilire l’ambito soggettivo e oggettivo della presunzione di distribuzione degli utili occulti ai soci di società di capitali a ristretta base azionaria è il regime di tassazione per esenzione (e non per imputazione) che, dal 2003 è quello che va applicato per assoggettare ad IRES il reddito prodotto dalla società di capitali (ed enti commerciali) che non hanno optato per il regime di trasparenza di cui agli artt. 115 e 116 TUIR. Per tassare gli utili da partecipazione in società ed enti soggetti ad IRES ex art. 44, comma 1, lett. e), TUIR vanno applicati e rispettati, i criteri di imponibilità per esenzione (limitata) in capo ai soci secondo le diverse percentuali di imponibilità stabilite in funzione della natura del socio partecipante (artt. 47 per le persone fisiche, e 89 per imprese e società del TUIR)[1].

Ciò per premettere che si incontra un primo errore tecnico allorquando gli Uffici nell’applicare la presunzione della distribuzione in capo ai soci di società a ristretta base azionaria dapprima tassano il maggior reddito accertato in capo alla società e di poi imputano “quel maggior reddito” – al lordo e non al netto dell’IRES accertata – sui soci pro-quota, come se si trattasse di un reddito tassabile per trasparenza ex art. 5 TUIR (o 115/116 TUIR) “dimenticando” di aver tassato a fini IRES (24%), il maggior reddito sulla partecipata.

Quando ciò avviene, l’errore provoca evidenti effetti distorsivi. Basti considerare che quando il regime degli utili da partecipazione è la trasparenza – per le società di persone (art. 5 TUIR) o le società di capitali che hanno optato per quel regime alternativo (artt. 115/116 TUIR) – il reddito d’impresa prodotto dalla partecipata e, così, quindi, anche il “maggior reddito” accertato, non viene tassato in alcuna misura sulla stessa, ma è (solo) imputato pro-quota in capo ai soci indipendentemente dalla percezione (e non quindi “anche” sulla società). Nel sistema di tassazione delle società di capitali (ed enti commerciali), la tassazione ricade sulla partecipata (e non suoi soci) anche se, per ragioni sistematiche, alla tassazione societaria si “aggiunge” il carico di imposta a fini personali dell’utile da partecipazione conseguito dal socio (a titolo di dividendo o di utili assimilati al dividendo, o di maggior valore/beni in caso di scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio, o di liquidazione anche concorsuale della società).

Ne consegue che nel regime di tassazione degli utili da partecipazione delle società di capitali (tutte, e non solo di quelle a ristretta base azionaria) la tassazione in capo al socio-impresa, o socio di una società di persone in base all’aliquota marginale “su una (buona) parte” dell’utile distribuito (del 58,14%, salvi i casi di socio-società di capitale in cui è del 5%) e/o l’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% sul reddito percepito dal socio persona fisica, non è un’“agevolazione”, un “trattamento premiale” riconosciuto al percettore (come si legge, invece, in talune sentenze di legittimità)[2].

E’ solo il rimedio a dire il vero, imperfetto, contro la doppia imposizione economica che attualmente persiste nel sistema di tassazione delle società di capitali (ed enti commerciali) – in luogo del previgente sistema del credito d’imposta sui dividendi – anche se nella misura “mitigata”, scelta dal legislatore, rispetto al carico di imposte che grava sulla partecipata a fini IRES.

2. Tenendo a mente questa premessa, occorre chiedersi, nel rispetto del regime di tassazione per esenzione della società di capitali, quando può “verosimilmente” operare la presunzione che il maggior reddito occulto della società a ristretta base azionaria (in via extracontabile) sia stato trasferito “in nero” ai soci per escludere i casi in cui, all’opposto, la presunzione non può operare, in punto di fatto e di diritto.

La risposta è che ciò può avvenire, ragionevolmente, solo se la società partecipata ha occultato “ricavi” o ha dedotto “costi inesistenti/fittizi”, fermi i tanti interrogativi ed aspetti incerti sulla concerta applicazione della presunzione sui soci di minoranza o su quelli estranei alla gestione operativa della società[3]; sulla necessità che sussista un valido accertamento sulla partecipata prima di poter inferire la presunzione suoi soci[4]; e soprattutto, sui vincoli opposti dalla giurisprudenza alla prova contraria che il socio deve produrre in atti per superare la presunzione che gli “utili occulti” (da ricavi a nero o costi fittizi/indeducibili) siano effettivamente entrati nella sua disponibilità (e non di altri soci e/o di terzi, ad esempio l’amministratore non socio). Prova contraria che, per la Suprema Corte, consisterebbe (unicamente) nella dimostrazione da parte del socio che “i maggiori ricavi” (da utili occulti) o la contropartita dei “costi fittizi/inesistenti” siano stati «accantonati in bilancio dalla società ovvero da essa reinvestiti», come si legge anche nella sentenza in commento[5].

Ebbene, in molti lavori e commenti, anche della sottoscritta su questa rivista[6], si è avuto modo di osservare che proprio il vincolo apposto alla prova contraria basterebbe per dimostrare che ciò che viene richiesto al socio, di fatto, è una prova diabolica apparendo non solo inverosimile, ma tecnicamente impossibile, che la società partecipata, prima occulti utili extra – contabili (imponibili) e poi li “accantoni a riserva o li rinvesta nella società”. L’accantonamento di utili ai fini della costituzione di riserve (legale o statutaria ex artt. 2430 c.c. per le società per azioni, e 2463, c.c. per le società a responsabilità limitata) riguarda, infatti, solo gli utili di esercizio risultanti dal bilancio, ma non certo quelli “in nero” (per ricavi non dichiarati o costi fittizi). Del pari, il reinvestimento degli utili, non può che riguardare quelli regolarmente contabilizzati ma giammai gli utili “a nero” che, appunto, in quanto occulti, sono extra-contabili. Di qui, pretendere che il socio fornisca la prova dell’accantonamento/reinvestimento degli utili “extracontabili” significa, in sostanza, chiedere ai soci che hanno svolto attività di amministratori di autodenunciarsi, ed agli altri di denunciare gli amministratori, della formazione di “riserve occulte”, ovvero di fatti penalmente rilevanti ex art. 2621 c.c.

In sintesi, seguendo l’interpretazione di legittimità il socio, per superare la presunzione, dovrebbe fornire una prova “negativa” (di non distribuzione) che non può essere opposta secondo le regole contabili e principi di bilancio, posto che una società che occulti utili/proventi imponibili giammai potrebbe “accantonarli” in una riserva del patrimonio netto o “investirli” in cespiti patrimoniali senza impiegare, in via palese (e non occulta), la corrispondente contropartita di numerario (cassa/banca/crediti) – ovvero liquidità – in quella stessa annualità di controllo nella quale si determina, per via dell’accertamento operato dall’Ufficio, l’imputazione del maggiore imponibile (occulto) in via riflessa sul socio. La prova contraria “vincolata” dell’accantonamento o reinvestimento di utili extracontabili da parte del socio di s.r.l. a ristretta base azionaria, in definitiva, è un ossimoro con il quale si accostano termini di senso opposto, o in forte antitesi tra loro, che in definitiva, assume la connotazione di una prova diabolica, ovvero impossibile.

3. Ma, a ben vedere, la questione più spinosa ed inverosimile nell’applicazione della presunzione de quo è quella che si incontra nelle sentenze che si occupano, come quella in esame, dei casi in cui la rettifica del reddito societario dipenda dal disconoscimento di costi, effettivi, certi, documentati per ragioni legate alla sfasatura del periodo di competenza ex art. 109, commi 1 e 2, TUIR, o all’operare del principio di inerenza (art. 55 TUIR) oppure di violazioni di norme del TUIR.

Qui, come si comprenderà, non si dubita del fatto che la società partecipata abbia “impiegato” somme/risorse nell’acquisto/acquisizione dei beni o servizi per il sostenimento del costo che è confluito nel conto economico del bilancio dell’anno accertato per cui non può esservi, perché non v’è, alcuna “liquidità occulta” da intercettare; né – se si tiene a mente il sistema di derivazione (semplice) del reddito d’impresa dall’utile/perdita civilistica (ex art. 83 TUIR) – può dubitarsi del fatto che il costo indeducibile per ragioni di competenza e/o inerenza darebbe luogo – nell’accertamento – (solo) ad una variazione in aumento dell’utile/perdita civilistica (risultato ante imposte) e, quindi, (solo) all’aumento della base imponibile IRES senza che si possa, in alcun modo, “presumere” che le somme liquide (in definitiva, il danaro) investite/impiegate dalla società per sostenere i costi allocati nel conto economico (certi, effettivi, documentati) siano transitate nelle “tasche” dei soci[7]. Se si discute di somme impiegate dalla società per sostenere “quei costi”, stiamo parlando di somme che si sono dapprima generate “dentro la società” e, quindi, per definizione, di somme (liquide/danaro) e/o beni (in natura) non “fuoriusciti” dalla società ed “entrati” nella disponibilità dei soci.

Ebbene, se questa è la premessa del ragionamento sotteso all’applicazione della presunzione, come può ragionevolmente inferirsi che la società non abbia impegnato somme (liquide) in suo possesso per dotarsi di “quei costi” (esistenti) e le abbia “distolte” per distribuirle “in nero” ai soci? Si pensi, tra i tanti, al caso di un compenso all’amministratore dedotto per competenza, e non per cassa (ex art. 95, comma 5), oppure di costi sostenuti per l’acquisto di beni mobili/immobili dedotti in esercizio diverso da quello in cui si è verificata la consegna/spedizione (ex art. 109, comma 2, lett. a, TUIR), ecc. Quando ciò accade, è tecnicamente impossibile “presumere” che sia avvenuta una distribuzione/trasferimento ai soci del maggior reddito d’impresa accertato (provvisoriamente) nell’esercizio (n) in capo alla società in virtù del disconoscimento del costo dedotto nel periodo d’imposta “diverso” (n-1 o n+1).

Sostenere il contrario è un altro paradosso, inspiegabile ed incomprensibile.

Lo stesso accade quando le rettifiche del reddito d’impresa si fondano sul disconoscimento di costi sulla partecipata per questioni di inerenza. Anche qui, non si dubita dell’effettività del costo e, quindi, dell’impiego di risorse societarie, ma della non riconducibilità di quelli effettivamente sostenuti all’attività d’impresa della partecipata per cui il disconoscimento non può essere rappresentativo, verosimilmente, di una disponibilità finanziaria occulta (liquidità) “trasferita” e, quindi, “distribuita” ai soci. Se i costi sono stati sostenuti con risorse impiegate/investite dalla partecipata si esclude, in re ipsa, che si tratti di risorse distolte dall’impiego societario per essere trasferite (in nero) ai soci[8].

4. Ciò nonostante, talvolta queste basilari regole della determinazione del reddito d’impresa dei soggetti imprese/società non sono applicate dagli Uffici negli accertamenti operati sui soci, né più attentamente valutati dagli estensori delle sentenze di legittimità nella risoluzione dei casi concreti in cui accade di leggere, come avviene nella sentenza n. 25322/2022 in commento – che, al pari di quanto di verifica nei casi di utili extracontabili generatisi da costi indeducibili “fittizi/inesistenti” – si determinerebbe una «situazione analoga anche nel caso in cui il costo è indeducibile, per le più variegate ragioni (magari perchè è stato violato il principio di competenza D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109, sicchè la somma doveva essere versata in altro esercizio, o per mancata inerenza o per violazione di norme fiscali, come il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 99), ma è stato effettivamente sostenuto, con somme erogate in concreto dalla società. Anche in tali casi la società matura un reddito di impresa di importo maggiore a quello dichiarato, con presunzione di distribuzione dello stesso ai soci in proporzione della quota posseduta. In tali ipotesi, infatti, la società ha erogato tutte le somme presenti nel passivo del conto economico tra i costi, ma si tratta di costi indeducibili che vanno ad alterare il conto economico che, una volta emendato da tale errore, comporta inevitabilmente ricavi maggiori e, quindi, un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato. Anche in questo caso si genera un maggiore reddito che si presume distribuito ai soci delle società a ristretta partecipazione” (cfr. Cass. 2224/2021)» [sottolineature dell’Autrice]. Il che, pur con il dovuto rispetto alla Suprema Corte, non è condivisibile per una serie di ragioni tecniche.

5. Primo punto. Non v’è, perché non può esservi, alcuna analogia tra i casi di accertamento di utili occulti dovuti alla rettifica di costi inesistenti/fittizi, ovvero di quelli “non sostenuti” pur se dedotti, con i casi di maggior reddito IRES dovuto al mero disconoscimento di costi certi, effettivi e documentati per ragioni di competenza (ex 109 TUIR), inerenza (art. 55 TUIR) o per errori nell’applicazione di una (complessa) regola fiscale. Sono situazioni diametralmente opposte.

Nel primo caso, ovvero quando l’utile (civilistico) è interessato dalla deduzione di costi fittizi o inesistenti (oggettivamente, e nemmeno soggettivamente)[9], in via di principio, può operare la presunzione che si tratti di somme non sostenute/investite dalla società, imputate a conto economico al solo scopo di “ridurre” la base imponibile IRES e, quindi, di costi “creati” artatamente per generare “un minor imponibile” IRES (tassato) sulla partecipata di cui si sono avvantaggiati i soci (per i minori utili da partecipazione imponibili).

Nel secondo caso, ovvero quando l’utile civilistico è interessato dalla deduzione di costi effettivi/esistenti che, per “le più svariate ragioni” (quelle fiscali, e non anche civilistiche), possono essere disconosciuti dall’Ufficio perché ritenuti non di competenza dell’anno accertato (ma di anni precedenti/successivi), oppure non inerenti, o per altra violazione del TUIR rilevante, stiamo parlando di costi sostenuti con risorse societarie “prelevate” dalle disponibilità finanziarie (cassa/banca) presenti in società ed impiegate nell’acquisto di beni o servizi; somme che, quindi, in quanto trattenute ed impiegate dalla partecipata, non possono essere “entrate” nella diponibilità del socio.

Manca la “verosimiglianza” della presunzione contraria.

Secondo punto. Quando, usando le parole della sentenza n. 25322/2022 in commento, la società sostiene un costo con «somme erogate in concreto dalla società» (intendendo riferirsi, quindi, ad un costo effettivo/esistente) che, in sede di accertamento, dovesse essere ritenuto indeducibile per ragioni di competenza o inerenza, si genera certamente «un maggior reddito imponibile IRES» (rispetto a quello dichiarato in cui quel costo è stato dedotto) ma non può (non, può) scattare alcuna presunzione «di distribuzione dello stesso ai soci in proporzione della quota posseduta».

In tali ipotesi, infatti, la società: «se ha erogato tutte le somme presenti nel passivo (rectius: in dare) del conto economico tra i costi, non si tratta (non, si tratta) di “costi indeducibili che vanno ad alterare il conto economico che, una volta emendato da tale errore, comporta inevitabilmente ricavi maggiori e, quindi, un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato» [sottolineature dell’Autrice].

I costi indeducibili (per ragioni fiscali) “restano” dove sono – ovvero nel conto economico (nel risultato ante imposte) – che, di conseguenza, resta “immutato” e non è “alterato”, venendo (solo) ripresi tra le variazioni in aumento in dichiarazione nella ri-determinazione/rettifica operata in sede di accertamento. La rettifica del reddito operata in sede di accertamento non comporta, infatti, alcuna modifica del bilancio depositato al registro imprese.

Terzo punto. Il “disconoscimento” di costi (effettivi/esistenti) per ragioni di competenza, inerenza, o eventuali altri errori commessi nell’applicazione delle regole del TUIR, fermo il fatto che non è “un errore che va emendato nel conto economico” come detto, e per tante altre ragioni (contabili/giuridiche) – genera sicuramente “un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato, ma non comporta (non, comporta)“inevitabilmente ricavi maggiori”, perché genera solo una variazione in aumento del risultato civilistico in dichiarazione, e di conseguenza non è (non, è) sintomatico di “un maggiore reddito che si presume distribuito ai soci delle società a ristretta partecipazione.

Si tratta della sola conseguenza – tecnica – dell’applicazione del sistema di derivazione del reddito d’impresa dal risultato civilistico (ex art. 83 TUIR) che provoca, in caso di rettifica della dichiarazione per costi indeducibili, l’aumento del reddito imponibile IRES (oltre che IRAP o IVA) in capo alla società e non genera, quindi, “inevitabilmente maggiori ricavi”, né un “maggior utile” (civilistico) che, come sappiamo, è il solo che potrebbe ritenersi, in via teorica, indebitamente “spartito” tra i soci. Ma allora, c’è davvero da chiedersi, che c’entrano i soci?

Di fronte agli interrogativi senza risposta, ed ai disorientamenti tecnici segnalati non resta che augurarsi che “la regola non scritta” della presunzione che ci occupa, se destinata ad operare, trovi al più presto una declinazione nella legge che indichi una soluzione univoca nell’applicazione, e nella risoluzione giudiziale dei casi concreti, per evitare gli attuali ingiustificabili ed illegittimi aggravi impositivi e sanzionatori sui soci.

 

[1] Si passa, com’è noto, dall’esenzione limitata al 95% – con imponibilità del 5% – se il socio è una società di capitali o ente commerciale soggetto ad IRES, all’esenzione limitata, oggi al 41,86% – con tassazione del 58,14% – (per gli utili posti in distribuzione a partire dal 1° gennaio 2008, ex L. n. 205/2017) se si tratta di socio di società di persone o persona fisica che detiene la partecipazione nell’esercizio di un’impresa, fino ad arrivare all’applicazione dell’imposta sostitutiva del 26% sugli utili deliberati se a percepire gli utili (dopo il 1° gennaio 2018) è una persona fisica che detiene la partecipazione, fuori dall’esercizio di una impresa, sia che si tratti di partecipazione qualificata, che non qualificata.

[2] Cass., sez. V, ord. 2 aprile 2021, n. 9137.

[3] Molte sentenze di merito, confermate in sede di legittimità, stanno disconoscendo la legittimità degli avvisi di accertamento sui soci di minoranza che non hanno alcun poter di indirizzo/controllo delle decisioni e/o quelli che non possono essere venuti a conoscenza dell’ammontare di ricavi/proventi occulti in una società di capitali (di recente, Cass., sez. VI, ord. 1° dicembre 2020, n. 27445).

[4] Tant’è che, come confermato anche di recente (Cass., sez. V, ord., 2 aprile 2021, n. 9137), per procedere all’imputazione al socio del reddito presumibilmente ricavato dalla società, il giudice ha l’onere di accertare che il maggior reddito societario è stato effettivamente prodotto (Cass., sez. V, sent. 22 aprile 2009. n. 9519; Id. 29 dicembre 2011, n. 29605).

[5] La configurazione di siffatta prova contraria “vincolata” è una costante nelle sentenze di legittimità. Tra le tante, solo per citare le più recenti, si vedano: Cass., sez. V, ord. 29 gennaio 2020, n. 1970; Cass., sez. VI, ord. 14 febbraio 2020, n. 3735; ord., 22 aprile 2021, n. 10732.

[6] Si rinvia alla bibliografia essenziale.

[7] Quando si applica il sistema di derivazione rafforzata per le società che adottano i principi contabili internazionali (IAS adopter) o nazionali (OIC adopter) non si applica, com’è noto, l’art. 109, commi 1 e 2, TUIR, ma si attua il rinvio ai “criteri di qualificazione, classificazione, imputazione temporale” previsti da detti principi contabili con applicazione, per i casi estranei a detti criteri e, quindi, per le valutazioni, ammortamenti, accantonamenti, rimanenze, delle regole stabilite dal TUIR ex art. 83 TUIR, come modificato dall’art.13-bis D.L. 30 dicembre 2016, n. 244. Ne segue che nelle rettifiche delle dichiarazioni dei redditi dichiarati dalle società a ristretta base azionaria che optano per il bilancio in forma ordinaria, a decorrere dai bilanci dal 2016, ed oggi anche se ad esercitare l’opzione sono le microimprese (ex D.L. n. 73/2022), l’applicazione della presunzione de quo dovrà fare i conti con il regime di derivazione rafforzata che non potrà vedere più rettifiche di costi per mere ragioni di competenza in sede di accertamento sulla società e, di riflesso, nemmeno sugli accertamenti sui soci.

[8] L’unico caso che potrebbe sollevare profili di incertezza potrebbe riguardare i costi non inerenti perché afferenti la sfera personale del socio/soci. Ma anche qui l’Ufficio potrebbe validamente recuperare in capo alla società l’IRES su quell’indebita deduzione, senza poter inferire, tuttavia, in automatico, che quel maggior reddito d’impresa sia stato trasferito (a nero) sui soci (pro-quota), visto che il recupero è legato al fatto che siamo di fronte ad un costo sostenuto con risorse pur “prelevate” (pur se indebitamente) dalla società, ma pur sempre “rimaste/trattenute” in società ed impiegate nell’acquisizione di bene/beni iscritti tra quelli dell’impresa, anziché essere sopportato (direttamente) dal socio con fonti di reddito personali, ma non certo di somme “trasferite” per presunzione ai soci (pro-quota).

[9] Ed infatti, la rettifica di costi soggettivamente inesistenti lascia impregiudicato, com’è noto, il diritto della società a dedurre i costi sostenuti correlati ai maggiori ricavi accertati anche in caso di consapevolezza del carattere fraudolento delle operazioni, salvo che siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità ovvero relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo, valendo per il cessionario o committente solo il disconoscimento dell’IVA detratta (Cass., ord., 6 luglio 2021, n. 19169). Ciò per dire che in questi casi non vi sarebbe, in via di principio, un “maggior reddito” imponibile IRES da tassare sulla partecipata e, quindi, nemmeno quello tassabile per presunzione a fini IRPEF sui soci.

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