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Prelievo fiscale e contributivo sul lavoro estero: quando un criterio comune provoca crisi di rigetto
Di Francesco Crovato -
Abstract
In un precedente contributo in questa rivista ci siamo occupati del rinvio alla disciplina fiscale per il calcolo dell’imponibile contributivo, che avviene direttamente senza filtri, trapiantando direttamente le scelte fiscali anche nel sistema contributivo. Quando una disciplina tributaria viene recepita in ambiti diversi, espone però al rischio di generare crisi di rigetto e incertezze interpretative nel sistema che la accoglie. Un esempio significativo è quello del lavoro estero su cui il contributo si sofferma cercando di prospettare soluzioni alla situazione di stallo generatasi.
Taxation and social security on work overseas: when a common criteria causes reject crisis. – In our previous contribution in this magazine, we analyzed handling social security calculation through fiscal discipline to figure out taxable contribution, which takes place straight, unfiltered, transplanting the fiscal selections also into the contribution system. When a fiscal discipline is adopted in different areas, it means exposure to risk of generating interpretation issues. A significant example is work offshore analyzed by our contribution trying to introduce solutions to generated stalemate.
Sommario:1. Le incertezze di ritorno sulla disciplina del lavoro estero (art. 51, comma 8-bis): un riflesso della diversità di punti di vista nei due ambiti, previdenziale e fiscale. – 2. La linea di tendenza della giurisprudenza. – 2.1 Le motivazioni “apparenti” e quelle “reali”. – 3. Le ricadute sulle imprese. – 4. Una proposta per il futuro.
1. Abbiamo visto in un precedente contributo in questa rivista come la tendenziale unificazione delle basi imponibili fiscale e previdenziale sia avvenuta nel nome della semplificazione degli adempimenti delle imprese (Crovato, Retribuzioni imponibili fiscali e previdenziali: l’unione fa la forza?). Quando però un segmento di una disciplina viene recepito pressoché integralmente in ambito diverso, senza sorvegliarne la compatibilità con l’evolversi della normativa di riferimento, espone al rischio di generare crisi di rigetto nel sistema che la accoglie.
E’ quanto accaduto per il lavoro estero, tema sul quale pochi anni dopo la riforma dei redditi di lavoro dipendente (D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314) fu introdotta una nuova disposizione, l’art. 51, comma 8-bis, senza che sul versante previdenziale venisse in alcun modo prevista una disposizione per neutralizzarla.
Fin da subito sul versante previdenziale si sono così sviluppati due orientamenti diametralmente opposti. A ben vedere, si tratta di orientamenti che risentono della profonda diversità di punti di vista nei due ambiti, previdenziale e fiscale. Se la rilevanza della retribuzione è collegata a quello che prima di tutto è un diritto del lavoratore, la retribuzione convenzionale (stabilita in base a tabelle ministeriali che fanno riferimento ai minimi da CCNL), normalmente inferiore rispetto alla retribuzione effettiva, viene percepita in termini di penalizzazione della posizione previdenziale del dipendente. Al di là delle singole motivazioni di cui diremo fra breve, credo sia proprio la profonda diversità di prospettive dei due settori (su questo punto si consenta di rinviare a Crovato, Il lavoro dipendente nel sistema delle imposte sul reddito, Padova, 2001, 91 ss., e al precedente articolo sul tema in questa rivista) a spiegare buona parte delle incertezze che si sono generate negli ultimi 20 anni sulla disciplina del lavoro estero, tanti ne sono passati da quando il regime è entrato in vigore.
La posizione assunta dall’Inps (espressa nella circ. 10 aprile 2001, n. 86 basata su una precedente nota del Ministero del lavoro e della previdenza sociale, 19 gennaio 2001, prot. 10291/P6Ii 158) ritiene applicabile la disposizione sul lavoro estero solamente all’ambito fiscale. Di conseguenza le contribuzioni previdenziali dovute per i dipendenti inviati in Paesi europei o legati all’Italia da accordi di sicurezza sociale – casi in cui è operante la legislazione previdenziale italiana – dovrebbero sempre e comunque essere commisurate alle retribuzioni effettive. Le retribuzioni convenzionali rimarrebbero circoscritte ai lavoratori impiegati in Paesi extracomunitari non legati all’Italia da un accordo previdenziale, ambito in cui sin dal 1987 (si veda l’art. 4, comma 1, L. 31 luglio 1987, n. 317) costituiscono base di riferimento per il calcolo contributivo. Solo ai fini fiscali, ricorrendone i presupposti, le retribuzioni convenzionali troverebbero applicazione nei confronti di dipendenti inviati in qualsivoglia Paese estero.
In verità, si è detto che a partire dal 1° gennaio 1998 le basi imponibili fiscale e previdenziale sono armonizzate e, salvo poche eccezioni fra cui non rientrano gli emolumenti per il lavoro estero, i criteri di quantificazione sono identici. Questa conclusione si ricava dalla lettura dell’art. 12, L. 30 aprile 1969, n. 153, che al secondo comma stabilisce inequivocabilmente che “per il calcolo dei contributi di previdenza e assistenza sociale si applicano le disposizioni contenute nell’art. 51 del TUIR, salvo quanto specificato nei seguenti commi”. La lista delle eccezioni è dunque tassativa.
Allo stato attuale della legislazione, nessuna eccezione è prevista con riferimento alla previsione dell’art. 51, comma 8-bis, il cui contenuto precettivo dovrebbe conseguentemente essere esteso anche all’area della contribuzione previdenziale. Se il legislatore avesse inteso limitare l’ambito di applicazione della nuova disciplina solo all’ambito tributario, avrebbe verosimilmente dettato una disposizione autonoma, come avveniva nel regime previgente, ove il lavoro estero era regolamentato in una disposizione a parte del Tuir. Una tale conclusione si inscrive, tra l’altro, armonicamente nel programma di “equiparazione” delle nozioni di retribuzioni assoggettabili al prelievo fiscale e contributivo che ha ispirato la legge delega 23 dicembre 1996, n. 662 e il successivo decreto delegato (D.Lgs. n. 314/1997). È significativo anzi che quest’ultimo provvedimento avesse abrogato l’esenzione fiscale sui redditi esteri (art. 3 Tuir), sostituita successivamente con le retribuzioni convenzionali del comma 8-bis dell’art. 51, anche per attuare il principio dell’armonizzazione delle disposizioni fiscali e previdenziali sul lavoro dipendente! Si leggano in questo senso le ragioni addotte nella relazione tecnica al provvedimento di modifica in cui – come anticipato – viene precisato che la norma abrogata aveva creato un notevole contenzioso e rappresentava un elemento di incoerenza rispetto alla normativa previdenziale.
Si consideri, tra l’altro, come nessuno dubiti che la disposizione immediatamente precedente – il comma 8 dell’art. 51 sugli assegni di sede e le altre indennità percepite per servizi prestati all’estero dai dipendenti – abbia effetto sia ai fini tributari, sia a quelli contributivi. A molte imprese è sembrato dunque legittimo determinare anche l’imponibile contributivo dei lavoratori inviati in Paesi europei, o convenzionati con l’Italia, in base alla retribuzione convenzionale. Una lettura aderente al dato normativo non dovrebbe infatti lasciare dubbi.
2. La linea di tendenza della giurisprudenza appare comunque ormai abbastanza consolidata nel ritenere che, nel caso del lavoro estero, le due basi (previdenziale e fiscale) debbano invece rimanere distinte. La questione è divenuta ancor più urgente e attuale a seguito della sentenza della Corte di Cassazione, 6 settembre 2016, n. 17646, con la quale la Corte ha accolto la tesi dell’Inps, negando l’applicabilità della base imponibile convenzionale, usualmente inferiore all’effettiva, per i lavoratori che prestano la loro opera in Paesi convenzionati con l’Italia in materia previdenziale. Seguita dalla recente Corte di Cassazione, sez. lav., 30 maggio 2018, n. 13674, che ha confermato l’orientamento.
2.1. Non entriamo se non per un breve approfondimento nelle motivazioni previdenziali della sentenza. Alcune in parte condivisibili. Il riferimento ai 183 giorni previsto nella norma fiscale “trova ed esaurisce la sua ragion d’essere nel campo fiscale, in quanto è legato al concetto di “residenza fiscale” delle persone fisiche ai sensi dell’art. 2, comma 2, Tuir, mentre perde ogni significato se trasportato nel campo previdenziale dove il concetto di “residenza” non rileva” (così scrivono i giudici della Corte di Cassazione, n. 13674/2018 citata). Il che determinerebbe una disparità di trattamento, irragionevole ai fini previdenziali, tra lavoratori assoggettati al regime previdenziale italiano che soggiornano all’estero per periodi inferiori o superiori a quello indicato dalla norma fiscale, dove il limite temporale è giustificato da ragioni specifiche.
Il requisito temporale dei 183 giorni non ha però che nulla a che vedere con l’analogo parametro utilizzato dal Tuir per la residenza fiscale (come scrive invece la Cassazione nella motivazione), che anzi la disposizione sul lavoro estero (art. 51, comma 8-bis) dà per presupposta; altrimenti le retribuzioni convenzionali neppure si applicherebbero. Nella disposizione sul lavoro estero, il requisito temporale sembra piuttosto collocarsi nel quadro di un più complesso sistema che tiene conto delle disposizioni convenzionali contro le doppie imposizioni (fiscali), secondo cui il dipendente che soggiorna nello Stato estero per non più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi può – in presenza di altre condizioni – essere tassato solo nello Stato di residenza. Sul piano fiscale la disciplina interna sul lavoro estero si coordina e si innesta insomma su quella del diritto convenzionale, subentrando quando quest’ultima non può più essere applicata (Crovato, Il lavoro dipendente transnazionale, in AA.VV., a cura di Carpentieri, Lupi, Stevanato, Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003). In questo modo, se il dipendente rimane residente in Italia e lavora nello Stato estero per non più di 183 giorni, in base alle Convenzioni contro le doppie imposizioni sarà tassato soltanto in Italia sulla retribuzione effettiva; se invece svolge attività nel Paese estero per più di 183 giorni (sempre rimanendo residente), sarà assoggettato a imposizione in Italia e nello Stato estero, ma l’Italia utilizzerà come base imponibile la retribuzione convenzionale, accordando naturalmente il credito per le imposte pagate all’estero. Dunque, il requisito dei 183 giorni ha un significato ben preciso sul piano tributario e rappresenta in effetti un corpo estraneo per il sistema previdenziale. Un esempio lampante di come una norma tributaria, scritta pensando a un ambito specifico del diritto e alle sue tematiche di fondo, possa provocare irrazionalità se trapiantata senza filtri nel diverso settore che ad essa in generale rinvia. Su questo punto la Cassazione ha dunque sicuramente ragione, ma si tratta solo di una considerazione generale che non sembra trovare riscontro nelle scelte adottate in concreto a livello legislativo.
Altre motivazioni delle sentenze tuttavia non sono affatto convincenti (le critiche sono state forti anche in ambito previdenziale: si veda per tutti COSTA, Criteri di individuazione della base imponibile ai fini contributivi nel distacco transnazionale (Corte di cassazione, sezione lavoro, 6 settembre 2016, n. 17646), in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2016, 783 ss. e la dottrina ivi citata, nonché il più recente Lavoratori transnazionali e retribuzioni convenzionali ai fini previdenziali, in Diritto & Pratica del Lavoro, 2018, 1924 ss.; per i dubbi della dottrina tributaria sull’interpretazione restrittiva del Ministero del lavoro e dell’INPS, si vedano – prima delle sentenze della Cassazione – AZZOLLINI, Il reddito di lavoro dipendente svolto all’estero, in Il fisco, 2001, 26, 8939; IORIO, La tassazione del lavoro dipendente svolto all’estero, in Corr. Trib., 2002, 14, 1218 ss.; REVELANT, Il lavoro dipendente all’estero tra diritto interno e normativa convenzionale, in Corr. Trib., 2001, 3547 ss.; CARDELLA, Il punto sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, in Rass. trib., 2003, 894 ss.; DELLI FALCONI-MARIANETTI, Fissati i livelli di retribuzione convenzionale per il lavoro prestato all’estero, in Corr. Trib., 2006, 12, 925-926; STIZZA, Il quadro normativo relativo ai redditi di lavoro dipendente “transnazionale”, in E. Della Valle, Perrone L., Sacchetto, Uckmar, a cura di, La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari, Padova, 2006, 466 ss.). E sembrano più ispirate alla necessità di salvaguardare il finanziamento del sistema previdenziale, citando tra l’altro esplicitamente questa esigenza, che al dettato normativo.
Per il resto infatti la decisione si fonda sull’argomentazione secondo cui l’equiparazione della definizione di reddito di lavoro dipendente ai fini fiscali e previdenziali deve essere operata “ove possibile”, richiamando l’indicazione del legislatore delegante. Il che escluderebbe secondo la Corte “la natura recettizia del rinvio alle disposizioni del Tuir a fini previdenziali, occorrendo invece esaminare la compatibilità con il sistema previdenziale delle modifiche di volta in volta introdotte ai fini fiscali”: così ancora la ricordata sentenza del 2018.
La sentenza omette invece di far riferimento a quelle che sono state le scelte effettive operate dal legislatore nel decreto delegato e negli anni successivi. Le indicazioni legislative in questo senso sembrano chiare: come anticipato, nell’elenco tassativo delle esclusioni dal rinvio alla disciplina fiscale non è stata inserita quella del lavoro estero. Piaccia o meno questa è la scelta: l’equiparazione sul punto non soffre eccezioni.
La tesi della Cassazione genererebbe, tra l’altro, incertezze interpretative a non finire perché occorrerebbe verificare sempre se le singole disposizioni fiscali dell’art. 51 Tuir siano compatibili con il sistema previdenziale, prima di applicarle anche a questo ambito. Ciò, oltre a non trovare riscontro nel dato normativo (eventuali deroghe sono tassative e devono quindi essere individuate per legge), contrasta apertamente con l’esigenza di semplicità che ha ispirato la riforma.
3. Sottolineiamo solo in aggiunta che il costo del lavoro per le imprese italiane con commesse estere crescerebbe in modo sensibile, rendendo il lavoro italiano all’estero ancor meno competitivo. I pacchetti retributivi per l’estero comprendono infatti numerosi benefit e indennità legati all’assignment estero (assorbiti ai fini fiscali dalle retribuzioni convenzionali) su cui si dovrebbe applicare un’aliquota contributiva che può raggiungere anche il 30 percento, molto più alta di quella di altri Paesi. Normalmente il pacchetto retributivo si incrementa per effetto dell’invio all’estero; ad esempio, vengono generalmente erogati ai dipendenti alcuni benefit in natura come l’alloggio, la scuola per i figli, rientri aerei, trasporto di familiari e cose, oltre a indennità in denaro. Tutti questi elementi non verrebbero assoggettati a contributi se fossero applicate le retribuzioni convenzionali.
Il problema riguarda in particolare la base imponibile previdenziale dei lavoratori italiani impiegati in Paesi con i quali l’Italia ha stipulato accordi in materia previdenziale (ad esempio, tutta l’Unione Europea, USA, Brasile, per menzionarne alcuni). Il rischio è che l’Inps, forte della sentenza, pretenda contributi sulla base imponibile effettiva scoraggiando il distacco di lavoratori italiani all’estero e favorendo forme diverse di localizzazione all’estero della manodopera (sostituendo al personale italiano, personale europeo di altra provenienza) o con la creazione di global employment companies sparse per il mondo: a questa tendenza già ampiamente diffusa in molti settori d’impresa, sarà dedicato su questa rivista un prossimo articolo di questo ciclo tematico.
4. Non è facile trovare una soluzione a questa situazione di stallo perché dopo 20 lunghi anni di incertezze la situazione è molto variegata, un po’ come avvenuto per la fiscalità delle imprese con principi contabili internazionali, dove peraltro si è intervenuti con maggior tempestività.
Un’interpretazione autentica che confermi l’applicabilità delle retribuzioni convenzionali anche all’ambito previdenziale si scontrerebbe con l’orientamento dell’Inps e la sentenza della Cassazione, oltre che con i comportamenti di quella parte delle imprese italiane che si sono adeguate alla posizione dell’Inps e, a quel punto, potrebbero chiedere rimborsi all’istituto previdenziale.
Al tempo stesso, è evidente che, per come è stata formulata, la norma sul lavoro estero ha indotto molte altre imprese ad applicare la base imponibile convenzionale, nonostante le circolari Inps contrarie, in un contesto caratterizzato da notevole incertezza normativa sin dal 2001 e da prassi diverse in uso nelle imprese italiane. Ricordiamo, ad esempio, che la giurisprudenza di merito aveva spesso contradetto la tesi dell’Inps in modo deciso: si veda per un esempio la chiara decisione del Tribunale di Pinerolo 27 aprile 2009, n. 392, ove si legge che “L’interpretazione delle norme che disciplinano il caso in esame, ed in particolare dell’art. 51, comma 8-bis del TUIR, contenuta nella circolare Inps n. 86 del 2001, non appare rispettosa dei canoni ermeneutici di cui all’art. 12, comma 1, delle disposizioni sulla legge in generale giacché limitando la portata della disposizione al solo campo fiscale, tradiscono sia il principio introdotto con la legge delega 23 dicembre 1996, n. 662 e il successivo D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 314 di equiparazione tra la definizione di reddito ai fini contributivi con quello fiscale, sia l’intenzione del legislatore il quale intervenendo successivamente e in un sistema di tassatività delle eccezioni al suddetto principio, non ha in alcun modo previsto le deroghe volute dall’Inps”.
Si potrebbe allora pensare di accordare una sorta di più o meno implicita moratoria per il passato. Si veda per un esempio di intervento di questo tipo la vicenda della fiscalità IAS, dove una parte delle imprese era andata sulla derivazione dal bilancio e altre avevano assunto posizioni diverse in presenza di una normativa affatto chiara e di una casistica molto complessa: sul punto si può leggere la circ. 28 febbraio 2011, n. 7/E. Nel contempo si potrebbe prevedere per il futuro una riduzione della base imponibile previdenziale e fiscale per il lavoro all’estero su tutto il pacchetto retributivo (compenso, benefit, indennità), ad esempio simmetricamente a quanto recentemente previsto ai fini fiscali per chi arriva in Italia (cd. Impatriati: su cui tra molti si veda in questa rivista nella versione cartacea, MASTELLONE, Il ventaglio dei regimi fiscali per attrarre soggetti ad “alta capacità” intellettuale, lavorativa, sportiva e… contributiva: pianificazione successoria e compatibilità con le regole europee, in Riv. Dir. Trib., 2020; la quota imponibile di reddito prodotto in Italia è stata ora abbassata dal 50 percento al 30 percento dalla L. 28 giugno 2019, n. 58, in vigore dal 30 giugno 2019) e con l’occasione eliminare il riferimento alle retribuzioni convenzionali dall’art. 51 Tuir, che tanta confusione ha generato, anche con complicazioni sul calcolo del credito d’imposta estero.
In alternativa, se si sceglie di mantenere il regime delle retribuzioni convenzionali ai fini fiscali (lasciando in vita l’art. 51, comma 8-bis, Tuir), si potrebbe stabilire chiaramente che questo parametro si applica solo ai fini tributari, e intervenire sul piano previdenziale sgravando da contributi le indennità e i benefit aggiuntivi per il lavoro all’estero. L’intervento dovrebbe essere fatto sull’art. 12 L. n. 153/1969, introducendo i criteri di determinazione previdenziali della base imponibile in tutti i casi in cui trova applicazione l’art. 51, comma 8-bis ai fini fiscali. In particolare, sarebbe opportuna una previsione specifica per escludere gli alloggi esteri dalla base imponibile, o un valore forfettario simile alla rendita catastale, notoriamente non applicabile all’estero.
Si può qui toccare con mano quanto sarebbe utile tener sotto controllo preventivamente i riflessi dell’evoluzione della disciplina fiscale sul versante previdenziale, senza dover rincorrere con forzature interpretative le questioni che sfuggono di mano, creando incertezze e ulteriori costi per le imprese.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
In linea generale, sulla mobilità internazionale dei dipendenti, AA.VV., La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari, a cura di DELLA VALLE-PERRONE L.-SACCHETTO-UCKMAR, Padova, 2006; CROVATO, Global mobility e fiscalità, in Crovato (a cura di), La fiscalità delle imprese Oil and Gas, Maggioli, 2018, 519 ss. Sulla disciplina delle retribuzioni convenzionali, TINELLI, La nuova disciplina fiscale del reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero, in Riv. dir. trib., 2000, I, 269 ss.; AZZOLLINI, Il reddito di lavoro dipendente svolto all’estero, in Il fisco, 2001, 26, 8939 ss.; CARDELLA, Il punto sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, in Rass. trib., 2003, 3, 894 ss.; STIZZA, Il quadro normativo relativo ai redditi di lavoro dipendente “transnazionale”, in DELLA VALLE-PERRONE L.-SACCHETTO-UCKMAR (a cura di), La mobilità transnazionale del lavoratore dipendente: profili tributari cit., 466 ss.; CROVATO, Il lavoro dipendente transnazionale, in CARPENTIERI-LUPI-STEVANATO (a cura di), Il diritto tributario nei rapporti internazionali, Milano, 2003. Sulla Convenzione contro le doppie imposizioni e il lavoro dipendente, HARZING- VAN RUYSSEVELDT, International Human Resource Management, SAGE, 2004; AA.VV. (fra cui MAISTO e GIULIANI), Interpretation of article 15 (2) of the OECD Model convention: Remuneration Paid by, or on Behalf of, an Employer Who is not a resident of the Other State, in Bulletin for International Fiscal Documentation, 2000, 598 ss. Per i dubbi della dottrina sull’interpretazione restrittiva del Ministero del lavoro (e dell’INPS) si vedano, tra gli altri, AZZOLLINI, Il reddito di lavoro dipendente svolto all’estero: casi e questioni, cit.; CARDELLA, Il punto sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, cit.; DELLI FALCONI-MARIANETTI, Fissati i livelli di retribuzione convenzionale per il lavoro prestato all’estero, in Corr. Trib., 2006, 925 ss.; IORIO, La tassazione del lavoro dipendente svolto all’estero, in Corr. Trib., 2002, 1218 ss.; REVELANT, Il lavoro dipendente all’estero tra diritto interno e normativa convenzionale, in Corr. Trib., 2001, 3547 ss.; STIZZA, Il quadro normativo relativo ai redditi di lavoro dipendente “transnazionale”, cit., 467. Dopo le sentenze della Corte di Cassazione, si veda per tutti COSTA, Criteri di individuazione della base imponibile ai fini contributivi nel distacco transnazionale (Corte di cassazione, sezione lavoro, 6 settembre 2016, n. 17646), in Rivista del diritto della sicurezza sociale, 2016, 783 ss. e la dottrina ivi citata, nonché il più recente Lavoratori transnazionali e retribuzioni convenzionali ai fini previdenziali, in Diritto & Pratica del Lavoro, 2018, 1924 ss.
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Diritti degli interessati
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1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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