IL PUNTO SU … – OTTOBRE 2021 – Il requisito della “discontinuità” nell’ambito del regime impatriati
Di Giuseppe Corciulo e Alessandro Leardini -
1. Il regime di favore per i lavoratori cd. “impatriati” ha rappresentato sin dalla sua introduzione un forte strumento di attrazione per i lavoratori che intendono stabilirsi in Italia. Se tuttavia inizialmente i requisiti soggettivi di accesso previsti dalla norma rendevano il regime applicabile a un numero piuttosto limitato di casi[1], le modifiche introdotte dal d.l. 30 aprile 2019, n. 34 (d’ora in avanti “d.l. 34/2019”) hanno alleggerito tali requisiti ampliando notevolmente il novero di lavoratori ammessi alla fruizione dell’agevolazione.
L’attuale formulazione dell’art. 16, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (d’ora in avanti “d.lgs. 147/2015”), subordina la fruizione del regime alle seguenti condizioni: (i) acquisizione della residenza fiscale in Italia ai sensi dell’art. 2 del TUIR; (ii) residenza fiscale mantenuta all’estero nei due periodi d’imposta precedenti a quello di acquisizione della residenza fiscale italiana e (iii) attività lavorativa svolta prevalentemente nel territorio dello Stato.
Parallelamente rispetto alla suddetta modifica normativa, l’Agenzia delle Entrate ha, con diversi interventi interpretativi, fornito nel tempo ulteriori chiarimenti circa i requisiti di accesso al regime di favore, con l’effetto, in alcuni casi, di restringerne l’ambito applicativo.
Nello specifico, ci si riferisce alle fattispecie relative a lavoratori dipendenti emigrati all’estero e successivamente rientrati in Italia per i quali l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che l’applicazione della norma agevolativa dovesse essere subordinata all’ulteriore condizione di una discontinuità sostanziale tra l’attività lavorativa esercitata in Italia prima dell’espatrio e quella svolta dopo il rientro dall’estero.
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2. Un esempio in tal senso concerne il lavoratore dipendente che rientra in Italia a seguito di distacco in un altro Stato.
Una prima posizione di prassi negava intoto la fruizione del regime di favore, in quanto il rientro in Italia “avvenendo in esecuzione delle clausole del preesistente contratto di lavoro, si pone in sostanziale continuità con la precedente posizione di lavoratori residenti in Italia e, pertanto, non soddisfa la finalità attrattiva della norma”[2].
Successivamente, seguendo una posizione meno intransigente e più coerente al dettato normativo, l’Agenzia ha fatto salve le situazioni dei lavoratori dipendenti che al rientro in Italia avessero assunto un nuovo ruolo aziendale in ragione delle specifiche competenze maturate all’estero o, alternativamente, fossero rientrati in Italia dopo un periodo di distacco rinnovato più volte con un conseguente affievolimento dei legami con l’Italia ed un effettivo radicamento del dipendente nel territorio dello Stato estero[3].
Nonostante dette aperture interpretative, nella recente circolare 33/E del 2020, l’Amministrazione finanziaria è parsa tuttavia riposizionarsi su orientamenti assai più restrittivi subordinando la fruizione dell’agevolazione alla sottoscrizione da parte del dipendente rientrato in Italia di un nuovo contratto di lavoro avente per oggetto una diversa posizione lavorativa nella società distaccante.
Peraltro, in aggiunta alla necessità di un nuovo contratto di lavoro, l’Agenzia ha ritenuto essenziale l’assenza di “indici di continuità sostanziale” ossia di elementi indicativi del fatto che, anche in presenza di un nuovo accordo, il rientro in Italia è effettuato in esecuzione di clausole del preesistente contratto di lavoro, impedendo in definitiva la fruizione del regime agevolato.
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3. A latere di queste posizioni interpretative si inserisce la recentissima risposta 596 del 2021 con la quale l’Agenzia delle Entrate ha riconosciuto la fruizione dell’agevolazione ai lavoratori che a seguito del trasferimento in Italia, svolgano la propria attività lavorativa in modalità smart working alle dipendenze del medesimo datore di lavoro estero presso cui risultavano in forza prima di trasferire la residenza fiscale in Italia, senza porre la condizione di discontinuità con l’attività svolta all’estero.
Il chiarimento potrebbe apparire scontato posto che nel caso esaminato non vi è comparazione tra attività esercitata prima dell’espatrio ed attività svolta o da svolgere dopo il rimpatrio.
Tuttavia, tale documento di prassi merita attenzione in quanto dissipa alcuni dubbi interpretativi segnalati a commento di un precedente orientamento non pubblicato reso da una direzione regionale che in una fattispecie analoga avrebbe negato la fruizione dell’agevolazione verosimilmente in considerazione della continuazione del rapporto di lavoro precedentemente instaurato all’estero.
La risposta dell’Agenzia, oltre a confermare l’applicabilità del regime agevolato anche a lavoratori dipendenti di soggetti non residenti[4], risulta condivisibile poiché conforme al tenore letterale e alla ratiolegis consistente, a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. 34/2019, nell’intento di far acquisire una condizione di residenza fiscale in Italia a chi vi intenda esercitare una qualsivoglia attività lavorativa a prescindere dalla sussistenza di motivi complementari che possano aver indotto il lavoratore al trasferimento o della loro connessione con il territorio nazionale.
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4. Ebbene, in base agli ultimi chiarimenti forniti dall’Amministrazione finanziaria, non dovrebbero più sussistere dubbi circa l’accesso al regime da parte di lavoratori dipendenti/autonomi che svolgendo attività di lavoro esclusivamente all’estero per un datore di lavoro/committente dovessero trasferirsi in Italia per ivi proseguire l’esercizio dell’attività di lavoro a favore dei medesimi soggetti.
È dunque auspicabile che, in relazione a dette e ad altre fattispecie che non siano ancora state oggetto di pubblici chiarimenti interpretativi, l’Agenzia delle Entrate faccia ulteriore chiarezza e adotti un approccio quanto più uniforme ai casi ad oggi già oggetto di analisi, basandosi sulla ratio della norma come oggi vigente, la quale, come detto, richiede sostanzialmente di acquisire la residenza fiscale italiana e prestare attività di lavoro prevalentemente nel territorio dello Stato, a nulla rilevando le ulteriori ragioni sottese al trasferimento del lavoratore in Italia ovvero le attività lavorative dal medesimo ovunque svolte in precedenza.
In altre parole, il requisito della discontinuità, al di fuori delle ipotesi di distacco o di fattispecie di rimpatrio ad esso assimilabili[5], dovrebbe essere considerato esclusivamente per contrastare i casi di preordinazione nei quali il lavoratore dipendente e il datore di lavoro programmino un periodo di permanenza all’estero avente per finalità principale la fruizione dell’agevolazione conseguente al rimpatrio.
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5. In conclusione, è possibile che la norma abbia nel tempo perso una propria identità così come è certo che l’istituto abbia mutato in modo consapevole la propria finalità anche a seguito degli interventi di alleggerimento delle condizioni di accesso al regime agevolato.
E’ tuttavia altresì evidente che una sua eventuale rimodulazione potrà essere attuata solo mediante lo strumento legislativo eventualmente anche a seguito di indagini conoscitive effettuate in relazione all’impatto della normativa vigente anche in termini di ricadute occupazionali dalla data della sua introduzione ad oggi.
[1] La versione dell’art. 16, comma 1, d.lgs. 147/2015 in vigore prima delle modifiche operate dal d.l. 34/2019 prevedeva che l’ambito applicativo del regime fosse circoscritto ai lavoratori: (i) con ruoli direttivi ovvero in possesso di requisiti di elevata qualificazione o specializzazione; (ii) che svolgessero la propria attività lavorativa presso un’impresa residente nel territorio dello Stato in forza di un rapporto di lavoro instaurato con questa o con società che direttamente o indirettamente controllassero la medesima impresa, ne fossero controllate ovvero fossero controllate dalla stessa società che controllava l’impresa; (iii) che non fossero stati fiscalmente residenti in Italia nei cinque (e non due come previsto attualmente) periodi d’imposta precedenti il trasferimento.
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