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Crisi economica post-pandemia: un “volano” per la Digital services tax?
Di Anna Ilaria D'Ambrosio -
Abstract
I negoziati in sede OCSE per l’implementazione della minimum tax sulle società del digitale sono ancora in corso e la deadline per raggiungere una soluzione condivisa a livello globale è stata posticipata al 2021. Lo scorso giugno, Trump – che non ha mai nascosto un certo “scetticismo” riguardo alla proposta dell’OCSE – ha sospeso le trattative per occuparsi dell’emergenza sanitaria conseguente alla diffusione del COVID-19, ma il cambio al vertice non comporta automaticamente anche una diversa posizione degli Stati Uniti sul pacchetto di riforme proposto dall’organizzazione internazionale. In Europa, intanto, continuano a moltiplicarsi le iniziative di singoli Stati membri che hanno introdotto o stanno per introdurre una web tax “nazionale”, che mina l’unitarietà del mercato unico e facilita l’elusione. Per tale ragione e con l’intento di rivoluzionare il sistema delle risorse proprie, l’Unione Europea ha approvato una “tabella di marcia” (prevista dal Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027) in cui si prevede di concludere le trattative sulla Digital Services Tax entro la metà del 2021, al fine di renderla operativa dal 2023, in attesa della decisione a livello internazionale. La necessità di rinvenire nuove risorse proprie anche per finanziare il debito contratto per fronteggiare la pandemia da COVID-19 potrebbe costituire un “volano” anche per l’adozione, a breve, della Digital Services Tax?
Post-pandemic economic crisis: a “flywheel” for the Digital services tax? –Negotiations at the OECD for the implementation of a minimum tax on digital companies are still ongoing and the deadline to reach a globally agreed solution has been postponed to 2021. Moreover, last June, Trump – who has never hidden a certain “skepticism” about the OECD’s proposal – suspended the negotiations to deal with the health emergency resulting from the spread of COVID-19, but the change at the top does not automatically mean also a different U.S. position on the reform package proposed by the international organization. In Europe, meanwhile, the initiatives of individual member states that have introduced or are about to introduce a “national” web tax, which undermines the unity of the single market and facilitates tax avoidance, continue to multiply. For this reason and with the intention of radically changing the system of own resources, the European Union has approved a “roadmap” (provided for in the Multiannual Financial Framework for the period 2021-2027) in which it is planned to conclude negotiations on the Digital Services Tax by mid-2021, in order to make it in force from 2023, pending the decision at international level. Could the need to find new own resources also to finance the debt taken on to deal with the COVID-19 pandemic be a “flywheel” also for the adoption, in the short term, of the Digital Services Tax?
Sommario:1. Lo stallo sulla minimum tax in sede OCSE e la posizione degli USA – 2. Le molteplici web taxes europee e la frammentazione normativa e del mercato unico – 3. Il finanziamento del debito da pandemia come “volano” anche per la DST?
1. Il 2020 doveva essere l’anno in cui, nelle intenzioni dell’OCSE, si sarebbe raggiunto un accordo condiviso a livello mondiale sulla tassazione dell’economia digitale in base al modello a due Pilastri messo a punto dall’Inclusive Framework; così non è stato e la deadline è stata spostata in avanti a metà del 2021.
Nonostante i notevoli progressi realizzati con riguardo alla riforma della fiscalità internazionale, al fine di renderla compatibile con le sfide poste dalla digital economy (senza considerare quanto possa essere “appetibile” l’idea di un extra-gettito che oscilla tra i 50 e gli 80 miliardi a livello globale), i negoziati sono arrivati a un punto morto a causa delle opposizioni di alcuni Stati e della crisi economica conseguente alla pandemia da COVID-19.
Lo scorso giugno, gli Stati Uniti hanno sospeso le trattative per concentrarsi sulla gestione dell’emergenza sanitaria, che è parsa piuttosto una strategia politica in vista delle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute pochi mesi dopo. La posizione di Trump è sempre stata chiara: al fine di “proteggere” le proprie multinazionali che sarebbero nel mirino dell’OCSE, gli USA sostengono la proposta dell’adesione solo in via opzionale (c.d. safe harbour) al regime previsto dal Pillar One (che riscrive i criteri per la ripartizione della potestà impositiva tra gli Stati sulla base di un nuovo concetto di nexus). Si tratta di un atteggiamento in linea con la riforma fiscale Trump del 2017 (nota come Tax Cuts & Jobs Act, TCJA), incentrata sul passaggio dalla tassazione worldwide a quella territoriale per fare in modo che i redditi delle multinazionali americane siano tassati negli USA. A tal fine è stata introdotta la GILTI (Global Intangible Low Taxed Income), che garantisce un’imposizione minima del reddito prodotto all’estero dalle multinazionali americane attraverso le loro CFC (in sostanza, una sorta di regime CFC rafforzato).
In altre parole, è la stessa riforma fiscale Trump che sembrerebbe prescindere dall’esigenza di un coordinamento fiscale internazionale e che, per questo, potrebbe rendere più gravoso e difficile giungere ad una soluzione condivisa riguardo la tassazione delle multinazionali (americane) digitali, come auspicato dall’OCSE.
La vittoria di Biden alle amministrative dello scorso novembre potrebbe non costituire automaticamente un cambio di rotta. Infatti, dal punto di vista degli Stati Uniti, la definizione a livello mondiale della tassazione delle società del digitale potrebbe avere effetti negativi sull’economia del Paese, considerando che, come detto, ad essere colpite sarebbero sicuramente le più grandi (rectius, redditizie) multinazionali americane quali Google, Amazon, Facebook, Apple (cc.dd. GAFA).
Questa situazione non agevola neppure la conclusione dei lavori inerenti la Digital Services Tax europea (c.d. DST), la quale – così come strutturata nella proposta di Direttiva del Consiglio COM(2018)148 final del 21 marzo 2018 – rischierebbe di sovrapporsi alla GILTI, se non se ne prevedesse un coordinamento.
In realtà, le stesse multinazionali del digitale sarebbero più propense a una soluzione condivisa (possibilmente a livello mondiale) in merito al regime impositivo cui assoggettare i propri redditi, piuttosto che doversi interfacciare con un quadro normativo estremamente frammentato.
Da questo punto di vista, l’Europa e l’OCSE hanno intenzione di “camminare insieme” per definire il pacchetto di misure costituito dal Pillar One e dal Pillar Two entro il 2021, escludendo la possibilità di accelerare soltanto sulla minimum tax, in quanto i due Pilastri costituiscono un pacchetto per ragioni strategiche.
2. In attesa di un accordo unanime in sede OCSE, l’Europa, pur continuando a collaborare in sede internazionale, ha deciso di agire (come preannunciato dalla Presidente von der Leyen; cfr. von Der Leyen U., Un’Unione più ambiziosa. Il mio programma per l’Europa, disponibile su https://ec.europa.eu, 16 luglio 2019) per giungere ad una proposta definitiva sulla Digital Services Tax entro la metà del 2021 e alla sua entrata in vigore entro il 2023.
L’implementazione della DST è in stand-by a causa dell’opposizione di alcuni Stati membri, i quali temono che l’imposta possa compromettere la competitività dell’Europa, ma, soprattutto, temono che possano risultarne compromessi i rapporti commerciali con gli Stati Uniti. Basti pensare che l’Olanda e l’Irlanda, ad esempio, da anni hanno messo in atto una politica fiscale “attrattiva” per i giganti del web di nazionalità americana.
Intanto, continuano a proliferare iniziative legislative unilaterali (si pensi alla web tax di matrice italiana o austriaca). Da ultimo, la Spagna ha approvato ad ottobre 2020 la legge che istituisce la web tax e che entrerà in vigore a metà gennaio 2021 e, dallo scorso 1° dicembre, è di nuovo in vigore la web tax francese.
Proprio il “caso francese” è emblematico di quanto il mancato accordo in sede tanto europea quanto internazionale possa provocare una vera e propria guerra commerciale. La taxe sur les services numériques, che era stata approvata in via definitiva già a luglio 2019 ma non era entrata in vigore, ricalca la DST europea, prevedendo l’applicazione di un’aliquota del 3% sui ricavi derivanti dai servizi digitali delle società che operano in Francia, ossia quelle che realizzano oltre 750 milioni di euro su scala mondiale, di cui almeno 25 milioni entro i confini dello Stato.
Poiché, di fatto, ad essere colpite sarebbero state anche (e soprattutto) le multinazionali americane del web, gli USA avevano annunciato l’applicazione di cospicui dazi commerciali all’importazione di numerosi prodotti francesi, ottenendo così la sospensione della riscossione della taxe sur les services numériques fino a dicembre 2020 (in cambio della contestuale sospensione dei dazi). Entrambi i Paesi, infatti, confidavano nel raggiungimento dell’intesa sulla tassazione dell’economia digitale in sede OCSE entro fine anno. In seguito all’annuncio dell’OCSE del rinvio della conclusione dei lavori al 2021, come da accordi, dal 1° dicembre 2020 la web tax francese è di nuovo in vigore, allineando la Francia agli altri Paesi che hanno introdotto (o sono intenzionati a farlo) un’imposta sui servizi digitali (Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Italia, Spagna, Regno Unito).
Il quadro normativo fiscale in Europa si presenta, quindi, estremamente frammentato: ciò comporta non solo il frazionamento del mercato europeo, con il conseguente ostacolo alla realizzazione del mercato unico digitale (che pure resta tra gli obiettivi primari dell’Unione), ma anche nuove occasioni di elusione fiscale a causa dei disallineamenti tra le legislazioni nazionali.
3. L’occasione per accelerare i lavori sulla DST potrebbe essere costituita dalla strategia messa in atto per finanziare il debito contratto per fronteggiare l’emergenza sanitaria da COVID-19. Le misure restrittive adottate dai Paesi europei negli ultimi mesi hanno infatti avuto ripercussioni notevoli sull’economia; a fronte di una drastica riduzione delle entrate è stato necessario, al contempo, immettere liquidità nei settori più colpiti, facendo impennare il debito pubblico.
Nell’accordo del 10 novembre 2020 sul Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2021-2027 (da oltre 1000 miliardi di euro) e sull’iniziativa NextGenerationEU (uno strumento di ripresa temporaneo che vale 750 miliardi di euro), il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione europea, con l’intento di riparare i danni economici e sociali conseguenti alla pandemia, hanno concordato una tabella di marcia per l’introduzione di risorse proprie, che, dal 2023, deriveranno anche dalla tassazione dei servizi digitali.
All’esito della riunione del Consiglio del 10-11 dicembre, gli Stati membri hanno raggiunto un accordo sul bilancio pluriennale 2021-2027 e sullo strumento di ripresa temporaneo (il Consiglio europeo ha approvato una dichiarazione interpretativa sull’introduzione di una condizionalità per l’erogazione dei fondi legata al rispetto dello Stato di diritto, superando, così, il veto di Polonia e Ungheria). Spetta, ora, al Parlamento europeo ed al Consiglio dell’Unione Europea adottare il regolamento sul Quadro finanziario pluriennale e la decisione sulle risorse proprie, e agli Stati membri approvare la decisione sulle risorse proprie conformemente alle rispettive norme costituzionali in vista della sua rapida entrata in vigore.
In dettaglio, mentre il bilancio europeo a lungo termine sarà finanziato utilizzando le risorse proprie, NextGenerationEU lo sarà attraverso l’assunzione, da parte dell’Unione Europea, di prestiti sui mercati finanziari a costi più favorevoli rispetto ai singoli Stati membri.
In assenza di tali risorse proprie, il debito comune dovrebbe essere sostenuto alternativamente con ulteriori tagli ai programmi di investimento ovvero con un incremento dei trasferimenti da parte dei Paesi membri basati sul reddito nazionale lordo (che, soprattutto in questo momento storico, non sarebbero ben visti). Invece, nelle intenzioni delle istituzioni europee, il “peso” dei finanziamenti dovrebbe ricadere sui giganti del web (veri “vincitori” della crisi economica in atto), sui grandi evasori ed elusori, sugli inquinatori dei Paesi extra-UE e, in generale, su tutti i soggetti che, ad oggi, non contribuiscono adeguatamente al finanziamento dell’Europa. Le risorse proprie, infatti, saranno strettamente connesse ai programmi di azione europei, contribuendo anche al rafforzamento del mercato unico e alla riduzione dei contributi nazionali basati sul reddito nazionale lordo.
Nel predetto accordo del 10 novembre 2020 è previsto che, per i prossimi anni, la Commissione si impegna a presentare proposte per l’introduzione graduale: a) entro gennaio 2021, di un nuovo contributo nazionale basato sui rifiuti da imballaggi di plastica non riciclati; b) entro il 2023, di risorse proprie basate sul sistema di scambio delle emissioni ETS (Emission Trading System), derivate dalla tassazione di servizi digitali e basate sul meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere; c) entro il 2026, di una risorsa propria basata sulla tassazione delle transazioni finanziarie e di risorse proprie collegate al settore industriale oppure ad una nuova base imponibile comune per l’imposta sulle società.
Le entrate derivanti dalle nuove risorse proprie introdotte dopo il 2021 contribuirebbero a rimborsare il capitale e gli interessi relativi ai finanziamenti contratti a titolo di NextGenerationEU. Di fatto, poiché è l’Europa a contrarre il prestito per sovvenzionare il predetto strumento di ripresa temporaneo, sembrerebbe logica conseguenza che sia la stessa Europa a garantirlo con il proprio bilancio, rafforzato dalle entrate derivanti dalle nuove risorse proprie.
Ad oggi, le fonti di entrata di cui dispone l’Europa sono costituite per circa l’80% da trasferimenti da parte degli Stati membri e solo per circa il 20% da prelievi diretti (principalmente dazi doganali), che, nel complesso, sarebbero troppo esigue per raggiungere gli obiettivi ambiziosi che si pone l’Europa per il prossimo futuro.
Il Parlamento europeo chiede da anni una riforma del sistema di finanziamento dell’Europa, considerato poco trasparente ed iniquo, e l’adozione di una fiscalità europea funzionale, che rappresenti uno stretto collegamento tra le entrate e gli obiettivi politici da realizzare. Di fatto, a norma dell’art. 311 TFUE «L’Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue politiche» e «Il bilancio, fatte salve le altre entrate, è finanziato integralmente tramite risorse proprie». La richiesta del Parlamento sembrerebbe essere stata ascoltata proprio in occasione della attuale crisi economica.
Quello che, tuttavia, potrebbe ancora rappresentare un ostacolo alla piena realizzazione della riforma è il (complesso) procedimento per l’adozione delle decisioni in materia fiscale e di entrate proprie.
Tali decisioni, infatti, soggiacciono al criterio dell’unanimità (art. 311, par. 3. TFUE), ossia sono adottate dal Consiglio all’unanimità, previa consultazione del Parlamento europeo, e devono essere ratificate da tutti gli Stati membri secondo le proprie norme costituzionali. Si tratta di una procedura macchinosa, che rallenta notevolmente l’azione dell’Unione Europea, anche in virtù del potere di veto attribuito agli Stati sia in seno al Consiglio che in sede di ratifica.
Con l’intento di rendere l’Europa più competitiva e solida, la Presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dichiarato di voler scalfire il principio dell’unanimità (sia con riguardo alla materia fiscale che alle entrate proprie) ricorrendo alla c.d. “clausola passerella” generale (ex art. 48, par. 7, TUE, che prevede che il Consiglio europeo possa adottare una decisione unanime che consenta al Consiglio dell’UE di deliberare a maggioranza qualificata nei settori in cui è prevista altrimenti la votazione all’unanimità e di ricorrere alla procedura legislativa ordinaria nei casi in cui sia prevista la procedura speciale) e alle «disposizioni dei trattati che consentono di adottare le proposte in campo fiscale mediante codecisione e di decidere con voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio» (von Der Leyen U., Un’Unione più ambiziosa. Il mio programma per l’Europa, cit.).
La riforma del sistema delle entrate proprie e il passaggio dalla procedura legislativa speciale (unanimità) a quella ordinaria (maggioranza qualificata), com’è stato osservato, assicurerebbero un processo decisionale più rapido, un maggiore coinvolgimento del Parlamento europeo nelle scelte strategiche in materia di fiscalità ed entrate europee e una riduzione dei costi di compliance per i contribuenti con presenza internazionale (se si dovesse realizzare un’armonizzazione fiscale europea anche sulle imposte dirette, come previsto dalla tabella di marcia approvata di recente) (v. Leo M., Legislazione fiscale UE: la proposta di abolizione della regola dell’unanimità, in Corr. trib., 2020, 10, 876). Inoltre, sarebbe possibile un “recupero” della legittimazione democratica del sistema stesso delle risorse proprie, che è soltanto indiretta, poiché, come visto, il consenso è espresso a livello statale e non direttamente dalle istituzioni europee. Attribuire un ruolo primario al Parlamento nel meccanismo decisionale, infatti, significa attribuire maggior “peso” alla volontà dei cittadini per il tramite dei loro diretti rappresentanti.
Ad oggi, tuttavia, la c.d. “clausola passerella” non è stata ancora attivata, soprattutto a causa del veto posto dagli Stati membri che temono una limitazione della propria potestà impositiva: cosa si vorrebbe trasferire all’Europa, nuove risorse oppure un vero e proprio potere impositivo? Propendendo per la seconda tesi, si accoglierebbe una visione di integrazione europea sbilanciata verso il federalismo piuttosto che verso la cooperazione intergovernativa. Tali conclusioni, tuttavia, potrebbero essere temperate da un uso “ponderato” della c.d. “clausola passerella” e del voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio, che andrebbe limitato ad alcuni ambiti delle politiche fiscali, ad esempio la tassazione dell’economia digitale e la lotta alle frodi, all’evasione e all’elusione fiscale (ivi, p. 876-878). In altre parole, il superamento del principio dell’unanimità sarebbe escluso con riferimento alle decisioni di politica fiscale che potrebbero avere un impatto diretto sui bilanci degli Stati membri.
Non vi è dubbio che, comunque, l’eliminazione del potere di veto dei singoli Paesi sulle iniziative legislative in materia fiscale e di risorse proprie dell’Europa possa costituire un passaggio necessario nell’ottica dell’integrazione europea. Tanto consentirebbe anche di superare lo stallo con riguardo all’accordo sulla Digital Services Tax nei tempi previsti (metà del 2021).
L’istituzione della DST potrebbe costituire una nuova fonte impositiva interamente attribuita all’Europa, che “incasserebbe” in via diretta l’extra-gettito riferibile al mercato unico europeo. Gli Stati membri, tuttavia, potrebbero difficilmente rinunciare a tali ulteriori risorse, soprattutto a fronte della attuale necessità di “fare cassa” senza gravare ulteriormente sui propri contribuenti.
Non è detto, poi, che la celerità impressa dal passaggio dalla regola dell’unanimità a quella della maggioranza qualificata sia sufficiente a concludere i lavori sulla DST: questa, così come strutturata nella proposta di Direttiva del Consiglio n. 148 del 2018, resta pur sempre molto simile ad un’imposta doganale: ne è prova la reazione degli Stati Uniti nei confronti della web tax francese che ricalca proprio l’imposta europea. Inoltre, restano da sciogliersi i nodi riguardanti numerosi aspetti dell’imposta, quali, ad esempio, i rischi di doppia imposizione dovuti all’assoggettamento delle imprese sia alla DST sia alla tassazione ordinaria dei propri Stati di residenza e la necessaria modifica dei Trattati bilaterali contro le doppie imposizioni con i Paesi extra-UE a seguito dell’introduzione del concetto di Presenza Digitale Significativa in luogo della tradizionale stabile organizzazione.
In sintesi, la necessità di rinvenire nuove risorse anche per far fronte al debito contratto per fronteggiare la pandemia da COVID-19, che fa da sfondo alla “tabella di marcia” prevista dal Quadro Finanziario Pluriennale 2021-2027, potrebbe costituire un “volano” anche per l’adozione, a breve, della Digital Services Tax; nella stessa direzione sembrerebbe andare il superamento del principio dell’unanimità in materia fiscale, come auspicato dalla Presidente von der Leyen. Ma sembra che tanto non sia ancora abbastanza.
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1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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