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Luce verde al novellato art. 20 del t. u. dell’imposta di Registro
Di Giuliano Tabet -
“Alla cara memoria di Augusto e Sandra Fantozzi”
Abstract
Per la Corte costituzionale, il novellato art. 20 del t. u. dell’imposta di Registro non si pone in contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., né l’interpretazione evolutiva del giudice remittente (Corte di cassazione) si impone come costituzionalmente necessitata. Anzi, tra le righe traspare la predilezione delle Corte costituzionale per un’interpretazione “ristretta” dell’art. 20 anche nel testo originario, giacché più sintonica con i criteri tipizzati nelle voci tariffarie, oltre che con la clausola antielusiva di cui all’art. 10 bis della legge 212/2000. La questione devoluta non investe la retroattività della novella ma si può prevedere a riguardo che, quando sarà chiamata ad occuparsene, difficilmente la Corte entrerà nel merito.
Green light to the new article 20 of the Registration Tax Act – According to the Italian Constitutional Court, the new Article 20 of the Registration Tax Act presents no conflict with Articles 3 and 53 of the Constitution. In fact, the evolutionary interpretation of the remitting judge (Italian Supreme Court) cannot be considered as constitutionally mandatory. On the contrary, between the lines, the Constitutional Court seems to prefer a “restricted” interpretation also of Art. 20 in its original formulation also, since it is considered more in line with the criteria typified in the tariff items, as well as with the anti-avoidance clause of Art. 10 bis of Law 212/2000. The judgment object does not regard the issue of retroactivity of the new article 20. However it is highly likely that, when the Court will be asked to decide on this topic, it will hardly enter into the matter.
Sommario: 1. L’ordinanza di rimessione della Corte di cassazione. – 2. Il rigetto dell’eccezione preliminare di inammissibilità. – 3. L’infondatezza della tesi del giudice remittente: l’interpretazione sostanzialistica dell’art. 20 del TUR non deve ritenersi costituzionalmente necessaria. – 4. Le questioni aperte: la conformità a Costituzione della interpretazione autentica “di secondo livello”.
1. Come a suo tempo previsto (cfr., per tutti, Fedele, La Cassazione porta alla Corte Costituzionale la questione dei collegamenti negoziali ai fini dell’imposta di registro, in Riv. dir. trib., 2020, II, 14 ss.; Tabet, Interpretativa di secondo livello e incostituzionalità della disciplina di risulta?, in Riv. dir. trib., 2020, II, 30 ss.), la Corte costituzionale, con la sentenza 158/2020, ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Cassazione con l’ordinanza 23549/2019 con riferimento al novellato art. 20 d.P.R.131/1986, quale risultante dalla “interpretazione autentica” di secondo livello disposta dagli artt. 1. c. 87 della L. n. 205/2017 e 1, c.1084 della L. n. 145/2018.
La “resistenza” del giudice di legittimità nei confronti dell’intervento legislativo traeva presumibilmente motivo dalla circostanza che la novella – prescrivendo l’irrilevanza degli elementi extra-testuali e del collegamento negoziale nella qualificazione degli atti soggetti a registrazione – aveva smentito la consolidata interpretazione evolutiva seguita sino a quel momento dalla stessa Cassazione (contra, ma isolatamente, Cass, 2054/2017), giusta la quale la formulazione originaria dell’art, 20 consentiva di attribuire rilevanza allo “scopo economico unitario” raggiunto dalle parti attraverso la combinazione e il coordinamento degli effetti giuridici dei singoli atti, disvelando in tal modo l’intrinseca natura del programma negoziale oggetto della tassazione.
Tale lettura, di tipo accentuatamente sostanzialistico, doveva considerarsi – ad avviso del giudice remittente – la sola costituzionalmente compatibile con i parametri di cui agli art. 53 e 3 Cost, i quali, ai fini dell’applicazione del tributo di registro, impongono di identificare i fatti espressivi dell’attitudine alla contribuzione tenendo conto degli effetti giuridici desumibili anche aliunde rispetto all’atto presentato alla registrazione. Pertanto, il ripristino dalla legalità costituzionale esigeva di eliminare la invalidante mutilazione della norma, quale emergeva dopo il duplice intervento legislativo.
2. Scrutinando la questione di legittimità, la Corte costituzionale giustamente respinge l’eccezione di inammissibilità, sollevata in via preliminare dalla difesa erariale in ragione di un presunto mancato sforzo interpretativo da parte del giudice a quo. Ciò in quanto limitare – come prospettato dall’Avvocatura – l’intervenuta statuizione di irrilevanza degli elementi esterni all’atto da registrare come limitata ai soli fatti o atti completamente extra-vaganti rispetto alla volontà e agli effetti immediatamente desumibili dall’interpretazione dell’atto equivale, in verità, a una interpretatio abrogans dell’intervento legislativo, in aperto contrasto con la sua effettiva ratio.
3. Venendo al punto centrale della motivazione, la Corte ha buon gioco nel rovesciare la premessa minore del sillogismo del giudice a quo: non è esatto affermare che la lettura “forte” dell’art. 20, nella versione ante-novella, dovesse ritenersi costituzionalmente necessitata. Nella scelta dei presupposti impositivi, infatti, i parametri costituzionali invocati non si oppongono a una diversa “concretizzazione” da parte del legislatore dei principi di capacità contributiva e di eguaglianza tributaria. Pertanto, dopo il duplice intervento legislativo, la disciplina di risulta, implicando la tassazione isolata del negozio, veicolato dall’atto presentato alla registrazione, rimane coerente con i principi ispiratori del tributo di registro e con i principi costituzionali.
Emerge con chiarezza che questa decisione è aderente alla consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale sotto un duplice profilo: da un lato, non spetta al giudice delle leggi stabilire quale sia la norma “vera” di fronte alle varie possibilità interpretative ricavabili dal testo; dall’altro lato, la declaratoria di incostituzionalità costituisce la extrema ratio alla quale si deve fare ricorso solo quando non si possa operare diversamente.
Questo secondo principio, la cui applicazione è stata inizialmente limitata – come è noto – alle sentenze interpretative di rigetto, ha trovato nel tempo ampia affermazione, grazie al sapiente esercizio dell’attività maieutica della Corte, la quale ha sempre più frequentemente (non solo fatto ricorso al, ma anche) imposto al giudice a quo l’utilizzo del canone dell’interpretazione adeguatrice al fine di valutare l’effettiva non manifesta infondatezza della questione che gli si prospetta. Ciò fino al punto che – a dire il vero – di questo strumento si è fatto finanche un uso eccessivo, posto che a volte i giudici della Consulta adottano un discutibile dispositivo di inammissibilità per insufficiente sforzo interpretativo del remittente, al quale viene “rimproverato” l’omessa ricerca e/o preferenza dell’interpretazione costituzionalmente conforme (Tabet, La sospensione del potere impositivo per sessanta giorni tra interpretazione adeguatrice e diritto vivente, in G.T., n. 11/2011).
Ebbene, la sentenza in commento, dopo avere precisato che rientrava appieno nella funzione nomofilattica della Cassazione l’interpretazione del previgente art. 20, esattamente rivendica alla Corte costituzionale il compito di stabilire se detta interpretazione fosse l’unica consentita dai parametri costituzionali invocati e, quindi, se l’esclusione della rilevanza, ai fini della qualificazione dell’atto, degli elementi extra-testuali disposta dal legislatore con gli interventi normativi del 2017 e 2018 si ponga in contrasto con tali parametri.
Di fronte alla “insofferenza” della Cassazione nei confronti di un intervento legislativo che ai giudici di legittimità proprio non piace, anche perché smentisce sotto un altro profilo il diritto vivente, ove si era unanimemente affermata la natura non interpretativa della modifica al testo dell’art. 20 apportata nel 2017 (cfr. Tabet, Il collegamento negoziale tra qualificazione ed abuso, in Rass. Trib, 2018, 227; Cipollina, Curvature nel tempo e interpretazione degli atti nell’imposta di registro, in Riv. dir. fin., 2018, II, 29 ss.), la Corte esercita la sua funzione moderatrice, salvando il testo scrutinato.
Il rigetto non è fondato questa volta sulla re-interpretazione della disposizione denunciata, ma sulla conformità a Costituzione della disciplina di risulta, dopo la intervenuta correzione legislativa: escluso che la lettura del remittente fosse l’unica conforme a Costituzione, il suo ripristino, dopo la modifica imposta dallo ius superveniens, non è costituzionalmente necessitato. Lo schema argomentativo è dunque logicamente invertito rispetto a quello tradizionale, in quanto nel caso di specie la questione era stata sollevata nei confronti della “estromissione” legale della interpretazione indicata dal giudice a quo. Cionondimeno, il risultato è comunque confermativo della ormai tendenziale prevalenza dell’interpretazione conforme sul diritto vivente.
Fermo restando quanto sopra osservato, non può peraltro sfuggire all’osservazione di un lettore attento che due fugaci passaggi lasciano trasparire quale fosse la interpretazione del testo originario dell’art. 20 che la Corte costituzionale ritiene di prediligere. Si afferma, infatti, che: 1) solo estromettendo gli elementi tratti aliunde il criterio di qualificazione e di sussunzione dell’atto risulta omogeneo rispetto a quello tipizzato nelle singole voci della tariffa (in questi termini già Tabet, op.ult.cit., 2) l’interpretazione evolutiva sostenuta dalla Cassazione provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, ponendosi in contrasto con la clausola antielusiva introdotta dall’art. 10 bis della legge 212/ 2000.
4. Fin qui la sentenza della Corte, la quale non si pronuncia, non essendo stata la questione sollevata dall’ordinanza della Cassazione, sulla conformità a Costituzione delle modalità attraverso cui è stata imposta l’efficacia temporale ex tunc della nuova formulazione dell’art. 20. Come si ricorderà, infatti, l’efficacia “retroattiva” dell’intervento è discesa da una legge interpretativa di secondo livello (art. 1, c. 1084 della L. n. 145/2018) che ha a sua volta affermato il carattere interpretativo della modifica legislativa dell’art. 20 disposta dall’art. 1, c. 87 della L. n. 205/2017.
Pur non essendo stata oggetto della questione sollevata dalla Corte di cassazione, la problematica in esame è però oggetto di una distinta e ulteriore questione pendente di fronte alla Consulta, sollevata stavolta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna (ord. n. 62/4/2020), seppure in via subordinata rispetto al dubbio sollevato nei confronti del nuovo testo dell’art. 20 sotto il profilo sostanziale.
Poiché gli argomenti spesi dalla C.T. bolognese per sollevare la questione principale riflettono fedelmente quelli già posti a base dell’ordinanza della Cassazione e ormai rigettati nel merito dalla Corte, vale la pena chiedersi con i giudici felsinei se, una volta accertato che la riformulazione dell’art. 20 intervenuta nel 2017 è conforme ai parametri costituzionali, è anche legittima la previsione dell’efficacia retroattiva della modifica stessa.
Pur condividendo lo scrupolo della Commissione, non ritengo che una nuova pronuncia della Corte possa modificare il segno della precedente.
E’ certamente esatto il dato da cui muove l’ordinanza, la quale premette che la creazione di norme effettivamente innovative “mascherate” da norme interpretative con efficacia retroattiva non è questione decisiva ai fini della incostituzionalità delle stesse.
La progressiva dilatazione del confine tra retroattività e pseudo-retroattività (o retrospettività) ha reso ormai superflua l’indagine sulla effettiva natura dello ius superveniens, posto che anche una legge falsamente interpretativa può essere utilizzata per attribuire effetti per il passato alla linea di politica del diritto giudicata dal legislatore più opportuna. In altri termini, non c’è un uso distorto dell’interpretazione autentica autonomo o diverso dall’uso distorto della retroattività da parte di una legge innovativa.
E’ però assai poco probabile che, nel caso di specie, la questione di costituzionalità venga accolta – come prospettato nell’ordinanza – sotto il diverso profilo della violazione del principio di ragionevolezza che la novella del 2018 avrebbe determinato nel disporre l’efficacia retroattiva della modifica del 2017.
Vero è che dopo la modifica del testo dell’art. 20, avvenuta nel 2017, la giurisprudenza della Cassazione era unanime nell’attribuire effetti ex nunc alla più ridotta formulazione dell’art. 20 e che non esisteva, dunque, una situazione di contrasto interpretativo al quale porre rimedio. Vero è anche che l’intervento legislativo non era prevedibile e quindi aveva il carattere della novità; né esistevano motivi di interesse generale per attribuire valore interpretativo e quindi retroattivo alla modifica del testo unico del registro. Tuttavia, questi argomenti si scontrano con la giurisprudenza della Consulta che da tempo è orientata nell’affermare che il potere di interpretazione di una legge non è riservato dalla Costituzione in via esclusiva al giudice; né tanto meno è sottratto alla potestà normativa degli organi legislativi, quando la scelta imposta dalla legge rientra tra le possibili varianti del testo originario. Viene anzi persino riconosciuto che la presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di Cassazione non costituisce un ostacolo all’introduzione di una norma retroattiva, trattandosi soltanto di un’opzione interpretativa divergente dalla linea di politica del diritto perseguita dal legislatore (ex pluribus, Corte cost., nn. 586/1990, 480/1992, 387/1994, 311/1995, 525/2000).
Certo, l’intervento del legislatore del 2018, essendo contraddistinto da una disposizione interpretativa di secondo livello che ha sancito la natura interpretativa di una modifica dell’anno precedente, è stato un intervento “a gamba tesa” contro la Cassazione che potrebbe, in teoria, rinverdire il mai sopito problema dell’eccesso di potere legislativo. Ma posto che esso investe il delicatissimo equilibrio di due poteri dello Stato, il tema appare troppo spinoso per pensare che la Consulta possa affrontarlo, anziché eluderlo tramite una decisione in rito. E’ insomma prevedibile che questa volta la Corte – per riprendere una felice espressione di un illustre Maestro – volentieri “chiuderà un occhio”.
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