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La compensazione di crediti “inesistenti” e “non spettanti”: regime sanzionatorio e profili procedimentali
Di Alessandro Albano -
Abstract
Il regime sanzionatorio e procedimentale dei crediti “inesistenti” e “non spettanti” è al centro della riflessione dottrinale e giurisprudenziale, oltre che della prassi operativa dell’Amministrazione finanziaria. Le recenti sentenze della Suprema Corte, nn. 34444 e 34445 del 16 novembre 2021 contribuiscono a fornire condivisibili e importanti chiarimenti nella materia, la cui complessità deriva anche dalle naturali interferenze e dal conseguente rischio di sovrapposizione tra profili amministrativi tributari e specifici profili penali (sostanziali e procedimentali). Nella complessità dei profili operativi della disciplina, occorre quindi affidarsi ai principi fondamentali, e – in particolare – al principio di proporzionalità.
The compensation of “not usables” or “non existents” tax credits: penalty system and proceedings. – The tax penalty regime and proceedings of “non-existent” and “not usables” tax credits is at the middle of both doctrinal and Court’s discussion, as well as of the Tax Administration operating practices. The recent statements issued by the Supreme Court, nos. 34444 and 34445 of November 16, 2021 contribute to providing shared and important clarifications on the matter, the complexity of which also derives from natural interplay and the consequent risk of overlapping between administrative tax features and specific criminal profiles (both substantive and procedural). Given the complexity of the practical circumstance, it is therefore crucial to rely to fundamental principles and, more in particular, to the principle of proportionality.
Sommario: 1. Premessa: il contesto di riferimento, i profili di attualità in materia di utilizzo di crediti “non spettanti” o “inesistenti”. – 2. L’utilizzo in compensazione dei crediti tributari “fisiologico” e “patologico”: fondamenti normativi. – 3. Prassi amministrativa e riflessioni operative in materia di utilizzo di crediti “inesistenti” o “non spettanti”. – 4. Evoluzione giurisprudenziale sui confini della nozione di “non spettanza”/“inesistenza” del credito e sul conseguente regime sanzionatorio e procedimentale. – 5. Conclusioni (provvisorie) e rinvio sul rapporto tra sistema sanzionatorio amministrativo e penale in caso di violazione della normativa in materia di compensazione dei crediti tributari.
1. La tematica del regime sanzionatorio e procedimentale (e prima ancora di individuazione della nozione) dell’indebito utilizzo di un credito “inesistente”, piuttosto che “non spettante” è al centro del dibattito giurisprudenziale e della riflessione in dottrina; da ultimo, la Corte di Cassazione, sezione V civile, con le sentenze nn. 34444 e 34445 depositate il 16 novembre 2021 (che sono state oggetto di un primissimo commento in questa rivista, 31 dicembre 2021, da parte di Letizia L., Crediti d’imposta “inesistenti” o “non spettanti”: la Corte di Cassazione precisa le differenze qualificatorie) ha fornito importanti indicazioni, in opportuna discontinuità con alcuni recenti arresti della giurisprudenza di legittimità, in materia,
In merito ai (significativi) riflessi di natura penalistica conseguenti alle fattispecie individuate dall’art. 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000, si forniscono alcune puntualizzazioni di interesse ai fini dell’analisi ivi compiuta.
La tematica come accennato è di rilevante interesse, attesa l’espansione della normativa in materia di crediti d’imposta “agevolativi” (i c.d. “bonus”), normativa lato sensu “di vantaggio” che riguarda sia misure fruibili dalle persone fisiche sia disposizioni rivolte ai soggetti che esercitano attività d’impresa.
La maggiore incidenza di tale normativa “di vantaggio”, derivante anche dalle misure di sostegno all’economia per fronteggiare la crisi economica derivante dalla diffusione del COVID-19, comporta la generazione di crediti d’imposta, e quindi un più ampio ricorso all’istituto della compensazione tributaria da parte dei contribuenti, il che conduce, infine, ad un potenziale, rilevante riverbero sull’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria, diretta a contrastare eventuali illeciti in materia.
2. Ricordiamo rapidamente che l’utilizzo in compensazione dei crediti tributari (su cui per un approccio istituzionale cfr. Messina S.M., La compensazione nel diritto tributario, Milano, 2006 e, del medesimo autore, La compensazione tributaria in sede fallimentare in Paparella F., a cura di, Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013) è una modalità ampiamente utilizzata dai contribuenti per estinguere l’obbligazione tributaria; è stata inizialmente introdotta con riferimento a crediti e debiti della medesima imposta (compensazione “verticale”, art. 11, comma 3, D.P.R. n. 917/1986) per poi essere estesa a tributi diversi (compensazione “orizzontale”, art. 17 D. Lgs. n. 241/1997); l’istituto ha poi trovato un riconoscimento di principio come modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria (art. 8, comma 1, L. n. 212/2000, Statuto dei diritti del contribuente, su cui si veda Fedele A., L’art. 8 dello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, 10, I, 907 ss.); la violazione della normativa che disciplina modalità e limiti di utilizzo della compensazione è contenuta nell’art. 13, commi 4 e 5, D.Lgs. n. 471/1997 (in materia di sanzioni amministrative tributarie) e, in caso di fattispecie penalmente rilevanti, nell’art. 10-quater, D.Lgs. n. 74/2000 (indebita compensazione).
La disciplina in materia di compensazione è importante dal punto di vista operativo, collocandosi nella fase di adempimento da parte del contribuente; essa, inoltre – dal punto di vista scientifico – è stata trattata nell’ambito dell’ampia riflessione sulle modalità di estinzione dell’obbligazione tributaria (in materia, tra i numerosi riferimenti, si segnalano senza pretesa di esaustività cfr. Micheli G.A. – Tremonti G., Obbligazioni (diritto tributario), in Enc. Dir., 1979, 453 ss. e Russo P., L’obbligazione tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci A., Padova, 1994, II, 22 ss.). Tale riflessione ha riguardato anche i confini della “indisponibilità” dell’obbligazione tributaria da parte dei soggetti del rapporto obbligatorio, tematica che ivi si può soltanto accennare (in argomento, cfr. per la natura di principio generale della compensazione in materia tributaria, anche prima dell’introduzione dell’art. 8 L. n. 212/2000, Cass. Civ., sez. trib., sentenza 25 ottobre 2006, n. 22872, commentata da Basilavecchia M., Applicabilità immediata della compensazione tributaria, in Corr. trib., 2007, 1, 35 ss. e da Biondo P., L’istituto della compensazione in ambito tributario e la presunta indisponibilità dell’obbligazione tributaria, in Rass. trib., 2007, 3, 948 ss. Si veda inoltre in materia Basilavecchia M., Percorso a ostacoli per la compensazione, in Corr. trib., 2010, 33, 2659 ss., Logozzo M., Valenza generale del principio di compensazione nell’ordinamento tributario, in Corr. trib., 2011, 6, 465 ss.; Cordeiro Guerra R., La compensazione, in Marongiu G., a cura di, Lo statuto dei diritti dei contribuenti, Torino, 2004, 24 ss., Girelli G., Riflessioni in tema di compensazione, accertamento e iscrizione a ruolo dei tributi, in Riv. dir. trib., 2005, 12, I, 1349 ss.).
Dall’ampio utilizzo dell’istituto della compensazione deriva la significativa rilevanza della compliance in materia e la necessità – da un lato – di consentire un ampio utilizzo di tale istituto da parte dei contribuenti e – dall’altro – di consentire all’Amministrazione finanziaria di contrastare efficacemente le frodi e in generale gli abusi in materia.
Il legislatore ha, inizialmente, trattato il profilo procedimentale delle modalità di recupero del credito “indebitamente” utilizzato in compensazione; l’art. 1, comma 421 della legge di bilancio 2005 (L. n. 311/2004) ha infatti introdotto l’atto di recupero “motivato” “per la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati, in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo17 [D.Lgs. n. 241/1997, n.d.r.], nonché per il recupero delle relative sanzioni e interessi”.
Tale intervento normativo, pur introducendo uno strumento “dedicato” al recupero dei crediti “indebitamente” compensati non contribuiva ma, anzi, rendeva più ampia la latitudine interpretativa dell’area della violazione rilevante ai fini sanzionatori (idonea a ricomprendere potenzialmente qualunque violazione, anche non fraudolenta, della disciplina della compensazione).
L’art. 27, commi da 16 a 18, D.L. n. 185/2008, precisa invece che l’atto di recupero può essere emesso in base a tempistiche diverse a seconda della “inesistenza” o meno del credito utilizzato in compensazione. In particolare, l’atto può essere emesso sino al 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo del credito “inesistente”, quindi con un aggravamento procedurale per i contribuenti, sottoposti ad un termine dilatato dell’azione dell’Amministrazione finanziaria limitatamente a tale ipotesi.
La norma era volta a colpire, come precisato nella relazione illustrativa al D.L. n. 185/2008, “comportamenti connotati da aspetti fraudolenti”, rilevabili essenzialmente soltanto a seguito di specifici riscontri di natura contabile tra quanto indicato nei modelli di versamento e le dichiarazioni periodiche dai quali dovrebbero risultare. La norma, quindi, sanziona la condotta commissiva riscontrabile soltanto a seguito di controlli di coerenza contabile, verifiche a seguito delle quali emerga “l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali”.
Tale condotta è insidiosa, e quindi connotata da un elevato grado di offensività in quanto idonea – per le modalità di consumazione – ad ostacolare significativamente l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria (in quanto il credito viene “generato” direttamente in modello F24, senza prima essere esposto in dichiarazione, ovvero comunque si tratta di un credito “falsamente” creato, pur se riportato in dichiarazione, e poi utilizzato); pertanto, al ricorrere di tale condotta viene prevista l’irrogazione di una sanzione variabile tra un minimo del 100% ed un massimo del 200% dell’importo indebitamente compensato, senza possibilità di accedere alla definizione agevolata (artt. 16, 17, D.Lgs. n. 472/1997).
Il legislatore del 2008, tuttavia, non delinea puntualmente la distinzione (essenziale ai fini di inquadrare correttamente il trattamento sanzionatorio) dell’utilizzo di crediti che, pur se “esistenti”, sono “non spettanti” (ad esempio, per duplicazioni materiali, riscontrabili in sede di liquidazione “automatizzata” della dichiarazione); nel caso peraltro di utilizzo di un credito “non spettante”, tenuto conto della minore insidiosità della condotta, la sanzione irrogata sarebbe quella più mite conseguente all’omesso/carente versamento, e pertanto il 30% dell’importo non versato.
La definizione di credito “inesistente” è quindi fondamentale in quanto – per esclusione – tutti i crediti non qualificabili come tali sono “esistenti” e la violazione della normativa in merito al loro utilizzo comporta l’applicazione di un trattamento sanzionatorio diverso, ma nel dettato normativo tali nozioni mancano. Non è peraltro chiara, quindi, la distinzione tra credito “inesistente” indebitamente compensato, piuttosto che quella di credito esistente e non spettante.
E’ stato peraltro osservato (Zaccaria F., Crediti non spettanti, crediti inesistenti e atti di recupero: cosa è cambiato dal 2016, in il fisco, 2016, 11, 1050 ss.) come, nel vigore del D.L. n. 185/2008, il credito “inesistente” in quanto nato per effetto di una errata interpretazione normativa o da un errore contabile non sarebbe dovuto comunque rientrare nell’ambito di applicazione della sanzione prevista dall’art. 27 del suddetto decreto, per la mancanza dell’elemento soggettivo della fraudolenza.
La rilevanza fondamentale di tale distinzione deriva della progressiva introduzione di c.d. “crediti agevolativi” di cui in premessa e, tra gli altri, del credito per la ricerca e sviluppo, fruiti da un’ampia platea di contribuenti. Tali misure richiedono l’assolvimento di numerosi adempimenti, anche formali, al fine di perfezionare il diritto all’utilizzo del credito; il rischio, secondo una lettura interpretativa rigorosa, è la qualificazione come “inesistente” (dal che ne deriva il più rigido trattamento sanzionatorio) del credito utilizzato in violazione anche di requisiti di natura meramente formale (profilo, questo, richiamato da Zaccaria F., cit., e poi trattato in altri interventi, tra cui si segnala, richiamati anche in seguito nel contesto normativo attuale, richiamato tra poco, Assonime, circolari nn. 23/2019, 1/2021, 30/2021).
Per offrire all’interprete un assetto normativo più completo, il legislatore introduce, con il D.Lgs. n. 158/2015, di attuazione della legge delega fiscale n. 23/2014 in materia di revisione del sistema sanzionatorio tributario, all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, attualmente vigente, la distinzione tra utilizzo di un credito “non spettante” (disciplinata al comma 4), rispetto a quella di un credito “inesistente” (comma 5). Ai fini di integrare la condotta di compensazione di crediti “inesistenti” viene infatti richiesta la sussistenza di due requisiti: 1) devono mancare, in tutto o in parte, i presupposti costitutivi del credito e 2) l’inesistenza non deve poter essere riscontrata dall’Amministrazione finanziaria nell’ambito delle attività di liquidazione e controlli formali, disciplinati dagli artt. 36-bis, 36-ter, D.P.R. n. 600/1973, ovvero dall’art. 54-bis, D.P.R. n. 633/1972. In tal caso, quindi di utilizzo di un credito “inesistente”, viene confermato l’assetto sanzionatorio di cui al D.L. n. 185/2008 (sanzione dal 100% al 200% del credito indebitamente utilizzato, senza possibilità accedere alla definizione agevolata). Il comma 4 disciplina invece l’utilizzo dell’eccedenza o di un credito d’imposta “esistente” ma in “misure superiore” a quella spettante, ovvero l’utilizzo in violazione delle modalità previste dalle leggi vigenti, disponendo, salvo l’applicazione di leggi speciali, l’irrogazione di una sanzione pari al 30% del credito utilizzato.
Il suddetto intervento normativo, seppure apparentemente chiaro, non ha tuttavia fugato ogni dubbio interpretativo e, anzi, ha alimentato oscillazioni sia nella prassi che nella giurisprudenza di legittimità, da ultimo oggetto dell’intervento ivi oggetto di annotazione.
La dottrina ha peraltro a più riprese (da ultimo, Coppola P., La fattispecie dell’indebito utilizzo di crediti d’imposta inesistenti e non spettanti tra i disorientamenti di legittimità e prassi: la “zona grigia” da dipanare, in Dir. prat. trib., 2021, 4, 1525 ss.) segnalato i profili di incertezza (anche) operativa alla luce dell’attività di accertamento degli uffici dell’Amministrazione finanziaria, ravvisando la complessità nella corretta qualificazione della condotta, il che rileva non solo ai fini sanzionatori (sia sul piano amministrativo che penale) ma anche ai fini dell’estensione del termine di prescrizione dell’azione di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria a otto anni (profilo che sollecita una meditazione alla luce del principio di proporzionalità, da cui discende la necessità di circoscriverne la portata applicativa).
Occorre quindi riordinare rapidamente i principali passaggi della prassi e – poi – della giurisprudenza per apprezzare l’importanza degli arresti resi dalla Corte di Cassazione nn. 34444 e 34445 dello scorso 16 novembre 2021.
3. Nella prassi interpretativa, successivamente alla modifica normativa, gli apprezzabili contributi di Assonime, tra cui la circolare n. 23/2019, laddove – con specifico riguardo al credito agevolativo per la ricerca e lo sviluppo (bonus R&S) l’Associazione afferma che le più (rilevanti) sanzioni previste per l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti sarebbero applicabili soltanto nel caso di utilizzo di crediti che, oltre ad essere – ad esempio – non transitati in dichiarazione ovvero generati da errori contabili – siano stati generati mediante artifici e raggiri (scientia fraudis). A sostegno di tale lettura Assonime richiama la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 13/E/2017, che prevede l’applicazione delle sanzioni (formali) “relative al contenuto e alla documentazione delle dichiarazioni” di cui all’art. 8, comma 1, D.Lgs. n. 471/1997 (da 250 euro a 2.000 euro, peraltro con possibilità di accedere all’istituto del ravvedimento operoso) nel caso di omessa indicazione nel quadro RU della dichiarazione dei redditi di un credito (esistente) per ricerca e sviluppo; coerente con tale impostazione sarebbe anche la ris. n. 36/E/2018.
In precedenza (circ. n. 5/E/2016) l’Agenzia delle Entrate aveva peraltro affermato che i crediti agevolativi sarebbero da considerarsi “inesistenti” allorchè difetti, all’origine, il presupposto dell’agevolazione, come ad esempio il mancato sostenimento di spese di ricerca e sviluppo; nella circolare si trascura, tuttavia, il profilo della possibilità di “intercettare” mediante procedure automatizzate l’utilizzo indebito del credito (nel qual caso il credito, seppure “inesistente” sarebbe sanzionato come “non spettante”, attesa – in sostanza – la minore offensività dovuta alla possibilità di poter sanzionare l’utilizzo ricorrendo ad una tipologia di controllo automatizzata).
Da ultimo, l’Amministrazione finanziaria ha confermato questa impostazione (circ. n. 31/E/2020), ravvisando l’inesistenza del credito di ricerca e sviluppo, per carenza del presupposto costitutivo, quando le spese sostenute “non siano ritenute agevolabili”, senza richiamare il profilo del possibile riscontro mediante procedure automatizzate, né valorizzando adeguatamente il profilo della “fraudolenza”, al fine di qualificare l’utilizzo indebito alla stregua di un credito inesistente.
L’Amministrazione richiama, tuttavia, due possibilità per mitigare la sanzione, ravvisando probabilmente l’evidente sproporzione tra tale regime, che sulla base di quanto affermato in tale circolare prescinderebbe da un intento fraudolento del contribuente.
La prima, affidata al contribuente, consiste nella possibilità di ridurre le sanzioni mediante l’istituto del ravvedimento operoso (art. 13 D.Lgs. n. 472/1997) prima della notifica dell’atto di recupero (atto che comunque può essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo – e non del quinto – a quello di utilizzo in compensazione). In tal modo, la sanzione “piena” del 100% potrebbe essere ridotta fino a 1/8, cioè al 12,5% nell’ipotesi di ravvedimento entro un anno dalla violazione, e – soprattutto, nella pratica situazione probabilmente più riscontrabile – al 20% (1/5) se la violazione viene constatata durante accessi, ispezioni e verifiche (sempre prima, comunque, della notifica dell’atto di recupero).
La seconda, lasciata alla discrezionalità degli Uffici, consiste nella possibilità di ridurre, in ragione delle “circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione” (art. 7, comma 4, D.Lgs. n. 472/1997), la sanzione, sino alla metà del minimo edittale (quindi, il 50%).
Vi è da precisare, tuttavia, che la seconda possibilità mal si concilia, dal punto di vista concettuale, con la prima; in pratica, si ritiene non percorribile procedere ad un ravvedimento operoso calcolando la sanzione base di riferimento nel 50%. La riduzione per manifesta sproporzione può intervenire, infatti, in base all’esercizio della discrezionalità dell’Ufficio impositore, che tipicamente si esprime nell’atto di recupero, quindi oltre il momento procedimentale di cesura che interrompe la possibilità di ricorrere, da parte del contribuente, al ravvedimento operoso.
E’ quindi plausibile ritenere che, in talune situazioni, in caso di contestazione dell’utilizzo di un credito inesistente fondata non sulla fraudolenza dell’intento del contribuente, quanto sulla contestazione di un presupposto agevolativo, potrebbe essere maggiormente proficuo (attesa anche l’evoluzione giurisprudenziale su cui infra) incardinare un dialogo procedimentale con l’Ufficio, diretto alla notifica di un atto recante la riduzione al 50% della sanzione irrogata, e poi coltivare in sede giurisdizionale il relativo contenzioso.
La qualifica in sede tributaria come “inesistente” di un credito, tanto più allorchè derivi non da una condotta fraudolenta ma dalla contestazione da parte dell’Agenzia delle Entrate dell’assenza di taluni elementi costitutivi dell’agevolazione (circostanza che peraltro può dipendere da un’erronea interpretazione della normativa tecnica, ad esempio) integra – al ricorrere del superamento della soglia di punibilità –la fattispecie penalmente rilevante di indebita compensazione di crediti inesistenti (art. 10-quater, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000).
Conseguentemente, al ricorrere di fattispecie penalmente rilevanti, può essere utile considerare di presentare ricorso tributario (dopo aver comunque proceduto a versare le somme dovute in pendenza di giudizio); infatti, qualora la qualifica di credito “inesistente” fosse “accolta” dal contribuente, che invece di coltivare il contenzioso attivasse il ravvedimento operoso prima dell’emissione dell’atto di recupero, non sarebbe più possibile invocare la causa di non punibilità in sede penale (art. 13 D.Lgs. n. 74/2000), essendo l’unico effetto ottenibile in concreto l’applicazione di una circostanza attenuante (art. 13-bis D.Lgs. n. 74/2000).
Alla luce del dettato normativo inequivocabile del D.Lgs. n. 74/2000, infatti, seppure dal punto di vista sanzionatorio amministrativo l’Agenzia delle Entrate ammette, alla luce della circolare richiamata, la possibilità di attivare il ravvedimento operoso in caso di indebito utilizzo di un credito “inesistente”, sotto il profilo penale l’eventuale ravvedimento non provocherebbe altro effetto che quello di applicare la circostanza attenuante di cui all’art. 13-bis, in quanto osta a diverse (forse più logiche, ma non percorribili dal punto di vista normativo) conclusioni il dettato dell’art. 13, che esclude espressamente la fattispecie di indebita compensazione di crediti inesistenti ai fini della possibilità di invocare la causa di non punibilità di integrale estinzione del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento di primo grado.
E’ quindi da cogliere solo come un auspicio quanto affermato in dottrina (Coppola P., cit., nota 14) circa la possibilità di invocare la causa di non punibilità dell’integrale estinzione del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento di primo grado in caso di ravvedimento operoso per la violazione di utilizzo di un credito inesistente. In base all’attuale legislazione penale, infatti, non vi sono argomenti (se non contra legem) che possano condurre ad un esito, certamente auspicabile, ma non corroborato da un coerente assetto normativo.
In coerenza con quanto ivi affermato è la condivisibile riflessione in base alla quale, alla luce dell’estensione della possibilità di attivare il ravvedimento operoso in caso di utilizzo di crediti inesistenti, dovrebbe potersi ammettere il ricorso a tale strumento anche in caso di condotte fraudolente, limitando tuttavia l’effetto (appunto) alla sfera sanzionatoria amministrativa, essendo preclusa qualunque estensione, a legislazione invariata, sul piano penale tributario (Melis G., Note minime su talune questioni interpretative in tema di ravvedimento operoso, in Dir. prat. trib., 2021, 4, 1567 ss.).
Vi è peraltro infine da considerare che quanto affermato dall’Agenzia delle Entrate nella Circolare è da ascrivere ad un atto di prassi nel quale non viene, per il vero, adeguatamente valorizzata la distinzione normativa (fondamentale) tra credito “inesistente” e “non spettante”, opportunamente sottolineata dalle sentenze di cui nel successivo paragrafo.
L’ipotesi, infine, di coltivare il contenzioso tributario dovrebbe, invece, essere valutata con maggiore attenzione in caso di fattispecie non penalmente rilevanti, quindi per importi inferiori, in pratica, alla soglia di punibilità fissata dall’art. 10-quater D.Lgs. n. 74/2000; in tali situazioni, infatti, il ravvedimento operoso consente di beneficiare di significative riduzioni sanzionatorie amministrative, apprezzabili in ottica di bilanciamento rispetto all’insopprimibile alea di incertezza che grava il processo tributario.
4. La giurisprudenza di legittimità ha, sino agli arresti nn. 34444 e 34445, resi lo scorso 16 novembre 2021, privato del corretto valore sistematico la distinzione tra la nozione di credito “inesistente” e credito “non spettante”.
Tale distinzione è invece fondamentale, poiché il legislatore, nel 2015, al precipuo fine di distinguere i profili sanzionatori e procedimentali, ha fornito le definizioni, appunto, sottese alla condotta dell’utilizzo indebito di un credito tributario, indebito che può derivare dall’utilizzo di un credito “non spettante” (ipotesi meno grave) ovvero “inesistente” (fattispecie più insidiosa).
La Corte di Cassazione, con sentenza 30 ottobre 2020, n. 24093 (su cui, inter alia, Formica G. – Lillo D., L’incerto sistema sanzionatorio dell’indebito uso dei crediti d’imposta, in il fisco, 2021, 6, 546 ss.), in linea con precedenti arresti, ha affermato che l’assetto normativo di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008 “non intende elevare l’«inesistenza» del credito a categoria distinta dalla «non spettanza» dello stesso (distinzione a ben vedere priva di fondamento logico – giuridico), ma mira a garantire un margine di tempo adeguato per il compimento delle verifiche riguardanti l’investimento che ha generato il credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il più breve termine stabilito dall’art. 43 del D.P.R. n. 600 del 1973 per il comune avviso di accertamento”.
Tale arresto è stato accolto criticamente, e ha sollecitato anche un intervento normativo chiarificatore, poiché tale impostazione giurisprudenziale sarebbe idonea a provocare rilevanti ripercussioni sotto il profilo economico, in quanto gli operatori sarebbero paradossalmente disincentivati a fruire di misure pensate per essere strumento di vantaggio (De Mita E., La discrezionalità degli uffici va limitata dal legislatore, in Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2021).
Più recentemente, la Corte di Cassazione, sollecitata dall’ordinanza interlocutoria n. 29717 del 29 dicembre 2020, allorchè i giudici di legittimità hanno ravvisato una discrepanza tra diritto vivente e diritto positivo, a seguito delle modifiche recate dal D.Lgs. n. 158/2015 all’art. 13, D.Lgs. n. 471/1997, si è espressa con le sentenze nn. 34444 e 34445 depositate lo scorso 16 novembre, relative a fattispecie non del tutto omogenee, ma coerenti nell’assetto normativo interessato (per un primo, sintetico, commento, cfr. Gaeta A., Inapplicabile il termine di decadenza di 8 anni per l’avviso di recupero se il credito è soltanto “non spettante”, in Il fisco, 2022, 1, 81 ss.).
Il dato principale dell’arresto consiste nel superamento dell’orientamento, precedentemente affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui non vi è, dal punto di vista giuridico, una particolare differenza tra crediti d’imposta non spettanti e crediti d’imposta inesistenti (impostazione seguita dalla suddetta sentenza n. 24093/2020, di cui sopra).
I giudici della suprema Corte hanno richiamato la necessità di definire, in materia di compensazione di crediti tributari, il credito insistente che si riscontra quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (credito non reale) e la cui inesistenza non risulti riscontrabile mediante l’attività di liquidazione e controllo di cui agli artt. 36-bis e 36-ter D.P.R. n. 600/1973 nonché dell’art. 54-bis D.P.R. n. 633/1972.
Questa distinzione, si osserva, è fondamentale per calibrare adeguatamente la reazione dell’ordinamento al principio di proporzionalità in materia sanzionatoria e procedimentale, profilo quest’ultimo al centro della riflessione dei giudici di legittimità.
La controversia oggetto di rinvio innanzi alla Suprema Corte riguardava, infatti, l’applicazione del termine decadenziale di cui all’art. 27, comma 16, D.L. n. 185/2008, in base al quale lo specifico atto di recupero per l’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti deve essere notificato entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello di utilizzo.
L’Agenzia delle Entrate, in sede di ricorso, aveva censurato la decisione della Commissione tributaria regionale della Lombardia, che aveva rigettato l’appello con il quale l’Amministrazione finanziaria aveva sostenuto l’applicabilità del termine decadenziale di otto anni all’indebito utilizzo di un credito in compensazione, credito che poteva essere considerato (indifferentemente) inesistente/non spettante ai fini del procedimento amministrativo.
La Corte di Cassazione, rigettando il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ha precisato come il termine di otto anni di decadenza deriva dalla nuova disciplina prevista dall’art. 13, comma 5, D.Lgs. n. 471/1997, introdotto dall’art. 15 D.Lgs. n. 158/2015, che, tra l’altro, definisce il credito inesistente, alla stregua di quanto più sopra richiamato.
In particolare, continua la Corte di Cassazione, il credito tributario utilizzato dal contribuente può definirsi inesistente quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili-patrimoniali del contribuente e quando tale assenza sia evincibile dai controlli automatizzati o formali sugli elementi della dichiarazione o in possesso dell’anagrafe tributaria. Inoltre, ne è prova che il raddoppio dei termini (da 4 a 8 anni) deriva essenzialmente dal diverso profilo ai fini dell’ostacolo all’attività di accertamento da parte del contribuente con la propria condotta.
Il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione è il seguente: “in tema di compensazione dei crediti fiscali da parte del contribuente, l’applicazione del termine di decadenza ottennale, previsto dall’articolo 27, comma 16, del Dl n. 185 del 2008, conv. in legge n. 2 del 2009, presuppone l’utilizzo non già di un mero credito non spettante, bensì di un credito inesistente, per tale ultimo dovendosi intendere – ai sensi dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, del Dlgs. n. 471/1997 (introdotto dall’articolo 15 del Dlgs. n. 158/2015) – il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo (il credito non è, cioè, «reale») e la cui inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artr. 36-bis e 36-ter D.P.R. 600/1973 e all’art. 54-bis D.P.R. 633/1972”.
E’ peraltro interessante osservare come la fattispecie giunta al cospetto della Suprema Corte riguardava un’attività sanzionata nella misura del 30% (alla stregua della contestazione per credito non spettante). Da ciò consegue la sostanziale indifferenza da parte dell’Amministrazione finanziaria (evidenziata dalla Suprema Corte) rispetto alla qualificazione della fattispecie ai fini dell’estensione dei termini di accertamento; si tratta peraltro di una posizione non accoglibile, in quanto presuppone lo svilimento della ratio complessiva della normativa in materia. Soltanto, infatti, nell’ipotesi di credito artificiosamente creato (ovvero non intercettabile mediante accertamenti di natura formale) è irrogabile la sanzione amministrativa variabile dal 100% al 200% dell’imposta e – conseguentemente, attesa la specifica insidiosità della condotta – trova applicazione l’estensione dei termini di accertamento a 8 anni.
In caso contrario, sembra logico e conseguente che – accanto alla sanzione nella misura del 30% del credito indebitamente utilizzato in quanto “non spettante” si accompagni la possibilità per l’Erario di svolgere l’attività di accertamento negli ordinari termini recati dall’art. 43 D.P.R. n. 600/1973.
5. Le sentenze rese dalla Suprema Corte lo scorso 16 novembre vanno quindi accolte con favore, in quanto contribuiscono a circoscrivere il perimetro normativo del credito “inesistente” rispetto a quello “non spettante”, distinzione da cui derivano importanti conseguenze sotto il profilo procedimentale (estensione del termine di accertamento) oltre che sanzionatorio, e anche sul piano della riscossione (iscrizione a ruolo per intero).
Si ritiene che gli arresti siano coerenti, come affermato in precedenza, con il principio di proporzionalità, principio di derivazione comunitaria e che deve ispirare l’azione amministrativa, prima ancora che essere affermato (correttamente) nel diritto vivente ed a cui il legislatore deve ispirarsi.
Ciò premesso, si ritiene che l’area del credito “inesistente” debba essere innanzitutto circoscritta sotto il profilo soggettivo, dovendo essere razionalmente limitato alle ipotesi in cui il credito sia generato da condotte fraudolente. Si osserva, peraltro, come la possibilità di intercettare agevolmente, mediante controlli di natura formale, la violazione connotata da frode, da cui consegue la derubricazione ai fini sanzionatori amministrativi (di fatto, alla stregua dell’utilizzo di un credito “non spettante”) malgrado la condotta sia potenzialmente insidiosa, deve essere principalmente apprezzato nell’ottica di “proporzionare” la sanzione al concreto ostacolo all’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria.
Tale effetto di riqualificazione della fattispecie, se può quindi valere (ed essere giustificato) ai fini sanzionatori amministrativi, poiché consegue – appunto – alla necessità di un’attività amministrativa meno intensa da parte degli Uffici, non necessariamente provoca automatici effetti sulla qualificazione della condotta ai fini penali, attesa la differente ratio che ispira il legislatore penale (ancorata al criterio di qualificazione della fattispecie fondata sulla fraudolenza – o meno – della condotta).
Occorre, in altri termini, saper conciliare nell’analisi delle fattispecie sussumibili nel novero sia delle violazioni amministrative che dei reati, profili di omogeneità e insopprimibili specificità, a tal fine coniugandone la sfera operativa con il principio di specialità, sempre nell’ottica di riscontrare una effettiva proporzionalità della reazione dell’ordinamento giuridico nel suo complesso (in materia, cfr. Melis G. – Golisano M., Il livello di implementazione del principio del ne bis in idem nel sistema tributario, in Riv. trim. dir. trib., 2020, 3, 579 ss.)
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