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Fallimento e variazioni IVA: in caso di “non pagamento” definitivo la rettifica è d’obbligo!
Di Susanna Cannizzaro -
(commento a/notes to: Corte di Giustizia UE, causa C-146/19, sentenza 11 giugno 2020)
Abstract
La Corte CGUE enuclea la nozione di non pagamento “definitivo” e “non definitivo” disciplinata rispettivamente dai par. 1 e 2 dell’art. 90 della direttiva 2006/112/CE. Nel primo caso la riduzione della base imponibile rimane un diritto laddove il soggetto possa provare la definitiva irrecuperabilità del credito, nella seconda ipotesi lo Stato membro può legittimamente introdurre delle limitazioni alla variazione IVA, ma non negare del tutto la possibilità di ridurre la base imponibile.
Bankruptcy and VAT variations: in the event of definitive “non-payment”, the reduction is mandatory! – The EU Court of Justice explains the difference between “definitive” and “non definitive” non payment regulated respectively by paragraphs 1 and 2 of art. 90 of Directive 2006/112/EC. In the first case, there is a right to decrease the tax base when the credit irrecoverability can be proved, in the second case the Member States legitimately may introduce limitations to the VAT variation, but they can’t entirely deny the possibility to reducing tax base.
Sommario:1. Il caso e le questioni pregiudiziali. – 2. La pronuncia. – 2.1 La nozione di non pagamento “definitivo” e “non definitivo”. – 2.2 Le condizioni stabilite dagli Stati membri ai sensi dell’art. 90 par. 1: i limiti. – 2.3 L’efficacia diretta dell’art. 90 par. 1. – 3. Conclusioni
1. Dalla Corte di Giustizia UE provengono di recente chiarimenti assai rilevanti sull’interpretazione dell’art. 90 della Direttiva IVA che, a livello sovranazionale, disciplina la fattispecie della variazione IVA nelle diverse ipotesi in cui l’operazione imponibile venga meno in tutto o in parte.
Vale la pena sintetizzare il “fatto” e le questioni pregiudiziali sollevate dal giudice dello Stato membro poiché la disciplina sottoposta al vaglio di compatibilità pone, per certi aspetti, problematiche simili a quelle che vengono in considerazione nel nostro ordinamento.
In base alla “legge sull’imposta sul valore aggiunto” vigente in Slovenia (ZDDV art.39) il soggetto passivo può rettificare in diminuzione l’importo dell’IVA addebitata in fattura e non riscossa a causa del fallimento del debitore laddove non sia stato pagato in tutto o in parte il corrispettivo e la procedura di fallimento o il concordato preventivo si siano chiuse con pronuncia giurisdizionale definitiva (par. 3). Ma, secondo la disciplina IVA slovena, a prescindere dalla chiusura, il soggetto passivo, in caso di fallimento o assoggettamento a concordato preventivo del proprio debitore può rettificare l’IVA in relazione ai crediti che egli abbia insinuato al passivo (par. 4)
Nel caso di specie il soggetto passivo aveva proceduto a rettificare l’iva al termine della procedura concorsuale, pur non avendo insinuato al passivo il proprio credito. Atteso che nella disciplina interna la mancata insinuazione comporta l’estinzione, il credito risultava definitivamente irrecuperabile.
L’autorità fiscale slovena, in sede di verifica, aveva provveduto a recuperare l’IVA oggetto di rettifica ritenendo che dovessero essere soddisfatte entrambe le condizioni previste dall’Art. 39 del ZDDV, ossia l’insinuazione al passivo e la chiusura della procedura concorsuale.
La questione, oggetto di un contenzioso risoltosi in prima battuta a favore dell’autorità fiscale, è approdata alla Corte Suprema la quale, sospendendo il giudizio, ha sottoposto al Giudice unionale tre questioni pregiudiziali in merito alla corretta interpretazione dell’art. 90 della Direttiva IVA. Con tale disposizione il legislatore sovranazionale da un lato individua i casi nei quali la base imponibile è debitamente ridotta e, fra questi, annovera anche il “non pagamento totale o parziale” (art. 90 par. 1); d’altro canto accorda, proprio laddove ricorra il caso appena menzionato, la facoltà di introdurre deroghe al diritto di operare la rettifica consentendo dunque agli Stati membri di limitarlo (art. 90 par. 2).
Il giudice di legittimità sloveno, nel sollevare le questioni pregiudiziali, muove dal presupposto che la disciplina domestica non annoveri affatto il mancato pagamento tra le ipotesi che, di regola, giustificano la riduzione della base imponibile (art. 39, par. 2 ZDDV, che richiama infatti solo la revoca dell’ordinativo, la restituzione del bene ovvero la riduzione del prezzo successivamente all’esecuzione della fornitura), ciò in attuazione della facoltà di deroga accordata dall’art. 90 par. 2. In Slovenia, quindi, il diritto alla riduzione previsto dalla direttiva (art. 90 par. 1) sarebbe di regola escluso in caso mancato pagamento ancorché definitivo (art. 39, par. 2 ZDDV), ma ammesso in presenza di determinate condizioni (art. 39, par. 3 ZDDV). In sostanza, il legislatore tributario sloveno non solo si sarebbe avvalso della possibilità di introdurre deroghe al diritto di ridurre la base imponibile per il caso di mancato pagamento, ma avrebbe anche individuato delle eccezioni nell’ambito della deroga, subordinandone l’operatività al rispetto di determinate condizioni.
Ed è proprio in relazione a questo punto che il giudice di legittimità sloveno pone il dubbio di compatibilità della previsione interna rispetto alle prescrizioni sovranazionali: il mancato pagamento definitivo, in base al sistema interno, non consentirebbe sempre il diritto alla riduzione dell’IVA, ma solo laddove il soggetto passivo soddisfi talune condizioni supplementari volte a dar prova di aver diligentemente agito per la riscossione del proprio credito assicurando così il pagamento dell’IVA allo Stato.
Il giudice di legittimità sloveno chiede, in altri termini, se l’art. 90 della direttiva IVA, consenta l’introduzione di una previsione interna in base alla quale la definitività del mancato pagamento possa essere riconosciuta e possa fondare il diritto alla riduzione della base imponibile solo in presenza di certe circostanze individuate (per legge) dallo Stato membro che escludano la “negligenza” del soggetto passivo in relazione al recupero del credito; domanda altresì se sia possibile ugualmente accordare il predetto diritto alla riduzione anche ove tale soggetto possa comunque provare che operando “diligentemente” non avrebbe potuto evitare che il credito divenisse definitivamente irrecuperabile.
In ultimo la Corte Suprema solleva una ulteriore questione per l’ipotesi che la normativa interna risulti incompatibile con la disciplina sovranazionale: si chiede se il giudice interno possa disapplicare le previsioni domestiche ed applicare direttamente le disposizioni di cui all’art. 90 della direttiva.
2. La pronuncia della Corte di Giustizia in relazione alla questioni poste appare assai apprezzabile non solo perché chiarisce il significato e la portata dell’art. 90 della direttiva ma anche in quanto colloca detta previsione nel quadro dei principi generali che presiedono all’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto, riconoscendo particolare rilevanza al principio di neutralità del tributo e al principio di proporzionalità.
2.1. In primo luogo il giudice unionale chiarisce quale sia la ratio dell’art. 90 par. 2 della direttiva. Tale previsione è volta ad ovviare ai casi in cui, in relazione alle circostanze concrete esistenti in ciascuno Stato membro il non pagamento del corrispettivo dovuto per l’operazione imponibile sia difficile da accertare o risulti soltanto temporaneo.
In altre pronunce la Corte aveva già affermato che il non pagamento «è caratterizzato da un’incertitudine implicita nella sua natura non definitiva» (causa C 404/16 punto 30). La nozione di operazione non pagata presente nell’art. 90 della Direttiva, dunque, riguarda quelle fattispecie ove l’incertezza può rimanere indissolubile. Ed è proprio in relazione a queste ipotesi che interviene la limitazione del diritto alla riduzione della base imponibile di cui al par. 2 dell’art. 90.
Per contro – pare affermare la pronuncia in commento richiamando un altro suo precedente (CGUE, 24 ottobre 2019, causa C- 292/19) – una situazione caratterizzata dalla riduzione definitiva degli obblighi del debitore nei confronti del suo creditore non può considerarsi come “non pagamento” ai sensi dell’art. 90 par. 2, ma va annoverato fra le ipotesi di cui al paragrafo 1 dello stesso articolo 90 e lo Stato membro deve, in tali casi, necessariamente consentire al soggetto passivo di dimostrare che il suo credito sia divenuto definitivamente irrecuperabile.
La corte sembrerebbe dunque enucleare la nozione di “non pagamento definitivo” disciplinata dal par. 1 dell’art. 90 e quella di “non pagamento non definitivo” contemplata dal par. 2 dello stesso articolo. Nel primo caso la riduzione della base imponibile rimane un diritto laddove il soggetto possa provare la definitiva irrecuperabilità del credito, nella seconda ipotesi lo Stato membro può legittimamente introdurre delle limitazioni alla variazione IVA tali per cui i soggetti passivi non possono far valere il medesimo diritto.
In merito alla necessità di operare una tale distinzione gioca un ruolo fondamentale il principio secondo cui la base imponibile è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto da colui che ha emesso fattura e l’Erario non può riscuotere a titolo di Iva un importo superiore a quello effettivamente percepito da tale soggetto (cfr., fra le molte, CGUE, 26 gennaio 2012, causa C-588/10, punti 26 e 27)
2.2. Un ulteriore passaggio della pronuncia risulta assai significativo per individuare la portata dell’art. 90 par. 1 e i limiti cui devono attenersi gli Stati membri nell’imporre ai soggetti passivi delle condizioni per l’esercizio del diritto alla riduzione della base imponibile (l’art. 90 par. 1 prevede testualmente che In caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri).
Sotto questo profilo la Corte UE, fermo restando il riconoscimento di certo margine di discrezionalità per gli Stati Membri nel fissare le richiamate condizioni, invoca chiaramente il principio di proporzionalità sostenendo che i vincoli imposti ai soggetti passivi devono risultare strettamente necessari al raggiungimento della finalità cui le limitazioni stesse sono dirette, senza possibilità di intaccare minimamente uno dei cardini del sistema IVA: la neutralità. Ne deriva che la disciplina interna la quale preveda a carico del soggetto passivo oneri tali da escludere il diritto alla variazione della base imponibile, pur se sia possibile provare che il credito è divenuto definitivamente irrecuperabile, non può risultare compatibile con l’art. 90, par. 1 della Direttiva, violando appunto il principio di neutralità.
Nel caso della disciplina slovena, pur riconoscendo che l’obbligo di insinuazione al passivo contribuisce a garantire la corretta riscossione dell’IVA evitando l’evasione ed il rischio di perdita di entrate fiscali, la Corte di Giustizia afferma che ove l’adempimento non sia stato posto in essere non può presumersi una frode ai danni dello Sato e non può negarsi sistematicamente il diritto alla variazione dell’imponibile. Ciò comporterebbe un travalicamento dei limiti strettamente necessari per raggiungere l’obiettivo posto. Per non incorrere nella violazione del principio di proporzionalità è necessario dunque garantire al soggetto passivo la facoltà di provare che, pur rispettando la condizione imposta dallo Stato membro, il mancato pagamento sarebbe comunque divenuto definitivo.
2.3. L’ultima questione sulla quale la Corte si pronuncia non appare meno rilevante delle altre già trattate.
Sappiamo bene che l’IVA è un’imposta armonizzata, che trova la sua origine e la sua fonte in direttive comunitarie. Le previsioni delle direttive in materia di IVA sono self executing (ossia direttamente applicabili nell’ordinamento interno), in quanto sufficientemente circostanziate e precise e incondizionate.
Nel caso di specie il dubbio sull’efficacia diretta dell’art. 90 in questione poteva ragionevolmente porsi. Si tratta infatti di una previsione che lascia, per la sua attuazione, un certo margine di discrezionalità agli Stati membri.
Anche su questo punto la Corte assume una posizione chiara e radicale: nel caso non sia possibile interpretare le previsioni interne conformemente al diritto sovranazionale, le prescrizioni della direttiva devono essere applicate direttamente e di contro disapplicata la disciplina interna che con la direttiva stessa risulti in contrasto. Il riconoscimento di un certo spazio di azione per gli Stati membri non inficia affatto il carattere preciso ed incondizionato dell’obbligo con la conseguenza che s’impone l’applicazione diretta della disposizione unionale con un effetto abrogante della disciplina vigente negli Stati membri frutto dei “margini di manovra” concessi dalla direttiva stessa. E ciò val quanto dire spazi assai ridotti per il legislatore interno nel perseguimento di pressanti esigenze di salvaguardia delle somme già incassate.
3. Non c’è dubbio che la pronuncia esaminata sia da salutare con grande favore, atteso che negli ordinamenti interni (compreso il nostro) le problematiche relativa alle variazioni IVA in caso di fallimento del fornitore siano diventate annose anche a causa della strenua persistenza dell’amministrazione finanziaria nel sostenere interpretazioni volte prevalentemente a preservare il gettito già acquisito.
La pronuncia in esame non è la prima ad inaugurare un trend positivo per la risoluzione dei richiamati problemi. Il medesimo approccio, maggiormente garantista dell’esigenza di applicare l’imposta secondo i sovraordinati principi che si ricavano dalla Direttiva, è stato propugnato in tempi relativamente recenti in un’altra pronuncia che interessava la disciplina Italiana (CGUE, 23 novembre 2017, causa C 246/16) e si riferiva alla previsione interna dalla quale l’amministrazione finanziaria ricava la necessità di attendere la chiusura della procedura concorsuale al fine di operare la variazione IVA.
In quella sede la CGUE ha affermato espressamente «che lo stesso fine potrebbe essere perseguito accordando parimenti la riduzione allorché il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque». «Una simile modalità sarebbe ugualmente efficace per raggiungere l’obiettivo previsto ma, al contempo, meno gravosa per il soggetto passivo, il quale assicura l’anticipo dell’IVA riscuotendola per conto dello Stato» (punto 27).
Anche in quell’arresto emerge dunque l’idea che la “ragionevolezza” della disciplina domestica, relativa ai limiti all’esercizio del diritto di ridurre la base imponibile o alle condizioni per la riduzione in date ipotesi, debba essere valutata alla luce del principio di proporzionalità e di neutralità del tributo indipendentemente dal fatto che la rimodulazione della posizione debitoria, che dovrebbe dar luogo alla riduzione, sia definitiva o ancora incerta. E ciò in quanto l’incertezza nella richiamata modulazione non può ritenersi circostanza idonea a escludere totalmente la riduzione. In altri termini, Per «far fronte all’incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura», la possibilità di limitare il diritto alla detrazione «non può estendersi al di là di tale incertezza», tanto da condurre lo stato membro a negare in toto la possibilità di ridurre la base imponibile (cfr. CGUE C-246/16).
Pare evidente che le valutazioni di cui si è appena trattato siano naturalmente affidate alle autorità nazionali (non solo giurisdizionali ma anche amministrative) le quali saranno tenute a verificare che le condizioni per operare la variazione nel caso di mancato pagamento siano proporzionate, con la conseguenza che la riduzione dovrà essere riconosciuta anche in assenza delle condizioni fissate dalla disciplina interna, laddove ciò comporti un minor aggravio per il soggetto passivo ed eviti violazioni del principio di neutralità.
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