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IL PUNTO SU… La fiscalità delle criptovalute tra rischi di evasione, problemi di tracciabilità e future prospettive
Di Bernardo Bellicini e Gian Luca Comandini -
A. L’art. 1, comma 2, lett. qq), D.Lgs. n. 90/2017, definisce la criptovaluta una “rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.
In Italia non è ancora stata codificata una specifica regolamentazione finanziaria e fiscale delle criptovalute. Nel vuoto normativo, l’Agenzia delle Entrate, con la risalente ris. n. 72/E/2016, ha definito la criptovaluta come tipologia di moneta “virtuale” utilizzata come “moneta” alternativa, la cui circolazione si fonda su un principio di accettazione volontaria da parte degli operatori privati. Il possesso di valute virtuali è divenuto così rilevante ai fini delle imposte sui redditi delle persone fisiche, generando in caso di plusvalenze – realizzate ovviamente al di fuori delle attività d’impresa – un reddito diverso, tassabile in base al disposto dell’art. 67 TUIR, pertanto ogni conversione di criptovaluta che generi plusvalenza è soggetta a tassazione con l’aliquota ordinaria del 26%.
L’assoggettamento a tassazione è dovuto però solo per giacenze che denotino un fine speculativo che è individuato, in parallelismo con la normativa sulla detenzione della moneta, nel limite di 51.645,69 euro per almeno sette giorni consecutivi nell’anno solare; da sottolineare che il calcolo del controvalore in euro va eseguito secondo i tassi di cambio della criptovaluta al 1° gennaio e che, inoltre, a determinare il suindicato valore concorrono tutte le valute diverse dall’euro detenute all’estero. Quindi nel calcolo devono essere inserite non solo le criptovalute ma anche le valute fiat diverse dall’euro. Importante rimarcare che la soglia di 51.645,69 euro afferisce alla detenzione e non alla plusvalenza: la detenzione oltre soglia fa diventare imponibile la plusvalenza.
Un aspetto non considerato da molti traders è che la plusvalenza si realizza ai fini fiscali per il solo fatto di cedere la criptovaluta, indipendentemente dalla circostanza che il controvalore realizzato sia costituito da valuta fiat oppure da altra cripto. Pertanto i passaggi cripto/cripto sono realizzi ai fini fiscali: si devono quindi pagare le imposte sulla plusvalenza facendo il calcolo dei controvalori scambiati.
I detentori di criptovalute sono obbligati a indicare l’ammontare posseduto nel quadro RW del modello Redditi per le persone fisiche, indicando il controvalore in euro della valuta virtuale detenuta al 31 dicembre, come rilevato a tale data sulla piattaforma dove il contribuente ha acquistato, e ciò indipendentemente dalla quantità di criptovalute possedute (non esiste una soglia minima). Tale dichiarazione non comporta il pagamento di tributi, ma la mancata dichiarazione può comportare il pagamento di sanzioni, inoltre l’omissione di tale adempimento sottopone il contribuente al rischio di un accertamento induttivo allorché tali importi siano utilizzati. In sostanza l’Agenzia delle Entrate parte dalla presunzione che le valute virtuali siano equiparabili alle valute estere e riconduce quindi tale fattispecie nell’ambito della disciplina del monitoraggio fiscale (cfr. circ. n. 38/E/2013).
Invero l’obbligo dichiarativo de quo pare sussistere (si condivide questo orientamento) soltanto quando le valute virtuali siano detenute presso exchange esteri, perché considerati alla stregua di attività estere, mentre la dichiarazione può essere omessa se le criptovalute sono custodite presso un exchange italiano, perché in questo caso sono considerate come un credito verso la piattaforma e non attività finanziaria estera.
Per l’Agenzia delle Entrate i wallet sono assimilabili a dei conti correnti che vengono assegnati quando si apre un account su un exchange. Il gestore dell’exchange per poter operare sul conto dispone delle chiavi private del wallet e, quindi, il luogo di localizzazione fiscale dello stesso andrebbe individuato nello Stato dove risiede il soggetto che ha le chiavi private per gestire il conto. Mentre per quanto concerne i wallet offline, come un cold storage, se la chiave privata è nelle mani del contribuente italiano, si presume che questo sia collocato in Italia e quindi l’obbligo di dichiarazione nel quadro RW non sussiste. Su questo punto si deve aggiungere, pur non condividendolo, che l’Agenzia in una recentissima risposta ad interpello del 24 novembre u.s. (n. 788/2021), ha affermato che sussiste l’obbligo di monitoraggio per tutte le valute digitali detenute, anche per quelle di cui il contribuente (italiano) detenga direttamente la chiave privata.
B. Il tema del trattamento fiscale dell’innovazione finanziaria è da sempre molto complesso e le criptovalute in particolare paiono prestarsi molto bene a favorire l’evasione fiscale o il riciclaggio di denaro, stante la relativa novità del fenomeno e, come visto nel precedente paragrafo, l’assenza di norme tributarie specifiche.
Anche per quanto riguarda la tassazione delle enormi plusvalenze realizzate dal trading di criptovalute, quello italiano appare – a detta di molti – un regime fiscale di favore, divenendo il capital gain imponibile oltre la soglia di giacenza di 51.645,69 euro. Questo sistema inoltre invoglia il contribuente fuori soglia a ridurre gli oneri, vendendo prima del 31.12/31 dicembre tutte le cripto al momento plusvalenti, per poi riacquistarle in un momento successivo, oppure a cederle a un terzo compiacente al solo scopo di custodirle al riparo da pretese impositive.
Dal punto di vista fiscale, però, il maggior problema delle criptovalute è costituito dalla difficoltosa tracciabilità delle stesse (il monitoraggio sembra essere il tallone d’Achille dell’intera disciplina tributaria in materia), tanto che il sistema impositivo è fondato sull’autodichiarazione, con scarsa possibilità di verifica dei valori esposti da parte dell’Amministrazione finanziaria.
C. Il contribuente infedele può quindi sottrarsi all’obbligo dichiarativo con relativa facilità. Il caso più evidente è dato dalla circostanza che per loro stessa natura le criptovalute possono essere conservate o scambiate tramite l’uso di un wallet “hardware” ovvero un dispositivo USB dedicato alla conservazione della valuta (i due modelli più noti sono Ledger Nano e Trezor) che potrebbe contenere importi davvero rilevanti e soprattutto scambiato brevi manu. Inoltre ogni rapporto di natura economica può essere regolato in criptovaluta, senza una successiva conversione in valuta fiat che possa far emergere il sommerso.
Le possibilità offerte al potenziale evasore che vuole occultare i fondi neri sono numerose e varie, con la possibilità di proteggersi dal rischio dell’eccessiva volatilità, tipica di alcune criptovalute, investendo i capitali in stablecoin che sono una forma di valuta digitale con asset tradizionale sottostante, il cui valore quindi può essere parametrato ad una comune valuta fiat.
Per questi motivi è opinione diffusa, ma qui non condivisa, che acquisti, vendite o transazioni a mezzo Bitcoin o altre cripto avvengano nel più totale anonimato e che le Autorità possano solo rintracciare le attività di conversione in valuta ordinaria.
Negli anni si sono susseguite più proposte di regolamentazione della materia che non hanno avuto tuttavia successo, poiché lo strumento per sua stessa natura non si presta ad essere regolamentato.
Tra le proposte si è pensato anche a chiedere alle banche di fornire un elenco dei bonifici verso gli exchange, senza considerare cheoggi esistono Stati con regimi assolutamente opachi (ad esempio, quelli Islamici) che non attuano alcuno scambio di informazioni finanziarie o fiscali, oltre che numerosi metodi di conversione in criptovaluta dei fondi neri. Per quanto riguarda il nostro Paese, l’Agenzia delle Entrate è in possesso di tutti gli IBAN noti dei vari exchange sia italiani che esteri, dunque è fattibile (o lo sarà a strettissimo giro) una verifica almeno afferente gli utilizzatori di conti italiani che hanno inviato bonifici in uscita verso quelle coordinate bancarie.
Anche negli USA si sta cercando di risolvere i problemi di tracciabilità delle criptovalute varando regole più stringenti, che oltre a prevedere l’obbligo per il contribuente di inserire nella dichiarazione in uno spazio specifico le valute digitali possedute, hanno imposto per le piattaforme l’ulteriore obbligo di comunicare i dati dei soggetti che vendono o comprano cripto e i relativi valori al Fisco. Questo tentativo di rendere trasparente il sistema si scontra però con il fatto che il potenziale evasore potrebbe delocalizzare attività e operazioni o adottare altre misure per evitare di essere individuato dal Fisco statunitense, inoltre molti exchange, come ad esempio Bitfinex, per non soggiacere alla nuova normativa stanno semplicemente chiudendo le loro attività in USA.
Per la rete non esiste il concetto di “estero”: sono gli scambi commerciali di beni acquistati con la criptovaluta che possono avvenire in diverse nazioni, ma la valuta virtuale spedita e ricevuta si troverà sempre e solo sulla rete.
La tassazione delle criptovalute potrebbe quindi apparire come una pratica al limite dell’impossibile, poichè non sembrano tracciabili e i tradizionali sistemi messi in campo non paiono risolvere questa situazione.
D. Il trattamento tributario delle criptovalute richiede la perfetta conoscenza del loro funzionamento e della filosofia sottesa, ma anche un esame generale degli aspetti tecnici della materia può però fornire spunti interessanti.
Invero, contrariamente al pensiero comune, le transazioni a mezzo le più diffuse cripto non avvengono in anonimato bensì in pseudonimato: infatti la blockchain è una struttura dati divisa in blocchi, decentralizzata, immutabile e condivisa tra i diversi nodi di una rete: dunque, un registro digitale eterno e immodificabile che funge da archivio storico di tutte le informazioni inserite al suo interno. L’inserimento e la validazione tecnica di tali informazioni sono delegati ad un meccanismo di consenso distribuito tra gli stessi nodi della rete, con conseguente certezza crittografica che ogni informazione sia eternamente tracciabile e non cancellabile: questo è il principale motivo tecnico per cui non è corretto definire protocolli come Bitcoin o Ethereum “anonimi”, essendo anzi crittograficamente tracciabili.
Alcune ricerche e studi di università come ad esempio l’University College di Londra o l’Università della California e la George Mason University hanno dimostrato come la maggior parte delle blockchain più conosciute siano assolutamente tracciabili, tanto da essere in alcuni casi indicati come gli strumenti più tracciabili mai inventati dall’umanità. Vi sono poi alcune specifiche criptovalute come ad esempio “Monero” che hanno invece caratteristiche molto vicine all’anonimato e che vengono spesso utilizzate nel darkweb per riciclaggio o altri fini illeciti.
Tuttavia, è stato più volte dimostrato che le transazioni plausibilmente riconducibili ad affari illeciti siano meno del 2% del totale delle transazioni, e ciò renderebbe uno strumento tecnologico come la blockchain molto più sicuro di strumenti attualmente utilizzati come il denaro contante.
Ciò lascia intendere che, alla luce delle sempre più stringenti regole che impongono KYC (know your customer) e profilazioni varie da parte degli exchange, è sempre più improbabile (oltre che illogico) utilizzare sistemi come Bitcoin come strumento di evasione o per occultare fondi neri sapendo che sarà sempre più facile in futuro risalire retroattivamente a tali transazioni.
E. L’esperienza accumulata fino ad oggi testimonia che siamo a un punto di non ritorno. Il valore aggiunto di questa rivoluzionaria tecnologia e le applicazioni sempre più in uso (dalle criptovalute al metaverso) ci stanno indicando la direzione del futuro. Tutto ciò è inarrestabile. Cittadini, aziende, istituzioni e banche centrali stanno correndo ai ripari e in un modo o nell’altro stanno cercando di governare una tecnologia che deve il suo successo proprio all’assenza di una governance centralizzata.
Le criticità e i problemi sollevati finora sono solo frutto di ignoranza tecnica in materia, di paura insita nell’indole umana per ogni nuovo paradigma e di pigrizia mentale di cambiamento e adattamento ad un futuro che, grazie a questa tecnologia, potrebbe essere realmente più sicuro, efficiente e trasparente.
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