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IL PUNTO SU… Chiamato che rinunzia all’eredità ed imposta sulle successioni
Di Andrea Fedele -
A. La sentenza n. 11832 della Sez. V della Cassazione civile depositata il 12.4.2022, evidenzia affermazioni fra loro difficilmente conciliabili, sollecitando qualche approfondimento circa l’effettivo svolgimento della vicenda successoria considerata e l’interpretazione delle relative disposizioni del D. lgs. n. 346/1990 (la questione non riguarda le imposte ipotecarie e catastali eventualmente applicabili, anticipate alla presentazione della denunzia di successione e che il chiamato poteva richiedere a rimborso).
Il passaggio decisivo della motivazione parrebbe costituito dall’affermazione, riportata al punto 3, per cui: “Secondo la corretta applicazione del D.lgs. n. 346 del 1990, art. 7 (sic) in tema di imposta di successione, il presupposto dell’imposizione tributaria va individuato nella chiamata all’eredità e non già nell’accettazione” . Sembra qui accolta la tesi, ancor oggi sostenuta dall’Amministrazione finanziaria (che ne desume, ad es., la duplice applicazione dell’imposta in caso di trasmissione del diritto di accettare l’eredità – art. 479 c.c.), ma ormai concordemente contestata dalla dottrina (cfr., per tutti, Gaffuri G., L’impostasulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008, passim) che identifica invece il presupposto con l’acquisto dell’eredità o dei legati.
L’orientamento desumibile da questo passo non è però coerente con tutto il punto 2.1 della motivazione, in cui si richiamano precedenti giurisprudenziali che escludono la responsabilità del chiamato poi non divenuto erede per debiti (anche tributari) del de cuius. Naturalmente, poiché l’imposta di successione non può comunque essere considerata un debito del de cuius, la si dovrebbe, in questa prospettiva, più esattamente configurare come “peso ereditario” (art. 719 c.c.).
In realtà, se si ritiene che il presupposto del tributo sia integrato dalla sola chiamata all’eredità, si dovrebbe anche ritenere che validità ed efficacia dell’avviso di liquidazione notificato al chiamato non sono pregiudicati dal successivo venir meno di tale qualità, anche a seguito di rinunzia all’eredità; il riequilibrio tra gli assetti patrimoniali di chiamato rinunziante, eredi e legatari dovrebbe, secondo questo orientamento, essere affidato alla surrogazione disciplinata dall’art. 58 D.P.R. n. 131/1986, cui rinvia l’art. 36, c. 3, D. lgs. n. 346/1990. Correlativamente limitata risulterebbe l’operatività del rimborso da parte dell’Amministrazione finanziaria (art. 42, c. 1, lett. e), D. lgs. n. 346/1990).
Ma non è questa la soluzione cui la Corte intendeva giungere.
B. Alla surriportata affermazione di principio fa infatti seguito la seguente affermazione: “tale individuazione resta tuttavia condizionata al fatto che il chiamato acquisti effettivamente la qualità di erede, per cui l’imposta va determinata considerando come eredi i chiamati che non provino di aver rinunciato all’eredità o di non avere titolo di erede legittimo o testamentario.”.
Trattandosi di disciplina legislativa del presupposto del tributo, ci si potrebbe domandare se la frase abbia un significato diverso dal mero riconoscimento che il presupposto del tributo coincide, secondo la tesi dominante in dottrina, con l’acquisto dell’eredità o del legato; infatti la Corte riconosce che sarebbe in contrasto con l’art. 53 cost. “assoggettare ad imposta un soggetto rispetto al quale il presupposto impositivo, rappresentato dalla trasmissione dei beni mortis causa, non sia addirittura mai sorto per effetto della rinuncia.”.
La peculiarità dell’interpretazione data dalla Corte alle disposizioni in tema di responsabilità del chiamato consiste, in sostanza, nel riferimento alla subordinazione, con valenza retroattiva, degli effetti della fattispecie, che è propria della condicio facti.
C. A prescindere da ogni considerazione circa la possibilità stessa di configurare condiciones iuris con efficacia retroattiva che risolvano retroattivamente gli effetti della fattispecie imponibile di qualsiasi tributo, va rilevato che il risultato pratico conseguito con questo approccio al problema non differisce di molto da quello derivante dall’accettazione della tesi dominante in dottrina, salva forse una maggiore certezza nella qualificazione della rinunzia quale “fatto impeditivo”, con le relative implicazioni circa la regola del riparto dell’onere della prova (se ed in quanto la si ritenga operante nel procedimento e nel processo tributari).
In effetti, la peculiarità del caso cui la sentenza ha riguardo è data dalla circostanza che il chiamato all’eredità, tale alla notifica dell’avviso di liquidazione, non aveva impugnato l’avviso medesimo, così rendendolo definitivo, ma aveva poi rinunziato all’eredità.
La Corte giunge allora a formulare il seguente principio di diritto: “In tema di imposta di successione, il chiamato all’eredità, che, dopo aver presentato la denunzia di successione, ricevuto l’avviso di accertamento dell’imposta ometta di impugnarlo, determinandone la definitività, non è tenuto al pagamento dell’imposta ove successivamente rinunci all’eredità, in quanto l’efficacia retroattiva della rinuncia, legittimamente esercitata, determina il venir meno, con effetto retroattivo, anche del presupposto impositivo.”.
Questa soluzione apre però una questione di assai maggiore portata: si ammette esplicitamente la possibilità di un’azione (di mero accertamento?) volta a far valere l’insussistenza del presupposto di un tributo anche in presenza di un provvedimento, resosi definitivo, dell’Amministrazione che legittimamente ne ha affermato la sussistenza. In ragione dell’affermata valenza retroattiva della rinunzia anche in ordine alla sussistenza del presupposto si ripropongono temi storicamente dibattuti (cfr., ad es., Tremonti G., Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977, 325 ss.) attinenti l’efficacia degli atti d’imposizione, l’oggetto del giudizio nel processo tributario, i limiti e presupposti del processo stesso.
D. Invece di seguire la Corte su questa via impervia ed incerta negli esiti appare ragionevole riproporre la soluzione che risulta ormai prevalente in dottrina: il presupposto del tributo si identifica con l’acquisto dell’eredità o del legato; al chiamato che non abbia ancora acquistato l’eredità l’imposta può essere richiesta solo a titolo di anticipazione rispetto al verificarsi della fattispecie imponibile, cosicché la relativa obbligazione (“strumentale e provvisoria” – cfr. Gaffuri G., L’imposta cit., 70) è comunque influenzata da situazioni e vicende che possono escluderne la definitiva attuazione (se il chiamato, prima del pagamento, cessa di essere tale senza divenire erede – ad es., per rinunzia o prescrizione del diritto di accettare) oppure, se successive all’adempimento, dar luogo a rimborso ex art. 42, c. 1, lett. e), D. lgs. n. 346/1990; inoltre, ai sensi dell’art. 36, c. 3, del medesimo D.lgs., il chiamato è tenuto “nel limite del valore dei beni ereditari posseduti”.
La sussistenza di tali situazioni, che incidono sulla sussistenza e la misura dell’obbligazione del chiamato, se si verificano, come nel caso in esame, successivamente alla notifica della liquidazione dell’imposta ed alla sua definizione, può esser fatta valere dal chiamato stesso innanzi al giudice tributario mediante ricorso contro l’iscrizione a ruolo, o, dopo l’adempimento, con istanza di rimborso e successivo eventuale ricorso al giudice stesso, senza che sia necessario ipotizzare invalidità sopravvenute o accertamenti dell’insussistenza del presupposto che superino gli effetti di accertamenti definitivi.
E. La scarna esposizione dei fatti risultante dalla sentenza provoca un dubbio ed una domanda che sorgono immediati alla sua prima lettura: all’atto della notifica dell’avviso di liquidazione il chiamato era o non era in possesso di beni ereditari?
Se la risposta fosse positiva, la rinunzia all’eredità poteva essere validamente effettuata solo entro i tre mesi dall’acquisto del possesso, decorsi i quali il chiamato sarebbe divenuto erede puro e semplice (art. 485, c. 2, c.c., peraltro citato nella sentenza); dunque, ove l’ufficio avesse accertato il possesso prima di notificare la liquidazione, la rinunzia sarebbe stata, con molta probabilità, posta in essere prima della scadenza del termine per l’impugnazione della liquidazione stessa, non, come afferma la sentenza, dopo che essa era divenuta definitiva.
Sembra pertanto più probabile che il chiamato non fosse, alla notifica dell’avviso, nel possesso di beni ereditari e che non sia comunque prassi degli uffici accertarne la sussistenza per evitare l’emanazione di provvedimenti suscettibili di fondata contestazione.
In questo caso, la sentenza, negli esiti equa ed apprezzabile, potrebbe trovare una più valida e convincente motivazione nelle considerazioni sopra esposte.
Bibliografia essenziale
Gaffuri G., L’imposta sulle successioni e donazioni. Trust e patti di famiglia, Padova, 2008
Ghinassi S., Imposte di registro e di successione – Profili soggettivi ed implicazioni costituzionali, Milano 1995
Fedele A., Commento all’art. 36 D.lgs. n. 346/1990, in Fedele A. – Mariconda G. – Mastroiacovo V. (a cura di), Codice delle leggi tributarie, Assago, 2014, 731 ss.
Albertini F. V., I soggetti passivi e la coobbligazione solidale nell’imposta sullesuccessioni, in Neotera, n. 2/2020, 76 ss.
Tremonti G., Imposizione e definitività nel diritto tributario, Milano, 1977
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