RECENTISSIME DALLA CASSAZIONE TRIBUTARIA – Un (tentativo di) dialogo fra dottrina e giurisprudenza. – Cass., 20 giugno 2022, n. 19862
Di Andrea Manzitti -
Può un soggetto non residente produrre reddito d’impresa in Italia senza una stabile organizzazione? (*)
La massima della Suprema Corte
L’esistenza di una stabile organizzazione in Italia non è una condizione necessaria affinché un soggetto possa essere qualificato come società commerciale e affinché gli atti da esso compiuti in territorio italiano possano essere ricondotti all’esercizio dell’impresa e i redditi prodotti nel reddito d’impresa.
Il (tentativo di) dialogo
Per iniziare un dialogo, e far comprendere esattamente la questione, non si può non riassumere, sia pur in breve, la fattispecie concreta.
Dopo avere trasferito la propria residenza fiscale dall’Italia al Belgio, una società vende un terreno edificabile situato in Italia. Realizza una plusvalenza ma non presenta la dichiarazione dei redditi. Non avendo stabile organizzazione in Italia pensava forse di esserne esonerata. Non è così, perché le plusvalenze derivanti dalla cessione di terreni edificabili siti in Italia sono tassabili in Italia anche per le società non residenti senza stabile organizzazione.
L’Ufficio ingiunge il pagamento dell’IRES sostenendo che la plusvalenza era imponibile come reddito d’impresa e non come reddito diverso.
La società ricorre in Cassazione. Una società non residente senza stabile organizzazione in Italia non è soggetta ad imposta per i suoi redditi d’impresa anche se di fonte italiana. Non avendo interesse, si guarda bene dall’accennare al fatto che la pretesa fiscale si reggeva comunque sulla base di altre norme.
Sconfitta nei gradi di merito, la società chiede alla Cassazione di annullare l’accertamento ribadendo che senza stabile organizzazione in Italia non si possono produrre redditi d’impresa.
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione respinge il ricorso perché «pecca di astrattismo e […] non rende evidente la sussistenza dell’interesse a ricorrere». Il ragionamento, rimasto nella penna dell’estensore, sembra il seguente. Impresa o non impresa, la plusvalenza era comunque soggetta ad IRES come reddito diverso di fonte italiana, la base imponibile e l’aliquota sono gli stessi, dunque la società non ha nulla di cui lamentarsi.
***
La riluttanza ad esprimere “in chiaro” il ragionamento può spiegarsi con il desiderio di non addentrarsi nell’intricata questione dei limiti imposti al giudice nel colmare le lacune di un avviso di accertamento. Nel caso specifico la domanda era la seguente: dato che l’Ufficio ha contestato la violazione di una certa norma e il contribuente si è difeso dicendo che quella norma non era applicabile, può il giudice dar comunque ragione all’Ufficio dicendo che l’accertamento è valido sulla base di altre norme che avrebbero condotto al medesimo risultato ma che l’Ufficio non ha invocato?
La questione è – a dir poco – dibattibile e ci sono solidi motivi per rispondere nell’uno e nell’altro senso.
Conscia del problema, la Cassazione si è comunque premurata di spiegare perché la scelta dell’Ufficio di tassare la plusvalenza come reddito d’impresa fosse comunque legittima.
Il nucleo del ragionamento è così riassunto: «l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia non è una condizione necessaria affinché un soggetto possa essere qualificato come società commerciale ed affinché gli atti da esso compiuti in territorio italiano possano essere ricondotti all’esercizio dell’impresa […]». Dunque, la plusvalenza sul terreno edificabile è tassabile come reddito d’impresa anche se il contribuente non residente non ha stabile organizzazione in Italia.
La premessa non regge la conclusione. Importa davvero poco stabilire se un atto compiuto in Italia (una compravendita, ad esempio) da una società commerciale non residente rientri o meno nell’esercizio dell’impresa. A dirla tutta, si può tranquillamente presumere che qualsiasi “atto” posto in essere da una società rientra nell’esercizio della sua impresa.
Quel che importa a fini tributari è verificare se l’attività d’impresa svolta in Italia raggiunga la soglia minima di rilevanza tributaria, costituita dalla stabile organizzazione.
Non basta qualificare come “di impresa” il reddito prodotto da una società non residente da un atto o da una attività svolta in Italia per tassarlo come reddito d’impresa. Bisogna che la società abbia una stabile organizzazione in Italia a cui quel reddito sia attribuibile.
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La rivoluzionaria tesi della Suprema Corte travolge decenni di sedimentate convinzioni sulla potestà impositiva italiana nei confronti dei non residenti ed entra in diretta collisione con uno dei principi cardine del diritto convenzionale.
Si tratta dell’art. 7, comma 1, del Modello di Convenzione OCSE secondo cui «gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata».
Nel nostro diritto interno, questo principio è declinato nella norma per cui le società non residenti sono tassabili solo per i redditi prodotti nel territorio dello Stato (art. 151 TUIR) ed in quella per cui si considerano prodotti nel territorio dello Stato i redditi d’impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione (art. 23 TUIR).
Questo principio non impedisce affatto all’Italia di tassare la società non residente per gli altri redditi che hanno la propria fonte nel territorio dello Stato, a condizione che quel reddito risulti tale (quindi tassabile) secondo le regole della categoria a cui appartiene.
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Sembra una banalità, ma non lo è. Facciamo un esempio semplicissimo. Pensiamo al caso di una società non residente senza stabile organizzazione in Italia che realizza una plusvalenza a seguito della cessione di un fabbricato posseduto da più di 5 anni.
Fino ad oggi, per sapere se la plusvalenza era tassabile o meno in Italia, si seguiva questo percorso: (a) se non c’è stabile organizzazione non si applicano le norme sui redditi d’impresa, e neppure il principio secondo cui ogni reddito prodotto dall’impresa è reddito d’impresa; (b) si cerca la categorie reddituale in cui incapsulare la plusvalenza; (c) nel nostro esempio, la categoria giusta è quella dei redditi diversi; (d) per i non residenti, il criterio di collegamento dei redditi diversi è la localizzazione del bene nel territorio italiano; (e) le plusvalenze sui fabbricati sono redditi imponibili solo se la cessione avviene entro 5 anni dall’acquisto. Ergo, in questo caso la plusvalenza non è imponibile.
La sentenza in commento indica un percorso assai diverso: (a) la società estera conduce una impresa commerciale; (b) pur non avendo stabile organizzazione in Italia, produce redditi d’impresa ogni qual volta compia qualcosa di redditualmente rilevante nel territorio italiano; (c) nella fattispecie, ha realizzato una plusvalenza su un bene italiano; (d) nella disciplina del reddito d’impresa rileva ogni tipo di provento ed è irrilevante il tempo che intercorre tra l’acquisto e la vendita di un bene. Ergo, la plusvalenza è imponibile.
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Fortunatamente, le sentenze della Corte Suprema non sono scolpite nel granito. Se dovesse occuparsi di questioni analoghe, è dunque possibile un ripensamento. Ma questo implica che nella sua attività di accertamento l’Agenzia delle Entrate faccia uso del discutibile principio qui commentato. E così non dovrebbe essere.
Sarebbe meglio che questa sentenza resti isolata e cada lentamente nell’oblio. Per la certezza del diritto sarebbe forse questo il male minore.
(*) La rubrica – come l’intera Rivista – è aperta a tutti coloro che intendono contribuire al progresso del diritto tributario, in generale, e al miglioramento della sua applicazione, in particolare, nella specie con interventi di commento della giurisprudenza di legittimità dialogici e costruttivi, scevri di polemiche e posizioni partigiane.
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