Ai fini della determinazione del reddito d’impresa, gli interessi passivi, ai sensi dell’art. 109, comma 5, del TUIR 22.12.1986 n. 917, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui all’art. 96 TUIR, che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza.
Inherency is irrelevant for the deductibility of passive interests, but the limits set by the TUIR raise doubts about constitutionality. –Under art. 109, paragraph 5, of the TUIR 22.12.1986 n. 917, passive interests are always deductible for the purpose of determining business income, though within the limits of art. 96 of the TUIR, which indicates the extent and method of calculating the generally deductible interest expense, with no need to make any inherency judgment.
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. L’inerenza è irrilevante per la deducibilità degli interessi passivi nell’IRES. – 3. L’inerenza è rilevante per la deducibilità degli interessi passivi nell’ IRPEF. – 4. Altri limiti alla deducibilità degli interessi passivi nell’IRES. – 5. (Segue). L’art. 96 del TUIR alla mercé dell’Amministrazione – 6. Conclusioni.
1. La Corte di Cassazione è chiamata ancora una volta a pronunciarsi sull’applicabilità del principio di inerenza ai fini della deducibilità degli interessi passivi nella determinazione del reddito d’impresa.
La Corte ribadisce la propria ferma linea interpretativa, chiarendo che costituisce orientamento consolidato quello secondo cui “ai fini della determinazione del reddito d’impresa, gli interessi passivi, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5 (ora art. 109), ed a differenza della precedente normativa contenuta nel D.P.R. 20 settembre 1973, n. 597, art. 74, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui al detto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 63 (ora art. 96) che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza” (l’ordinanza in rassegna richiama in merito. Cass., sez. trib., 14 maggio 2014, n. 10501 4182; Cass., sez. trib., 21 aprile 2009, n. 9380; Cass., sez. trib., 13 ottobre 2006, n. 22034; Cass. sez. trib., 2 febbraio 2005, n. 2114; Cass., sez. trib., 21 novembre 2001, n. 14702).
Come è noto il quadro normativo era differente in passato, allorché il D.P.R. n. 597/1973, nell’art. 74, comma 2, stabiliva, con previsione generale sull’inerenza, che “i costi e gli oneri sono deducibili se ed in quanto si riferiscono ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa”, senza alcuna distinzione tra interessi passivi ed altri costi ed oneri. Ma ormai da tempo l’art. 75 T.U.I.R., comma 5, ora art. 109, ha eliminato tale vincolo, ponendo una disciplina diversa, secondo cui “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito” (su tale pregressa disciplina, L. DEL FEDERICO, Interessi passivi, in F. TESAURO, diretta da., L’imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, tomo II, Torino, 1994, 701 ss.)
Da tale norma la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, nel cui solco si pone l’ordinanza, desume la chiara volontà legislativa di riconoscere un trattamento differenziato per gli interessi passivi rispetto ai vari componenti negativi del reddito d’impresa, nel senso che il diritto alla deducibilità è riconosciuto sempre, senza alcun giudizio sulla inerenza, anche se nei limiti della disciplina contenuta nell’art. 63 T.U.I.R., ora art. 96, contenente la misura e le modalità di calcolo degli interessi passivi deducibili (conf. Cass., sez. trib., 20 luglio 2018, n. 19430).
Tuttavia desta attenzione la peculiarità della concreta fattispecie, in cui la contestazione in merito alla non inerenza degli interessi passivi era basata sul fatto che la società contribuente aveva acceso un mutuo bancario, e sostenuto interessi, dedotti ai fini IRES, per soccorrere finanziariamente un’altra società, facente capo agli stessi soci; l’Agenzia evidenziava altresì che la Società che aveva chiesto il mutuo per fronteggiare la crisi di liquidità dell’altra società, lo aveva fatto in violazione dei limiti posti dall’oggetto sociale ed al di fuori della normale attività di gestione aziendale. La questione sfuma, in quanto la Corte ritenendo irrilevante l’inerenza ai fini della deducibilità degli interessi passivi, non entra nel merito, pur fondando il concetto di inerenza sull’art. 75 T.U.I.R. (ora art. 109, v. infra). Ciononostante si staglia sullo sfondo della vicenda (risalente al 2007) il possibile utilizzo di strumenti alternativi all’indeducibilità per difetto di inerenza, quali l’indeducibilità per liberalità, l’inefficacia da comportamento elusivo/abusivo ecc.
Comunque, a prescindere da questi profili, l’ordinanza offre l’occasione per riflettere sul tema dei limiti alla deducibilità degli interessi passivi.
2. La Cassazione ribadisce – come detto – che nella determinazione del reddito d’impresa gli interessi passivi sono deducibili con alcune limitazioni quantitative, ora poste dall’art. 96, a nulla rilevando il principio dell’inerenza, per il quale le spese e gli altri componenti negativi (tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale) sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito.
A tale conclusione la Corte giunge valorizzando la formulazione letterale delle norme, la ratio semplificatrice della deducibilità limitata e forfettaria (ora riconducibile all’art.96), ma soprattutto l’evoluzione legislativa della specifica disciplina.
Ormai da tempo si riscontra univocità di orientamento nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, per cui si può ritenere che il principio ribadito nell’ordinanza debba ritenersi consolidato (cfr. i precedenti già citati retro e quelli che lo saranno infra, cui, nell’ultimo ventennio si contrappone esclusivamente Cass., sez. VI, ord 20 febbraio 2014, n. 4115, ma relativa alla vecchia e diversa disciplina del D. P.R. n. 597/1973)
Tuttavia, per comprendere la pervicacia dell’Agenzia delle Entrate, si deve ricordare che in passato, la giurisprudenza aveva ritenuto gli interessi passivi deducibili soltanto se sostenuti nell’esercizio dell’impresa e se riferibili ad attività da cui derivavano ricavi confluenti nel reddito tassabile; era quindi di per se irrilevante che gli interessi derivassero da acquisizioni di capitali da parte dell’impresa, essendo necessario dimostrare le ragioni giustificatrici delle operazioni di finanziamento ed il concreto utilizzo delle somme in attività produttive di ricavi imponibili (in tal senso v.: Cass., sez. I, 8.11.1986, n. 6548; Cass., sez. I, 8.11.1998, n. 1650; Comm. Trib. Centr., 14.7.1989, n. 5035, in Comm. Trib. Centr., 1989, I, 576; Comm. Trib. Centr., 4.4.1991, n. 2618, ibidem, 1991, I, 329; Comm. Trib. Centr. 7.4.1994, n. 961).
Parte della dottrina riteneva infatti che nell’interpretazione dell’art. 63 (cui oggi corrisponde l’art. 96) si dovesse tener conto del principio posto dall’art. 75, 5 co. (cui oggi corrisponde l’art. 109), per il quale l’imponibile deve derivare dalla contrapposizione di costi e ricavi o meglio dal necessario bilanciamento tra ricavi e proventi tassabili e costi ed oneri deducibili (cfr. G. TINELLI, Considerazioni sulla determinazione del coefficiente di deducibilità di interessi passivi e spese generali ai fini dell’ILOR, in Rass. trib., 1987, I, 310-311 e ID., Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, 269-273, nonché A. D’AMATI, Ricavi, oneri ed accantonamenti nella disciplina del reddito d’impresa, in Dir. prat. trib., 1989, I, 33).
In proposito si rendono necessarie alcune precisazioni.
Come si è visto secondo l’art 75, comma 5., vigente ratione temporis (ora art. 109) «le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formale il reddito», restano quindi estranei a tale principio gli interessi passivi per i quali opera sempre il criterio del pro rata. Tuttavia, secondo la dottrina richiamata, ciò non escluderebbe che del principio in questione si debba tener conto ai fini dell’interpretazione dell’art. 63 (ora 109). In sostanza il principio del necessario bilanciamento tra ricavi e proventi tassabili e costi ed oneri deducibili non opererebbe direttamente ai fini degli interessi passivi, deducibili proporzionalmente e non in virtù dello specifico collegamento con il corrispondente componente positivo (tassabile), ma opererebbe comunque ai fini della composizione del rapporto di cui all’art. 63 (ora 109), rilevando per l’interpretazione di questa norma così come di tutte le altre norme in materia di reddito d’impresa.
In una fase ormai risalente del dibattito il tema della deducibilità degli interessi passivi è stato affrontato anche sotto il diverso profilo della natura delle norme attinenti alla deducibilità forfettaria degli interessi, discutendosi in termini di presunzione iuris tantum o iuris et de iure (quest’ultima era l’orientamento prevalente: cfr. ASSONIME, circ. 20-12-1975, n. 243; ABI, circ. 14-4-1976, n. 19; S. LA ROSA, Interessi passivi, interessi del debito pubblico e disciplina fiscale del reddito d’impresa, in Rass. trib., 1985, 9; S. SAMMARTINO, La deducibilità delle spese e la nozione di «costo dei beni», in V. UCKMAR, C. MAGNANI e G. MARONGIU, a cura di, Il reddito di impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 598 e F. BOSELLO, I componenti negativi del reddito d’impresa, in AA. VV., Studi in onore di E. Allorio, Milano, 1989, 1851).
Ma si tratta di questioni del tutto superate. E’ ormai chiaro che in tema di interessi passivi il principio di inerenza è del tutto irrilevante.
Suscita tuttavia profonde perplessità la disparità di trattamento fra soggetti IRES e soggetti IRPEF.
3. Per le imprese individuali e le società di persone, in applicazione della regola del pro-rata generale (art. 61 TUIR), gli interessi passivi “inerenti l’esercizio dell’impresa” sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi ed altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi.
Il requisito dell’inerenza trova dunque applicazione per quanto riguarda la deducibilità degli interessi passivi in relazione agli imprenditori individuali e alle società di persone: per questi ultimi, infatti, a differenza di quanto previsto per le società di capitali (cui fa riferimento l’ordinanza in rassegna), gli interessi passivi sono deducibili solo se inerenti all’attività di impresa e nei limiti del pro rata ex art. 61.
La ratio di questo pro-rata è individuabile nella difficoltà di discriminare gli interessi inerenti ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa da quelli relativi ad attività che non rilevano ai fini della determinazione del reddito imponibile.
Detta limitazione alla deducibilità degli interessi passivi è finalizzata ad evitare che un’impresa, fruente di proventi in parte esenti da imposta, possa amplificare e strumentalizzare l’esenzione con effetti sulla parte di reddito ordinariamente imponibile, deducendo interessi passivi riferibili alle attività o ai beni produttivi di proventi esenti. In altre parole, il pro-rata generale impone di applicare agli interessi passivi la stessa regola di deduzione proporzionale stabilita per i costi promiscui (art. 109, co. 5, TUIR).
Tuttavia tale differenza di trattamento fra soggetti IRES e soggetti IRPEF risulta irrazionale e discriminatoria sotto diversi profili, dando corpo a seri dubbi di costituzionalità per violazione degli artt. 2, 3 e 53 Cost.
Invero a fronte di una identica capacità contributiva le norme attribuiscono rilievo alla qualificazione formale del soggetto passivo, a scapito della sostanza giuridica oggettivamente immanente agli interessi passivi.
Non sembra opportuno indugiare oltre, in quanto il tema risulta estraneo all’ordinanza annotata, tuttavia trattasi di grave disparità di trattamento sulla quale è necessario iniziare a riflettere.
4. E’ stato già chiarito che per i soggetti passivi IRES vige un regime di deducibilità degli interessi passivi, che prescinde dalla disciplina delineata dall’art. 109, co. 5, TUIR (come evidenziato dall’ordinanza in rassegna).
A differenza di quanto previsto per gli imprenditori individuali e le società di persone, infatti, per le società di capitali, l’art. 96 non subordina la deducibilità degli interessi passivi all’inerenza all’attività d’impresa (la ratio è bene evidenziata da Cass., sez. trib., 19 maggio 2010, n. 12246, in Riv. dir. fin. sc. fin., n. 3, 2011, II, 57, con nota adesiva di M. BALDACCI, La deducibilità egli interessi passivi e il principio di inerenza). Ed invero l’art. 109, co. 5, esclude esplicitamente gli interessi passivi dalla riferibilità ad attività o beni da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi (cfr. D. STEVANATO, Inerenza «forfetaria» degli interessi passivi, in Corr. trib., 2010, 1678)
Ne consegue che la deducibilità degli interessi passivi per i soggetti IRES è sottratta a qualsiasi giudizio di inerenza ma segue la disciplina di cui all’art. 96 secondo cui gli stessi sono interamente deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi (e proventi assimilati) percepiti nell’esercizio.
Pertanto, qualora gli interessi attivi ed i proventi assimilati eccedano l’ammontare degli interessi passivi e degli oneri assimilati, questi ultimi sono integralmente deducibili. In caso contrario, l’eventuale eccedenza è deducibile fino a concorrenza del 30% del Risultato Operativo Lordo della gestione caratteristica (ROL), dato dalla differenza tra il valore della produzione e i costi della produzione, di cui alle lett. A) e B) dell’art. 2425, co. 1, c.c., con esclusione degli ammortamenti e dei canoni di locazione finanziaria dei beni strumentali (i limiti in questione non trovano applicazione per taluni soggetti indicati ai commi 8-13 dell’art. 96)
Tali limiti oggettivi suscitano profonde perplessità.
Si tratta di limiti chiaramente ispirati da una ratio antielusiva essendo nota l’asimmetria di regime fiscale tra capitale di rischio e capitale di debito, ed essendo state in passato sviluppate svariate pratiche elusive, centrate sul sovraindebitamento (cfr. S. LA ROSA, La capitalizzazione sottile, in Riv. dir. trib., 2004, 1283 e seg.; A. PISTONE, La tassazione degli utili distribuiti e la thin capitalization: profili internazionali e comparati, Padova 1994; SECIT, delibera 3.5.1999, n. 40/99, in tema di elusione fiscale e sottocapitalizzazione delle società, con particolare riferimento alla norma antiabuso introdotta dall’art. 7, D. L. 20.6.1996, n. 323; R. LUPI, Il prelievo del 20% sui frutti dei valori in garanzia: pregi e difetti di un intervento ambizioso, in Rass. trib., 1996, 1301; D. STEVANATO, R. RINALDI, M. BEGHIN ed E. BRESSAN, La thin capitalization: reazione agli arbitraggi fiscali o dirigismo extratributario?, in Dialoghi dir. trib., 2003, 205; M. BEGHIN, La Thin capitalization nella “Riforma Tremonti”: prime considerazioni sui profili funzionali, sulla struttura della disciplina e sulle connesse problematiche applicative, in Riv. dir. trib., 2004, 45-46; A. CONTRINO, La normativa fiscale di contratto della “thin capitalization”, in Dir.prat. trib., 2005, I, 1235; L. DEL FEDERICO, La thin capitalization in F. TESAURO, Imposta sul reddito delle società (IRES), Bologna, 2007, 489 ss.).
Tuttavia questo tipo di norme è incostituzionale per violazione dell’art. 53 e soprattutto oggi anacronistico.
Con l’introduzione della clausola generale antielusiva nell’art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente non ha più senso limitare la deducibilità degli interessi passivi per tutti i contribuenti, tassando redditi fiscali che non corrispondono all’effettivo utile di esercizio e frustrando l’effettiva capacità contributiva. L’art. 96 va abrogato e la strumentalizzazione elusiva del sovraindebitamento, che potrà riguardare l’esigua parte dei contribuenti più spregiudicati, va contrastata con il mezzo più proporzionato, adeguato e mirato, quindi mediante l’art. 10-bis, salvaguardando l’effettiva capacità contributiva della gran massa dei contribuenti, gravati da sovraidebitamento genuino, causato da ragioni economiche ben note a tutti, nella fase di crisi economico-finanziaria apertasi nel 2008, mai chiusasi (almeno in Italia) ed ora acuita dalla recrudescenza di crisi economica scatenata dalla pandemia del covid 19.
5. Le suindicate critiche mosse nei confronti dell’art. 96, in termini di costituzionalità ed anacronismo, risultano ora ancor più ampie e profonde, ove si consideri l’entità degli interventi normativi, manovrati esclusivamente dell’Amministrazione, senza un significativo ruolo di bilanciamento da parte del Parlamento.
Negli ultimi anni la norma è stata ripetutamente modificata in chiave sempre più marcatamente antielusiva, dando corpo ad una disciplina farraginosa, casistica ed ingestibile, di chiara matrice burocratica (v. A. FANTOZZI e F. PAPARELLA, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 217-223).
La definizione di ROL è stata modificata, con effetto a partire dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018, facendo riferimento non più al c.d. ROL “contabile” ma al c.d. ROL “fiscale”.
Infatti, in base al nuovo testo dell’art. 96, come modificato dal D. Lgs. 29 novembre 2018, n. 142, emanato in attuazione della legge 25 ottobre 2017, n. 163, al fine di recepire la Direttiva UE 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 (c.d. Atad 1), l’attuale definizione di ROL, che fa riferimento alla struttura del conto economico è stata modificata assumendo le singole voci “nella misura risultante dall’applicazione delle disposizioni volte alla determinazione del reddito d’impresa” (v. G. FERRANTI, L’attuazione della direttiva Atad 1: il meccanismo di calcolo degli interessi deducibili, in Corr. Trib., 2018, 37, 2803).
Il comma 2 dell’art. 96 è stato altresì modificato dall’art. 13 bis del d.l. n. 244/2016 che ha stabilito, a partire dal 2016, la rilevanza – ai fini del calcolo del ROL – anche delle componenti “straordinarie” che in precedenza erano escluse, facendo, però, eccezione per quelle derivanti da trasferimenti di azienda o di rami di azienda.
Inoltre, a partire dal periodo d’imposta 2019, per effetto delle modifiche apportate all’art. 96 dal D. Lgs. n. 142/2018, il limite alla deducibilità degli interessi passivi e degli oneri finanziari assimilati viene esteso a quelli inclusi nel costo dei beni ai sensi dell’art. 110, co. 1, lett. B), TUIR.
L’eccedenza che risulta indeducibile nell’esercizio potrà essere riportata negli esercizi successivi, sempre entro i limiti del 30% del ROL, è però previsto che si utilizzi prioritariamente il 30% del ROL dello stesso anno e poi il 30% di quello riportato dai periodi d’imposta precedenti, a partire da quello relativo al periodo d’imposta meno recente. È stata, in pratica, sancita normativamente l’applicazione di un “criterio FIFO”.
Al contrario, se l’ammontare degli interessi passivi e degli oneri finanziari di competenza, al netto degli interessi attivi e dei proventi assimilati, sostenuti nell’esercizio non eccede il valore limite fissato (30% del ROL) è possibile portare in aumento la quota del Risultato Operativo Lordo non utilizzato ai successivi periodi d’imposta; tuttavia, con il D. Lgs. n. 142/2018, è stato introdotto, a partire dal 2019, un limite alla riportabilità del ROL nei successivi peridi d’imposta, che non può eccedere il quinquennio.
La possibilità del riporto in avanti del ROL, oltre alla consueta logica antielusiva, esprime anche la finalità dirigistica di favorire la capitalizzazione delle imprese, in ottica premiale verso i soggetti che in un determinato periodo d’imposta conseguono un’elevata redditività a fronte di un basso indebitamento.
Ai fini dell’applicazione di tale regime, assumono rilevanza gli interessi passivi e attivi, gli oneri e proventi assimilati derivanti da contratti di mutuo, di locazione finanziaria, emissioni di obbligazioni e titoli similari, nonché da ogni altro rapporto avente natura finanziaria, con esclusione degli interessi impliciti derivanti da debiti di natura commerciale e con inclusione, tra gli attivi, di quelli derivanti da crediti della stessa natura.
Ulteriori modifiche sono state introdotte dal D. L. 26 ottobre 2019, n.124 (conv. con L. 19 dicembre 2019, n. 157).
L’art. 96 è diventato un dettato normativo guazzabuglio alla mercé dell’Amministrazione, che in ossequio ad una anacronistica ratio antielusiva, finisce con il penalizzare tutti i contribuenti genuinamente indebitati, tassando un reddito d’impresa gonfiato a fronte del reale risultato di esercizio.
6. L’ordinanza in rassegna è pienamente condivisibile per quanto riguarda il ribadito principio dell’irrilevanza dell’inerenza ai fini della deducibilità degli interessi passivi nell’IRES.
Suscita invece perplessità laddove indugia su un concetto di inerenza fondato sull’art. 109 del TUIR, disattendendo le recenti pronunce della stessa Corte di Cassazione.
Invero ormai da qualche anno si va delineando un orientamento per il quale il fondamento normativo dell’inerenza non è riscontrabile nell’art. 109, 5 comma, del TUIR, che si riferisce invece al diverso principio della indeducibilità pro quota dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Piuttosto l’inerenza è concepita come requisito di tipo qualitativo, che attiene alla coerenza dell’atto posto in essere rispetto al programma imprenditoriale, inteso in termini sostanziali e non formali (v. G. FRANSONI, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, in questa Rivista, 19 marzo 2018, M. PROCOPIO, Il principio dell’inerenza ed il suo stretto collegamento con quello della capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2018, 1667 ss.; P. BORIA, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in GT – Riv. Giur. trib., 2018, 767 ss; A. VICINI RONCHETTI, La sezione tributaria della Cassazione si esprime su inerenza ‘quantitativa’ applicabile nella determinazione del reddito d’impresa: luci ed ombre, in Giur. comm., 2019, 333 ss.; ID. Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. Dir. Trib., 2019, 553 ss.)
Comunque in questa sede la questione non assume rilievo in quanto, nella motivazione dell’ordinanza, assorbita dall’affermazione dell’irrilevanza dell’inerenza ai fini della deducibilità degli interessi passivi.
Piuttosto è l’intera disciplina degli interessi passivi nel reddito d’impresa a mostrare profili di irrazionalità e di dubbia legittimità costituzionale.
In primo luogo spicca la differenza di trattamento fra soggetti IRES e soggetti IRPEF, alquanto discriminatoria giacché: l’inerenza non rileva nell’IRES, ma opera ai fini della deducibilità degli interessi passivi nell’IRPEF; pertanto, a fronte di una identica capacità contributiva le norme attribuiscono rilievo alla mera qualificazione formale del soggetto passivo.
Emerge poi l’anacronismo dell’art. 96 TUIR, con i suoi stringenti limiti alla deducibilità degli interessi passivi, ispirati da una ratio antielusiva che oggi non ha più ragion d’essere.
Infatti con la clausola generale antielusiva ex art. 10 bis non ha più senso limitare la deducibilità degli interessi passivi per tutti i contribuenti, tassando redditi fiscali che non corrispondono all’effettivo utile di esercizio e frustrando l’effettiva capacità contributiva.
L’art. 96 va abrogato e l’eventuale strumentalizzazione elusiva del sovraindebitamento va contrastata con il mezzo più proporzionato, adeguato e mirato, quindi mediante l’art. 10 bis, salvaguardando l’effettiva capacità contributiva dei contribuenti, gravati da sovraidebitamento genuino. Ciò a maggior ragione in un contesto economico-sociale come quello attuale, in cui il diffuso ed ingente sovraindebitamento risulta causato da obiettive necessità economiche, maturate a seguito della crisi economica avviatasi nel 2008 ed ora acuita dalla pandemia del covid 19.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: ASSONIME, circ. 20-12-1975, n. 243; ABI, circ. 14-4-1976, n. 19; M. BALDACCI, La deducibilità egli interessi passivi e il principio di inerenza, in Riv. dir. fin. sc. fin., n. 3, 2011, II, 57; P. BORIA, L’inerenza dei costi nella determinazione del reddito d’impresa – la ricostruzione del principio di inerenza nella giurisprudenza della Cassazione, in GT – Riv. Giur. trib., 2018, 767 ss; F. BOSELLO, I componenti negativi del reddito d’impresa, in AA. VV., Studi in onore di E. Allorio, Milano, 1989, 1851; M. BEGHIN, La thin capitalization nella “Riforma Tremonti”: prime considerazioni sui profili funzionali, sulla struttura della disciplina e sulle connesse problematiche applicative, in Riv. dir. trib., 2004, 45-46; A. CONTRINO, La normativa fiscale di contratto della “thin capitalization”, in Dir. prat. trib., 2005, I, 1235; A. D’AMATI, Ricavi, oneri ed accantonamenti nella disciplina del reddito d’impresa, in Dir. prat. trib., 1989, I, 33; L. DEL FEDERICO, Interessi passivi, in F. TESAURO, diretta da., L’imposta sul reddito delle persone fisiche. Giurisprudenza sistematica di diritto tributario, tomo II, Torino, 1994, 701 ss.; ID., La thin capitalization in F. TESAURO, Imposta sul reddito delle società (IRES), Bologna, 2007, 489 ss.). A. FANTOZZI e F. PAPARELLA, Lezioni di diritto tributario dell’impresa, Padova, 2019, 217-223; G. FERRANTI, L’attuazione della direttiva Atad 1: il meccanismo di calcolo degli interessi deducibili, in Corr. Trib., 2018, 37, 2803); G. FRANSONI, Una bella sorpresa: la nouvelle vague della Corte di Cassazione in tema di inerenza, in questa Rivista, 19 marzo 2018; S. LA ROSA, Interessi passivi, interessi del debito pubblico e disciplina fiscale del reddito d’impresa, in Rass. trib., 1985, 9; S. LA ROSA, La capitalizzazione sottile, in Riv. dir. trib., 2004, I, 1283 e seg.; R. LUPI, Il prelievo del 20% sui frutti dei valori in garanzia: pregi e difetti di un intervento ambizioso, in Rass. trib., 1996, 1301; A. PISTONE, La tassazione degli utili distribuiti e la thin capitalization: profili internazionali e comparati, Padova 1994; M. PROCOPIO, Il principio dell’inerenza ed il suo stretto collegamento con quello della capacità contributiva, in Dir. prat. trib., 2018, 1667 ss.; S. SAMMARTINO, La deducibilità delle spese e la nozione di «costo dei beni», in V. UCKMAR, C. MAGNANI e G. MARONGIU, a cura di, Il reddito di impresa nel nuovo testo unico, Padova, 1988, 598; SECIT, delibera 3.5.1999, n. 40/99; D. STEVANATO, Inerenza «forfetaria» degli interessi passivi, in Corr. trib., 2010, 1678; D. STEVANATO, R. RINALDI, M. BEGHIN ed E. BRESSAN, La thin capitalization: reazione agli arbitraggi fiscali o dirigismo extratributario?, in Dialoghi dir. trib., 2003, 205; G. TINELLI, Considerazioni sulla determinazione del coefficiente di deducibilità di interessi passivi e spese generali ai fini dell’ILOR, in Rass. trib., 1987, I, 310-311 e ID., Il reddito d’impresa nel diritto tributario, Milano, 1991, 269-273; A. VICINI RONCHETTI, La sezione tributaria della Cassazione si esprime su inerenza ‘quantitativa’ applicabile nella determinazione del reddito d’impresa: luci ed ombre, in Giur. comm., 2019, 333 ss.; ID. Inerenza nel reddito d’impresa: riflessioni sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità, in Riv. Dir. Trib., 2019, 553 ss.
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