Ancora in tema di carried interest: considerazioni critiche a margine della risposta dell’Agenzia delle Entrate n. 565/2020
Di Gianluca Stancati -
Abstract
Nel testo si esamina la recente posizione espressa dell’Amministrazione finanziaria, con la risposta all’interpello n. 565/2020, sul trattamento dei carried interest, cercando di evidenziarne alcuni passaggi critici, relativi sia alla fattispecie “tipizzata” (requisito di holding period), che al reiterato contrasto rispetto ai principi sistematici nella specie rilevanti (condivisione del rischio e clausole di leavership).
Tax treatment of carried interest: notes to ruling no. 565/2020. – The article focuses on recent ruling no. 565/2020 of Italian Revenue Agency concerning the tax treatment of carried interest. The analysis is aimed at highlighting its critical contents in respect to “qualified plans” (holding period), other than recurring conflicts with leading principles relevant at hand (sharing of investment risk and leavership’s arrangements).
Sommario:1. Premessa – 2. La risposta n. 565/2020 – 3. Piani tipici ed holding period – 4. Portata della attrazione al reddito di lavoro – 5. La clausola di leavership – 6. Osservazioni conclusive
1. Con la recente risposta n. 565/2020, l’Agenzia delle Entrate affronta nuovamente il tema della qualificazione dei piani azionari di incentivazione al management che prevedono una quota maggiorata di partecipazione all’utile (carried interest), subordinata alla realizzazione di risultati eccedenti una soglia (hurdle) posta a garanzia della remunerazione minima degli investitori “principali” [si vedano le risposte nn. 472 del 2019 e 23-55-77 del 2020, nonché le recentissime nn. 407, 435 e 436 del 2020].
Questo intervento offre l’occasione per riprendere alcune considerazioni svolte su Questa Rivista [Stancati G., Carried interest e piani di incentivazione “atipici”: note a margine delle risposte nn. 407 e 435 del 2020, 4 dicembre 2020] ed evidenziare come i limiti della legislazione speciale, in uno con i vizi logici della interpretazione di prassi, abbiano dato vita ad un quadro estremamente critico in subjecta materia.
2. L’interpello era stato presentato da un manager di un gruppo multinazionale controllato da un fondo di private equity in relazione al piano di incentivazione adottato dal gruppo medesimo, con la previsione di tre classi di quote, di cui due destinate ai manager, rispettivamente, in via minoritaria (“preference”) e prevalente (“sweet equity”).
In seno a detto piano incentivante si rendeva operante un obbligo di cessione, a determinati soggetti e secondo modalità stabilite discrezionalmente dal consiglio di amministrazione, di tutte le quote detenute dai manager, non solo in presenza di un “evento liquidità (exit)” relativo alla partecipata (quotazione a mezzo OPA; cessione a terzi; liquidazione), ma altresì in occasione della cessazione del rapporto di lavoro dei beneficiari (leavership).
Rispetto a tali circostanze, non si rinveniva un vero e proprio “vincolo di lock up” (obbligo di mantenere la titolarità degli strumenti per un tempo minimo), mentre la determinazione del prezzo di cessione era rimessa all’organo amministrativo dell’emittente in funzione dei principi di “ragionevolezza e buona fede”, ulteriormente declinati per le fattispecie di (i) good e (ii) bad leavership. Nell’un caso, applicando il fair value in proporzione al numero di anni di possesso delle quote; nell’altro, in misura pari al minore tra il costo di acquisto ed il fair value.
Rispetto alla disciplina ex art. 60 D.L. n. 50/2017, convertito dalla L. n. 96/2017 – che, come noto, a mo’ di presunzione relativa, opera una qualificazione (tra i redditi di capitale o diversi) dei proventi di strumenti finanziari aventi “diritti patrimoniali rafforzati” e detenuti da managers (dipendenti/amministratori) nella veste di co-investitori, al ricorrere di una serie di condizioni che attengono (i) alla misura del co-investimento medesimo, (ii) ai presupposti di maturazione del rendimento e (iii) ad un holding period – l’Agenzia preliminarmente rileva che l’istante non è stato in grado di dimostrare la ricorrenza del requisito sub i e che lo stesso avrebbe rappresentato la mancata integrazione di quello sub iii “in quanto il piano di incentivazione non prevede l’obbligo [sic!] per i partecipanti di detenere le quote per un periodo minimo quinquennale, consentendo agli stessi di uscire in qualsiasi momento”.
Avendo quindi ravvisato nella specie la configurabilità di un “piano atipico”, l’Agenzia ne ha valutato le caratteristiche salienti al fine di verificare la sussistenza del (“famoso”) allineamento di interessi tra i manager e gli altri investitori, sotto il profilo di una paritetica condivisione del rischio di impresa.
In merito, si giunge ad un riscontro negativo basato, essenzialmente, su due rilievi.
In primo luogo, ai fini di cui trattasi, si attribuisce valenza (ostativa al suddetto allineamento di interessi) alle summenzionate clausole di leavership e, segnatamente, alla circostanza che l’investimento non possa essere mantenuto post cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre, sotto il profilo della remunerazione del “disinvestimento”, il sopradescritto meccanismo viene, per così dire, censurato, sia in quanto agganciato a fattori discrezionali e non anche oggettivi, sia per le connotazioni crescenti e progressive al decorrere del tempo, di guisa che ne deriverebbe un generale legame con la prestazione lavorativa, quale sostanziale integrazione della retribuzione dei beneficiari.
Alla luce delle suesposte considerazioni l’Agenzia conclude che “l’eventuale plusvalenza realizzata, in occasione della cessione delle quote, costituirà reddito di lavoro dipendente e dovrà essere assoggettata a tassazione secondo il disposto dell’art. 51 del Tuir (…) parimenti, eventuali proventi, medio tempore distribuiti e collegati al possesso delle quote (…) saranno da assoggettare alla normale tassazione Irpef prevista per il reddito di lavoro dipendente” [sic!].
3. Per quanto non rappresenti elemento centrale della disamina e sia apparentemente riferito ad una prospettazione dell’istante stesso, innanzitutto, desta perplessità il passaggio, sopra ricordato, che negherebbe la configurabilità del requisito ex art. 60, comma 1, lett. c), D.L. n. 50/2017, in assenza di un “obbligo” in capo ai manager di detenere gli strumenti per un periodo minimo quinquennale.
Come puntualmente rilevato dai primi commentatori [Ruggero P. – Cisternino C., L’holding period ai fini della tassazione dei carried interest, in Norme e Tributi Plus, Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2020], questa statuizione è – invero, clamorosamente – destituita di fondamento e, oltre a contrastare con il dettame normativo, contraddice quanto chiarito dalla stessa Amministrazione.
Nella specie – in modo non dissimile da quanto previsto per altre discipline – assume rilevanza la situazione giuridico-fattuale della titolarità dello strumento “protratta per un periodo” [cfr. Piazza M. – Resnati C., Presunzione di qualificazione dei carried interest come redditi di capitale o diversi, in il fisco, 2019, 1413 ss.], a prescindere dall’assunzione di obbligazioni negoziali che ne vincolino temporalmente la cedibilità. Il che è stato da subito chiaro all’Agenzia. Quest’ultima, nella circolare n. 25/E/2017 (par. 3.3.), ha sposato questa impostazione portandola alle “estreme conseguenze”, nel senso di ritenere compatibile con l’applicazione della menzionata disciplina la circostanza che il carried interest sia percepito prima del compimento del quinquennio, laddove l’holding period maturi successivamente, con effetto assorbente rispetto ai proventi già conseguiti.
4. Altro aspetto che merita qualche considerazione riguarda la portata che la prassi in rassegna attribuisce alla riconducibilità delle remunerazioni finanziarie al reddito di lavoro.
Tale attrazione, a detta dell’Agenzia, opererebbe non solo con riguardo alle “plusvalenze da realizzo”, ma altresì in relazione ai proventi (dividendi) percepiti medio tempore.
Anche in questo caso siamo di fronte ad una presa di posizione contra legem, oltre che confliggente con quanto espresso sempre in sede di prassi.
Ed invero la disciplina de qua opera una presunzione relativa di qualificazione dei proventi derivanti dagli strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati ed, inter alia, ne subordina l’applicabilità al c.d. requisito di postergazione (art. 60 cit., lett c.), vale a dire alla circostanza che la relativa maturazione avvenga solo dopo che tutti i soci/partecipanti abbiano recuperato il capitale investito e realizzato un “rendimento minimo” (hurdle rate).
In merito, ancora la circolare n. 25/E/2017, sub par. 3.2, chiarisce che “la distribuzione differita che costituisce condizione di accesso alla presunzione legale di qualificazione del reddito riguarda solo l’extra-rendimento, ovvero la componente finanziaria rafforzata e non anche il rimborso del capitale investito o il pagamento dei normali proventi correlati alle diverse categoria di quote emesse”.
Dunque, se è vero, come è vero, che la presunzione ex lege insiste sull’extra-rendimento e che nel caso di specie la conclusione dell’Agenzia dipende soprattutto dalla discrezionalità nella determinazione del prezzo di cessione, è difficile comprendere come e su che basi possa pretendersi di tassare come redditi di lavoro:
i dividendi ordinari;
il capital gain fino a concorrenza di una plusvalenza che, comunque e di fatto, risulti congrua rispetto ad “un valore normale di realizzo” [sul punto, cfr. Brunelli F. – Sandoli M., Carried interest: la rilevanza delle clausole di leavership ai fini della qualificazione reddituale, in it, 14 dicembre 2020].
Ma non solo.
L’extra-rendimento stesso, a prescindere dalla sua portata non proporzionale all’investimento, in costanza di quest’ultimo, postula pur sempre l’esistenza di utili distribuibili e dunque consegue ad una effettiva “posizione di rischio” (almeno ove ricorra la suddetta postergazione).
Non si vede, quindi, come una eventuale predeterminazione o determinazione “calibrata” del prezzo di cessione possa influire – “a ritroso” – addirittura sulla qualificazione reddituale di tutte le componenti conseguite medio tempore.
Sarebbe come dire che il fattore (determinazione del prezzo di cessione) che smentisce la condivisione del rischio rispetto all’evento realizzativo “contamina” i precedenti e diversi eventi distributivi che, invece, presuppongono quel rischio e ne sanciscono, pro tempore, la gestione fruttuosa.
Parimenti non condivisibile appare, poi, l’affermazione secondo cui “la natura di retribuzione correlata alla prestazione lavorativa del manager non può venir meno in considerazione dell’aleatorietà del provento erogato solo se il fondo o la società genera profitti che superano un “livello minimo di rendimento” (cd. hurdle rate), atteso che analoga incertezza sussiste anche per la retribuzione variabile incentivante” (sic!).
Sul punto, non v’è chi non veda che altro è il rendimento finanziario derivante dall’investimento nel capitale di rischio, altro è la componente retributiva variabile che accede ad un diverso rapporto – appunto, quello di lavoro – cui il medesimo concetto di rischio è ontologicamente estraneo.
5. Nel precedente intervento su questa Rivista [Stancati G., Carried interest e piani di incentivazione “atipici”: note a margine delle risposte nn. 407 e 435 del 2020, op. cit.] si è argomentato come, nell’analisi dei “piani atipici”, quello del mantenimento dell’investimento dopo la cessazione del rapporto di lavoro, a ben vedere, costituisca un falso problema, sia nella prospettiva “storica” del dibattitto che ha preceduto l’introduzione della disciplina in commento, che in una visione di più ampio respiro che cerchi risposte nel sistema, non anche nel ricorso empirico a parametri di discutibile rilevanza.
Sullo sfondo resta il vizio di ragionamento che, ad avviso di chi scrive, può rappresentarsi, in modo suggestivo, come la “diluizione” dell’unica condizione determinante (sostanziale condivisione del rischio in vigenza dell’investimento) all’interno di una serie di indicatori ultra legem che, peraltro, la stessa prassi, dopo averne invocato a più riprese la significatività, sta dimostrando di non governare in modo coerente [per alcune asimmetrie di valutazione rispetto al caso di mantenimento dell’investimento con modulazione dei proventi in funzione del “vesting”, cfr. Brunelli F. – Sandoli M., op. cit.; Antonini M. – Zoppis G., Carried interest: non tutti condivisibili i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate, in il fisco, 2020, 42, 4023 ss.].
E’, senz’altro, questo il caso delle clausole “di leavership” rispetto alle quali la più volte richiamata circolare n. 25/E/2017 aveva inizialmente lasciato “ben sperare” riconoscendo che, in presenza delle stesse, la ricorrenza di elementi quali “l’esposizione ad un effettivo rischio di perdita del capitale” può comunque condurre a qualificare i proventi de quibus tra i redditi di capitale/diversi.
A questa condivisibile overture hanno fatto seguito interventi, quale quello in rassegna, in cui le clausole in discorso sono state valutate negativamente, non solo perché imponevano un disinvestimento, ma anche in ragione del fatto che ne modulavano il provento in funzione del tempo di detenzione (e, quindi, anche della sottostante durata del rapporto: cfr. la risposta n. 407/2020), mentre quest’ultimo aspetto è stato positivamente apprezzato in altre occasioni (risposte nn. 472-482/2019 e 435/2020).
In questo contesto “disorientante” non può che ribadirsi come, di fronte alla centralità dell’allineamento di interessi, la leavership, logicamente ed inevitabilmente, debba cedere il passo alla sussistenza del rischio dell’investimento, a prescindere da ogni profilo di dettaglio che ne disciplini il funzionamento, con o senza conservazione dell’investimento medesimo ed in presenza di meccanismi che modulino l’entità della remunerazione in funzione della sua durata [in senso conforme, da ultimo, cfr. Brunelli F. – Sandoli M., op. cit.].
6. A margine di questa breve analisi resta l’impressione di un quadro interpretativo privo di coerenza “interna ed esterna” che, salvo un auspicabile revirement, lascia inevitabilmente presagire l’instaurarsi di un contenzioso, dunque la paradossale produzione proprio di quegli effetti che la legislazione speciale del 2017 nelle sue intenzioni intendeva evitare, con buona pace per l’agognata certezza del diritto.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Antonini M. – Zoppis G., Carried interest: non tutti condivisibili i chiarimenti dell’Agenzia delle entrate, in il fisco, 2020, 42, 4023 ss.
Brunelli F. – Sandoli M., Carried interest: la rilevanza delle clausole di leavership ai fini della qualificazione reddituale, in Dirittobancario.it, 14 dicembre 2020
Committeri G.M. – Claps P., L’Agenzia chiarisce le regole per evitare la riqualificazione del carried interest in reddito da lavoro, in il fisco, 2017, 43, 4122 ss.
Marianetti G., Il regime fiscale dei carried interest nella recente prassi amministrativa, in La Consulenza del lavoro, 2020, 12
Piazza M. – Resnati C., Presunzione di qualificazione dei carried interest come redditi di capitale o diversi, in il fisco, 2019, 1413 ss.
Rossi L. – Ampolilla M., La normativa sui carried interest: commenti a valle della circolare dell’Agenzia delle Entrate, in Boll. trib., 2018, 413 ss.
Ruggero P. – Cisternino C., L’holding period ai fini della tassazione dei carried interest, in Norme e Tributi Plus, Il Sole 24 Ore, 7 dicembre 2020
Stancati G., Carried interest e piani di incentivazione “atipici”: note a margine delle risposte nn. 407 e 435, in Riv. Dir. Trib., supplemento on line, 4 dicembre 2020
Vinciguerra F., Trattamento fiscale dei carried interest tra evoluzione legislativa ed incertezze interpretative, in Corr. trib., 2020, 11, 1016 ss.
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