Con la sentenza in commento, la Cassazione torna ad esprimersi in tema di soggettività passiva ai fini ICI nel caso in cui i beni dapprima espropriati sono stati poi ceduti volontariamente. In ispecie, nell’accogliere il ricorso enuncia il seguente principio giuridico: “l’espropriato, una volta emesso un decreto definitivo di esproprio, cessa di essere soggetto passivo ICI, a nulla rilevando che abbia mantenuto la concreta disponibilità del cespite e che poi intervengano ulteriori accordi con l’amministrazione espropriante”.
The questionable jurisprudence of the Italian Supreme Court about passive subjectivity for municipal real estate tax. – With the sentence in comment, the Cassation returns to express itself on the subject of passive subjectivity for ICI purposes in the event that, the properties previously expropriated, they have been voluntarily sold. Specifically, the Court accepts the objecting party’s claimant and lays down the following legal principle: “once a definitive expropriation decree has been issued, the expropriated subject is no longer treated as a taxable person, even if he has maintained the availability of the property or has entered into an agreement with the administration”.
Sommario:1. Il caso e il contesto normativo di riferimento. – 2. Le teorie “classiche”. – 3. La teoria evolutiva. – 4. Conclusioni.
1. La sentenza riportata in epigrafe benché riguardi un tema abbastanza noto, quello della cessata soggettività passiva in ambito ICI per effetto del provvedimento definitivo di esproprio, offre l’occasione per svolgere qualche breve riflessione sulla recente e discutibile posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità in ordine all’individuazione del soggetto passivo chiamato all’obbligo tributario e all’interpretazione della nozione di possesso il cui significato, purtroppo, continua ad essere messo in discussione nonostante la solida elaborazione consegnataci dall’esperienza giuridica.
Il caso affrontato non è particolarmente complesso, ma si caratterizza per la presenza di uno strumento giuridico peculiare che, a quanto pare, si è rivelato decisivo per il convincimento dei giudici.
In ispecie, dalla succinta esposizione in fatto e in diritto si apprende che, nonostante l’espletamento di una procedura espropriativa, l’emanazione del decreto ablatorio e la sua regolare notifica, il privato ricorrente non ha perso subito la disponibilità del bene, ma l’ha conservata fino alla data del rogito notarile di alienazione volontaria dell’immobile. A proposito della cessione volontaria di cui all’art. 45 d.P.R. 327/2001, basti qui precisare che costituisce un diritto potestativo di cui è titolare il proprietario del fondo diritto che può essere fatto valere – se ricorrono tutti i presupposti previsti dalla legge – nei confronti dell’autorità espropriante dalla fase di dichiarazione di pubblica utilità fino all’esecuzione del decreto di esproprio. Si tratta di uno strumento che deve la sua importanza non solo alle finalità che mira perseguire ma, anche, agli effetti che produce: qualora esperito è idoneo ad interrompe il procedimento amministrativo diretto all’ablazione del bene.
Da qui, il decisium della pronuncia e le prime perplessità laddove si legge che, “unavolta emesso il decreto di esproprio”, l’espropriato non è più obbligato al pagamento dell’ICI “a nulla rilevando che abbia mantenuto la concreta disponibilità del cespite” e indipendentemente dalla conclusione di ulteriori accordi con la P.A. espropriante posto che, gli effetti di avveramento della condizione a cui è subordinato il trasferimento della proprietà, retroagiscono ex art. 1360 c.c. al tempo in cui è stato concluso il contratto.
Ecco il punto focale: la disgiunzione tra possesso e disponibilità e l’evidente propensione della Corte ad accogliere, ai fini dell’applicazione dell’imposta, una situazione possessoria qualificata coincidente con la titolarità del diritto reale o reale di godimento in luogo di situazione giuridica più ampia e inclusiva anche di quei casi in cui, per i più disparati motivi, un soggetto pur non avendo alcuna titolarità reale sul bene, ne gode e dispone.
Il fatto che l’organo di nomofilachia stia manifestando a più riprese una maggiore inclinazione verso un approccio che predilige la prevalenza della forma sulla sostanza, non può che destare allarme dal momento che, come si cercherà di mostrare in seguito, l’orientamento prevalente è di segno opposto.
2. È noto che la natura e la struttura della fattispecie imponibile sono state al centro di importanti dibattiti dottrinali e non è revocabile in dubbio che si tratta di un tributo dalle sembianze ambigue e dai profili contraddittori. In questa sede, per esigenze di brevità, non è possibile dare conto di tutte le questioni (anche costituzionali) che hanno investito l’ICI pertanto, senza alcun indugio, ci si limiterà ad esporre come le diverse teorie tra loro avvicendatesi hanno via via definito il presupposto dell’imposta. Nel procedere in questo senso, si darà particolare rilievo al più recente e consolidato indirizzo che mira a valorizzare gli elementi della disponibilità e del godimento del bene piuttosto che la mera titolarità del diritto reale.
Ebbene, muovendo dal piano del diritto positivo vengono in rilievo le disposizioni di cui all’art. 1, comma 2, ai sensi del quale il “presupposto dell’imposta è il possesso di fabbricati, aree edificabili e terreni agricoli [..]” e all’art. 3, commi 1-2, ove è stabilito che i “soggetti passivi dell’imposta sono il proprietario di immobili [..], il titolare di diritto reale di usufrutto, uso, abitazione, enfiteusi, superficie, [..] concessionario [..] locatario a decorrere dalla data della stipula e per tutta la durata del contratto [di locazione finanziaria]”.
La combinazione simultanea di questi due articoli, lungi dal poter essere casuale, ha una propria logica laddove si passa all’analisi dei vari indirizzi dottrinali che, seppure giunti ad approdi profondamente diversi muovono l’indagine da uno stesso fatto generatore (il concetto di possesso) il cui perimetro, come si vedrà, assume di volta in volta geometrie variabili in relazione al collegamento proprio con il citato art. 3.
Quest’ultimo, secondo una prima e risalente dottrina, corrisponde sic et simpliciter alla situazione giuridica soggettiva di cui all’art. 1140 c.c. la quale, non deve congiungersi ineluttabilmente al diritto di proprietà o ad altro diritto reale minore, essendo richiesto solo che il potere sulla cosa sia corrispondente a quello del proprietario o del titolare del diritto reale e accompagnato dall’animus rem sibi habendi, non invece che colui che esercita il possesso sia anche titolare della proprietà o di altro diritto reale minore. È chiaro che questa interpretazione si pone nello stesso solco di quella elaborata in materia di possesso dei redditi di cui all’art. 1 TUIR e, al pari di questa, non ha trovato molta fortuna. Le ragioni principali per le quali non è stato ritenuto corretto sostenere che il “possesso” ai fini ICI assume lo stesso significato del possesso civilistico sono a dir poco inconfutabili: dai sopravvenuti mutamenti normativi che hanno ulteriormente definito il presupposto dell’ICI, all’individuazione espressa dei soggetti passivi dell’imposta, al tipo di approccio civilistico basato sui diversi bilanciamenti delle tutele soggettive e avente finalità di tutela non sempre coincidenti con quelle del diritto tributario.
Altra dottrina, facendo propri i risultati teorici ottenuti in tema di possesso di immobili rientranti nella categoria dei redditi fondiari di cui all’art. 23 TUIR, ha invece ricostruito il presupposto dell’ICI in un senso concettualmente opposto rispetto al primo e comunque non assimilabile a quello civilistico. Nel dettaglio, questi Autori sostengono che il fatto al verificarsi del quale si rende dovuto il tributo, è dato dalla contemporanea sussistenza della situazione reale e di quella possessoria, ossia dalla necessità che al possesso del cespite si accompagni la titolarità del diritto reale. Invero, tale impostazione non convince del tutto poiché, se accolta: 1) finirebbe con l’escludere dal suo ambito applicativo i soggetti che pur essendo titolari del diritto reale fossero privi dell’immobile; 2) comprometterebbe le esigenze di semplicità e certezza del prelievo; 3) determinerebbe un salto di imposta sulla base dello stesso articolo che esclude dalla sfera applicativa del tributo il possessore che non sia titolare di diritto reale; 4) nei casi di scissione tra la titolarità reale e situazione possessoria, si correrebbe il rischio che l’imposta non venga pagata da nessun soggetto.
Un terzo autorevole indirizzo, oltre che censurare entrambe le interpretazioni ha escluso del tutto che il possesso si cui all’art. 1 ha un qualche valore ai fini dell’individuazione del soggetto passivo essendo rilevante, invece, la sola titolarità della proprietà o di altro diritto reale di godimento. Secondo questa linea di pensiero, dunque, solo chi è titolare di una delle situazioni di cui all’art. 3 è tenuto al pagamento dell’imposta anche se non gode e non dispone della corrispondente situazione possessoria così come, di converso, chi gode e dispone nel senso civilistico ma senza essere titolare di diritto reale è escluso dall’ambito di applicazione dell’imposta. Questa autorevole dottrina ha certamente offerto indicazioni interpretative pregevoli e fondameli tuttavia, se da un lato è vero che detto articolo più che individuare le categorie di soggetti cui è titolare il tributo concorre in modo decisivo a completare l’ambito del presupposto, dall’altro, bisogna anche chiedersi se: i) la fattispecie generale, riassuntiva, di cui all’art. 1, ha lo stesso grado di importanza della successiva fattispecie integrativa; ii) è del tutto corretto ritenere che la sussistenza della titolarità di una situazione soggettiva reale è necessaria e sufficiente ai fini dell’imputazione e che, quindi, non si deve tener conto della relazione effettiva tra il soggetto e il cespite.
Rinviando al paragrafo successivo ogni considerazione circa quest’ultimo punto, rispetto al primo sono illuminanti le osservazioni svolte da autorevolissima dottrina in tema di possesso di redditi secondo cui, alla fattispecie legale soggetta ad integrazione ex art. 1 TUIR, deve riconoscersi un grado di importanza superiore rispetto alle disposizioni integrative e ciò, sulla base del rapporto di gerarchia assiologica. In conclusione, trasponendo questi significativi rilievi in materia di ICI si potrebbe allora ipotizzare che, quantunque il possesso di cui all’art. 1 d.lgs. 504/1992 trovi il proprio completamento all’art. 3, cionondimeno mantiene rispetto a questo un valore superiore e, in ultimissima analisi, ai fini impositivi occorre verificare quale sia il soggetto che, al di là della mera titolarità del diritto reale, manifesta il legame più stringente con il fatto indice di capacità contributiva.
3. L’ultima soluzione che si prospetta suggerisce di risolve il problema interpretativo inerente al presupposto dell’ICI secondo una diversa angolatura, tesa a valorizzare non la situazione possessoria civilistica o la titolarità di un diritto reale, bensì tutte quelle situazioni giuridiche in cui il soggetto ha effettivamente la disponibilità e il godimento del bene immobile.
Anche questa posizione, in realtà, affonda (in parte) le proprie radici in ricostruzioni teoriche più remote, sviluppatesi nell’ambito della disciplina delle imposte sui redditi. Si tratta, più precisamente, della nota teoria volta a giustificare in termini di materiale disponibilità la situazione giuridica rilevante ai fini dell’individuazione del soggetto chiamato ad adempiere teoria che, nel tempo, ha subito importanti rivisitazioni da parte di illustre dottrina e le cui criticità hanno costituito il dato di partenza di un’ulteriore linea interpretativa che, in ultimo, ha preferito mettere in risalto il diverso concetto di destinazione del reddito.
Ciò premesso, è pacifico che nell’ICI la verifica della relazione giuridica tra il soggetto passivo e l’oggetto dell’imposizione è verosimilmente più immediata e pratica in ragione della sua stessa ratio impositionis volta a colpire chi, più di ogni altro, ha il legame più cogente con il bene patrimoniale. Più precisamente, in questa fattispecie l’indice rilevatore della ricchezza espressione della capacità contributiva, è dato proprio dall’esercizio dei poteri di disponibilità e di godimento ed è per questo che occorre estendere l’accertamento a qualunque situazione giuridica che effettivamente si costituisce “sul e con” il bene immobile e tale da determinare una vera e propria signoria sullo stesso e non invece limitare l’indagine alla ricerca del soggetto titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale di godimento.
È evidentemente che la verifica in questione è di carattere sostanziale e non meramente formale e che oltre a porsi in linea con la ratio e la natura del tributo appare anche più rispettosa dei requisiti di effettività, attualità e concretezza postulati dall’art. 53 Cost.
Com’è stato recentemente osservato, all’idoneità astratta del bene alla produzione del reddito deve necessariamente accompagnarsi la l’utilizzazione e lo sfruttamento dell’oggetto del tributo perché, se cosi non fosse si rischierebbe di colpire una manifestazione di capacità contributiva fittizia o addirittura inesistente.
4. Le conclusioni a cui è giunta la Corte non sono particolarmente esaltanti, così come non lo è la sentenza la quale, piuttosto che esplicare l’impianto logico-argomentativo sul quale viene affermata l’irrilevanza della disponibilità del cespite, si compone prevalentemente di richiami e dettati normativi. Parimenti, anche dai lacunosi fatti di causa non è possibile desumere con certezza che tipo di situazione giuridica insisteva sul bene e se il ricorrente aveva o meno la disponibilità dello stesso e se godeva dei relativi frutti. In prima approssimazione, pare che i giudici hanno tenuto in considerazione l’esistenza o meno della titolarità del diritto reale facendo retroagire ex art. 1360 c.c. il trasferimento della proprietà dalla data del rogito all’emissione del decreto di esproprio.
Tuttavia, di cosa ne sia stato del bene e di che tipo di legame si sia configurato con il ricorrente in quest’ultimo arco di tempo, non è dato sapersi, pertanto si può solo sperare che la decisione definitiva, al di la delle apparenze, sia scaturita da un’analisi concreta ed effettiva della situazione e non invece come (purtroppo) sembra da uno sbrigativo controllo formale.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI: Basilavecchia, Imposta comunale sugli immobili (ICI), in Enc. dir., Agg., III, Milano, 669; Del Federico Lu., Espropriazione per pubblica utilità ai fini ICI, in Fisco, 1, 1998, 36; Fedele, «Possesso» di redditi, capacità contributiva ed incostituzionalità del «cumulo», in Giur. Cost., 1976, 2159; Gasparini, L’imposta comunale sugli immobili, in A. Amatucci (a cura di), Trattato di diritto tributario, IV, Padova 1994, 435; Giovanardi, Tributi comunali, in Dig. comm., XVI, Torino, 1999, 146; Leone –Marotta, Espropriazione per pubblica utilità, in Santaniello (diretto da), Trattato di diritto amministrativo, Padova, 1997, 371; Marello, Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, 2006, 105; Marini, Contributo allo studio dell’imposta comunale sugli immobili, Milano, 2000, 64; Paparella, Possesso di redditi ed interposizione fittizia. Contributo allo studio dell’elemento soggettivo nella fattispecie imponibile, Milano, 2000, 123.
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