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La farmacia dei sani – Episodio 2, parte seconda – Dalla nomofilachia alla “filachia della prova”: degenerazioni processuali, stravolgimento del diritto ed erroneo inquadramento dell’onere della prova. Petizione per un “giudice di sedia” più attento nella “partita di tennis” della prova
Di Alberto Marcheselli -
Abstract
Un errato inquadramento dei concetti di prova e onere della prova crea le premesse per conseguenze abnormi: una moltiplicazione dell’arretrato, specie davanti alla Corte di Cassazione, una grande incertezza giurisprudenziale di ritorno e una illegittima compressione del diritto di difesa. Dallo stravolgimento delle regole sulla prova allo stravolgimento degli assi cartesiani del diritto sostanziale.
An incorrect framing of the concepts of proof and burden of proof brings to severale abnormal consequences: a multiplication of judicial cases, especially before the Court of Cassation, a great uncertainty and an illegitimate compression of the right of defense, not to mention an alarming distortion of fundamental rules of taxation.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Dalla nomofilachia alla “filachia della prova”: una pandemia affligge il giudizio di legittimità e crea arretrato e incertezza del diritto. – 3. Equivoci e deragliamenti sul concetto di prova contraria. – 4. La difesa e il contraddittorio sulla prova: ancora equivoci e soluzioni lesive del diritto di difesa. – 5. Un case study: il tovagliometro. – 6. La dialettica probatoria come “partita di tennis” e la disattenzione del giudice di sedia.
1. Eccoci al terzo incontro della nostra piccola rubrica di “igiene concettuale”, il tentativo di riportare al centro dell’attenzione il rigore della terminologia e del ragionamento giuridico.
Proseguiamo qui ad esaminare i guasti indotti da un uso non sorvegliato del concetti di della prova e del relativo onere.
Nella prima parte ne abbiamo esaminato i guasti sul piano della giustizia sostanziale, oggi esamineremo i problemi indotti sul piano processuale, e dal punto di vista del diritto di difesa.
2. La non sorvegliata gestione del concetto di onere della prova, costituisce un vero e proprio fattore teratogeno anche sul piano processuale
Si possono, infatti, osservare alcuni effetti perversi del non corretto utilizzo del concetto, produttivi di incertezze giurisprudenziali e, anche, sproporzionato aumento dei carichi di lavoro giurisdizionale.
Come abbiamo dimostrato nella prima parte, onere della prova è la regola da applicarsi per stabilire chi vince in caso di mancata prova. Ripetiamo, ancora, che se sia stata raggiunta la prova, se le prove siano state adeguatamente valutate, se di tale valutazione sia data adeguata motivazione, è una cosa completamente diversa. Se Tizio abbia “assolto il suo onere della prova” (nel senso improprio precisato nella prima parte) non è affatto un problema di applicazione della regola dell’onere della prova, ma una questione – di fatto – del tutto a valle (o, al limite, un giudizio sulla sufficienza della motivazione).
Si assiste invece, sempre più frequentemente, alla surrettizia ammissione di tale giudizio in Cassazione, attraverso il passepartout dell’inquadramento nell’onere della prova. Motivi nei quali viene censurata, spessissimo anche dalla Avvocatura dello Stato, la valutazione della prova (profilo inammissibile in toto in Cassazione) ovvero la motivazione sulla prova (la cui ammissibilità andrebbe valutata negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5, o al limite n. 4 in caso di inesistenza della motivazione), vengono travestiti in motivi, di diritto, sulla violazione delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, primario e secondario (o sull’asserita esistenza/inesistenza di un onere della prova contraria).
Ma si tratta di cose evidentemente diverse. Una cosa è dire: in questa causa il giudice ha sbagliato ritenendo che una certa circostanza fosse stata provata. Cosa completamente diversa è dire: mancava la prova ma il giudice ha dato ragione alla parte che ne era “onerata”.
Solo le sentenze che, assunto che la prova manchi, diano ragione alla parte che ne era onerata violano l’onere della prova, e sono sentenze rarissime.
Un atteggiamento non sorvegliato di questo profilo lascia aperta una porta attraverso la quale passano migliaia di cause che potrebbero essere arrestate e finisce per stravolgere la funzione della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione indulge, insomma, alla ricerca della giustizia del caso singolo anche nel merito, cosa che non sarebbe tra i suoi compiti istituzionali e che viene svolta in applicazione di una sorta di eccesso di zelo, attraverso un uso errato del concetto di onere della prova, a sceverare la correttezza del percorso probatorio del giudice di merito. Per tal via, dalla funzione di nomofilachia, si tende abnormemente ad assumere il compito, degno di Sisifo, di filachia della prova. Tale continuo scrutinio della prova in sede di legittimità, reiterandosi e trasformandosi in massime diffuse dalla pubblicistica e nelle aule di giustizia, produce una serie di distorsioni evidenti: moltiplica abnormemente l’arretrato in Cassazione, che diventa la sede per valutare la corretta applicazione di “prassi probatorie”, irrigidisce il giudizio sul fatto sulla base di oneri della prova inesistenti e concettualmente errati, e rischia di creare effetti assimilabili a “riforme giurisprudenziali”, cioè effetti simili a un mutamento delle regole sostanziali (nella fattispecie qualcosa di equivalente nei risultati a una riforma della tassazione degli utili).
Non solo, in un ulteriore feedback perverso, si tratta di decisioni che, siccome dipendenti dall’esame di circostanze di merito della singola controversia, che sono ovviamente multiformi e infinitamente variabili, attraverso resoconti superficiali nella pubblicistica di bassa qualità, creano una gigantesca massa di decisioni di legittimità apparentemente oscillanti su temi di diritto (quando, invece, non sono altro che decisioni diverse, per fattispecie diverse e diversamente provate), che creano una incertezza di ritorno, un “rumore bianco” che funziona da, ulteriore, poderoso moltiplicatore del contenzioso.
3. Sotto altro profilo, nella ricostruzione e rappresentazione del giudizio di fatto, la giurisprudenza e pubblicistica distratte finoscono per commettere un ulteriore errore, non meno perverso.
A fronte del raggiungimento, nel processo, della prova di una certa circostanza, come abbiamo visto nella prima parte, si tende a costruire una inesistente regola per cui, date certe circostanze, l’evasione sarebbe provata. Esempio, data la ristretta base della società e l’utile occulto, provata l’evasione del socio.
Probabilmente perché freudianamente consapevole dell’esistenza di una forzatura, spesso a tale maldestra configurazione si aggiunge un caveat. La giurisprudenza infatti tende ad aggiungere che la prova si deve intendere raggiunta salva prova contraria.
Si tratta di inquadramento non corretto, legato a una scelta di tecnica motivazionale, per il quale valgono tutte le critiche che andiamo subito ad esporre.
4. Occorre analizzare con rigore e precisione cosa accade, nella dinamica della prova e del processo. È possibile e usuale che una delle due parti porti prove, nel campo tributario, d’ordinario di tipo indiziario e presuntivo, a sostegno delle sue ragioni. Si tratta di inquadrare correttamente come si atteggi allora l’attività di difensiva dell’altra parte.
La corretta ricostruzione, in termini di ragionevolezza e buon senso empirico, del fenomeno della prova in genere, e delle presunzioni in particolare, è il presupposto per elaborare le strategie di difesa del contribuente (oltre che attuare un prelievo tributario giusto).
Il fondamentale punto di attacco, per il contribuente, è evidentemente la attendibilità della prova fornita da controparte in genere, presuntiva o meno che sia.
Si può in proposito anche parlare di “prova contraria”, ma, ove si utilizzi tale sintagma, deve tenersi ben presente che non si tratta di una attività cui la parte è legalmente onerata, senza la quale, per diretta norma di legge, ella sarebbe soccombente sull’accertamento del singolo fatto, ma nel senso più vago di “argomentazione contraria a quella formulata dall’Ufficio”.
La differenza tra la prova contraria alle presunzioni legali e questa attività difensiva può non essere immediatamente evidente. E, infatti, nelle motivazioni degli accertamenti e delle sentenze essa è sistematicamente trascurata.
Essa però è importante, in pratica. In effetti, tutte le volte che la prova in genere o la presunzione semplice dell’Ufficio sia a tutta prima plausibile, in un certo senso la contraria argomentazione del contribuente può apparire “necessaria”, così come quella della parte onerata da una inversione dell’onere della prova in senso stretto (se essa non “vince” la presunzione legale, perde il ricorso). Da altro punto di vista le due situazioni (presunzioni semplici o legali) potrebbero sembrare simili anche per un motivo inverso. Una necessità di offerta di prova contraria da parte del contribuente, a ben vedere, in termini rigorosamente giuridici, non esiste, in via assoluta, neppure nel caso di presunzione legale: ben potrebbe, a stretto diritto, il giudice ritenere superata la presunzione legale (e, a maggior ragione, quella semplice), sulla base di una opposta presunzione semplice valorizzata d’ufficio dal giudice medesimo.
Giunti fin qui si potrebbe dire: presunzioni semplici ragionevoli e presunzioni legali sono equivalenti: di regola o il contribuente offre una prova contraria o perde il ricorso. Eccezionalmente, sia nell’uno come nell’altro caso, la prova contraria potrebbe essere trovata dal giudice in una presunzione semplice che il giudice attiva senza sollecitazioni delle parti (esempio: si presumono certi ricavi sulla base dell’andamento del commercio in un certo settore economico, ma dagli atti il contribuente risulta essere stato malato: il giudice ben potrebbe, anche d’ufficio, dalla malattia, purché essa sia stata allegata agli atti e sia provata o non contestata, desumere un più basso livello di ricavi, sia che essi fossero stati presunti per legge o solo in via di ragionamento).
L’equivalenza tra le due situazioni, però, è solo apparente e questo è un profilo, pratico, che spesso sfugge. L’illazione contenuta nella presunzione semplice potrebbe aver convinto l’Ufficio ma potrebbe benissimo non convincere il giudice: se si tratta di presunzione semplice ciò può avvenire, anche senza che sia offerta una prova contraria e anche se non sia contestata dal contribuente (salvo quel che si dirà tra poco – dubitativamente – a proposito degli esiti del contraddittorio). Se, invece, si tratta di presunzione legale, l’illazione vincola il giudice, e può essere vinta solo dalla prova contraria.
Le chances difensive del contribuente sono più ampie nel caso di presunzioni semplici: esse devono convincere anche il giudice (che deve verificare se il ragionamento che le sostiene sia ragionevole, anche senza prove contrarie) e il contribuente può contestarle (senza averne l’onere, si ribadisce) anche senza fornire prove contrarie (solo contrapponendo argomenti che dimostrino che il ragionamento non regge, in quanto illogico o implausibile, in sé).
La difesa del contribuente contro le presunzioni semplici non passa quindi propriamente attraverso una prova contraria, sia nel senso che essa non è un oggetto di un onere, sia nel senso che a volte essa non è neppure una prova, ma solo una argomentazione che contrasta la prova (non è necessario allegare dei fatti, può bastare sostenere che il ragionamento non è plausibile).
Il contribuente può, quindi, difendersi da un accertamento fondato sula prova altrui in genere o presunzione semplice, in particolare, facendo, essenzialmente, tre cose (cumulativamente o alternativamente): a) contestare che il ragionamento presuntivo operato sia plausibile in sé; b) contestare che i fattori del contesto conoscitivo assunti dall’Ufficio come base della presunzione (fatto noto) sussistessero nell’assetto allegato dall’Ufficio, contestando la plausibilità della relativa prova, in sé; c) allegare e provare nuovi elementi del contesto incompatibili o con il fatto noto della presunzione o con il suo risultato.
5. Ad esempio, in concreto, il contribuente può contestare che, in un esercizio di ristorazione, al numero x di tovaglioli mandati in lavanderia (rilevato a posteriori e a campione dall’Ufficio) corrisponda la cifra y di ricavi. Per giungere a questo risultato il contribuente può seguire diverse strategie argomentative. Nell’ambito del tipo a) sopra descritto egli potrebbe contestare, in generale, che possa esistere una relazione tra tovaglioli e ricavi. Oppure, nel quadro delle argomentazioni di cui al tipo b) e con maggiore plausibilità, potrebbe contestare la prova del numero di tovaglioli (ad esempio, ove l’Ufficio avesse rilevato il numero di tovaglioli in un certo giorno, contestare che tale dato potesse costituire prova del numero di tovaglioli globale). Oppure ancora, allegando e provando fatti ulteriori: o incompatibili con il fatto noto (ad esempio provare che il ristorante è stato chiuso per sei mesi e quindi la proiezione del numero di tovaglioli giornalieri su base annua è infondata), o con il fatto presunto (ad esempio, producendo le distinte dei versamenti sul conto corrente bancario, che presentino ricavi congrui con la presunzione ricavabile dal numero di tovaglioli nei giorni in cui tale valore sia stato rilevato, maggiore in alcuni altri e inferiori in moltissimi altri giorni: ciò rende non implausibile che i versamenti siano una rappresentazione dei ricavi più fedele che non la presunzione).
Si tratta, ovviamente, di semplici esemplificazioni: egli potrebbe incidere su quelli che abbiamo definito i parametri del contesto conoscitivo anche in altri modi (ad esempio, dimostrando la regolarità delle scritture, la sua diligenza, ecc.). Oppure, e ancora, può indicare altri fattori (restando all’esempio della ristorazione, allegare e dimostrare una diversa dinamica dei prezzi nel locale – per ragioni personali o di politica individuale dei prezzi – o nella zona – per ragioni di assottigliamento del passaggio di clientela nel quartiere e simili). Coerente con le premesse poste fino qui è poi che anche per tale eventuale prova contraria del contribuente è richiesto uno standard di attendibilità variabile in relazione al contesto.
Solo nelle ipotesi di cui al tipo c) il contribuente, eventualmente, allega delle prove. In nessuno dei tre casi, propriamente, assolve l’onere di una prova contraria in senso tecnico.
6. Ciò è invece contraddetto dalle ricorrenti massime della giurisprudenza, secondo la quale, offerta la prova di una certa circostanza, spetterebbe al contribuente, in forza di un onere in senso tecnico, provare il contrario (ad esempio, Cass., sez. trib., 12 aprile 2010, n. 8691).
Questo inquadramento concettuale operato dalla giurisprudenza, inteso alla lettera, coglierebbe solo una parte delle possibili difese (trascurando la possibile contestazione della plausibilità in sé della presunzione) e sembrerebbe non inquadrarla correttamente, evocando la figura dell’onere.
La vicenda probatoria, invece, assume una scansione simile a una “partita di tennis”: l’Ufficio “serve” con l’avviso di accertamento, il giudice verifica, in contraddittorio con il contribuente, se l’argomentazione pubblica è “stata nelle linee” (le prove dell’Ufficio sono sufficienti in base al contesto) e, se così è, il contribuente che intenda sottrarsi alla soccombenza, di regola, deve rimandare la palla nel campo avverso con nuove prove contrapposte. Non c’è un inversione dell’onere della prova in senso proprio e un onere di prova contraria perché il giudice deve valutare se, rimanendo nella metafora, la “battuta” del Fisco era “in campo” (eventualmente ma non necessariamente alla luce delle contestazioni del contribuente).
Resta da riflettere sul perché un orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza prediliga invece l’inquadramento nell’onere della prova contraria. Come già accennato sopra, tale fenomeno ha probabilmente una sua spiegazione nella tecnica motivazionale.
Assunto che l’illazione dell’Ufficio venga percepita come ragionevole e plausibile in base al contesto, risulta più agevole motivare con il sintetico richiamo all’esistenza di un onere contrario, non assolto, da parte del contribuente, che non diffondersi sulle ragioni per cui la prova è da considerarsi raggiunta.
La frettolosità della motivazione su questo punto viene goffamente bilanciata con una clausola di salvezza che fa riferimento alla mancanza di prova contraria.
Tali enunciati sono corretti nella sostanza, se intesi per quel che valgono: la prova è raggiunta sulla base del materiale emerso, certo la decisione sarebbe diversa se fossero emersi elementi diversi.
Detto altrimenti, se quanto precede è corretto, l’argomento “se il contribuente non assolve l’onere di prova contraria la circostanza deve ritenersi provata” andrebbe, più propriamente, inteso come segue: “in base agli elementi acquisiti dall’Ufficio sulla base di una istruttoria sufficiente la circostanza è da considerarsi provata: poiché le argomentazioni del contribuente non risultano convincenti e non risultano agli atti né vengono offerti e provati dal contribuente altri fatti incompatibili, l’accertamento è da considerarsi fondato”.
Ma non è questo che viene scritto in motivazione.
Per effetto, ancora una volta, di un atteggiamento non sorvegliato, si scrive che tutte le volte che si accertano quegli elementi (il numero di tovaglioli) l’accertamento è fondato se il contribuente non si difende.
Come abbiamo evidenziato nella prima parte, così facendo non solo si trasforma un giudizio sul caso singolo in una inesistente regola, ma si stravolge il diritto, così come si travolgerebbero le regole del tennis se il giudice di sedia dicesse: “poiché al servizio di Djokovic Sinner non ha risposto, punto per Nole”.
Già, ma la pallina del servizio era in campo?
Perché il tennis ha una regola fondamentale, che si deve giocare entro le linee, e così motivando si perde di vista proprio la regola fondamentale.
Attraverso le maglie troppo larghe di un linguaggio impreciso scappa via il Pesce della Giustizia.
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