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Compravendita di beni e prestazioni di servizi, con valore economico aggiunto scarso o nullo, nella nuova disciplina CFC
Di Francesco Nicolosi -
Premessa
Il D.Lgs. n. 142/2018 (“Decreto ATAD”) di recepimento della Direttiva UE 2016/1164 del Consiglio del 12 luglio 2016 (“Direttiva ATAD”) ha apportato importanti modifiche all’art. 167 TUIR. Tale norma, come noto, disciplina l’imputazione per trasparenza del reddito conseguito delle imprese estere controllate (“disciplina CFC[1]”).
La nuova disciplina CFC trova applicazione con riferimento alle società estere controllate che siano assoggettate ad una tassazione effettiva inferiore al 50% di quella applicabile in Italia (a tali fini rileva esclusivamente l’IRES).
È inoltre necessario che oltre un terzo dei proventi realizzati dalla Società estera sia riconducibile ad una o più delle specifiche categorie di proventi indicate dall’art. 167, comma 4, lett. b) TUIR. Tra i suddetti proventi rientrano, inter alia, quelli derivanti da compravendita di beni e prestazioni di servizi infragruppo aventi valore economico scarso o nullo.
La disciplina CFC può essere disapplicata laddove sia dimostrato che la controllata estera svolge una attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali.
Il presente contributo analizza alcune delle problematiche interpretative connesse alla qualificazione degli atti posti in essere dalla società estera come atti di compravendita di beni e prestazioni di servizi infragruppo aventi valore economico scarso o nullo, nonché alla possibilità, in tali casi, di invocare l’esimente dell’esercizio di una attività economica effettiva.
Compravendita di beni
Il nuovo art. 167, comma 4, lett. b) fa riferimento ai “proventi” derivanti da operazioni di “compravendita di beni” effettuate “con soggetti” appartenenti al medesimo gruppo. Secondo la Relazione illustrativa, tale formulazione è dettata dall’esigenza “di allineare il testo alla previsione dell’articolo 7, paragrafo 2, lettera a), della Direttiva e chiarire che rientrano tra i “passive income” non solo le cessioni ma anche gli acquisti di beni (numero 6)”.
Il riferimento ai “proventi” risponde ad esigenze di semplificazione e di certezza, stanti le minori problematiche interpretative poste dall’individuazione dei ricavi (proventi) lordi rispetto ai redditi netti[2].
Il riferimento alla “compravenditadi beni”, secondo la Relazione illustrativa, è motivato dall’esigenza di chiarire che rientrano tra i “passive income” non solo i redditi derivanti dalle cessioni. ma anche quelli derivanti dagli “acquisti di beni”. Una ragionevole interpretazione della disposizione sembrerebbe essere quella secondo cui l’intento del legislatore fosse di chiarire che occorre avere riguardo alle sole società di trading che operano infragruppo sia in sede di acquisto che in sede di vendita. Tale conclusione troverebbe peraltro conferma nella Direttiva ATAD[3]. Quest’ultima fa infatti riferimento “ai redditi da società di fatturazione che percepiscono redditi da vendite e servizi derivanti da beni e servizi acquistati da e venduti a imprese associate” [sottolineatura aggiunta]. Ad ogni modo, la disciplina in esame dovrebbe trovare applicazione anche nelle ipotesi in cui nella operazione intervenga un soggetto terzo che “ritrasferisce” i beni ad un altro soggetto del gruppo (si vedano sul punto, seppur con riferimento alle società di riassicurazione, le precisazioni della Circolare 26 maggio 2011, n. 23/E).
Alla luce di quanto sopra, sembrerebbero invece essere escluse le società che, in fase di approvvigionamento, si rivolgono esclusivamente al mercato, o che effettuano cessioni solamente nei confronti di terzi. È vero che anche le operazioni di acquisto effettuate nei confronti di soggetti esterni al gruppo potrebbero essere utilizzate per erodere la base imponibile del soggetto italiano,[4] trasferendo in un paese a bassa fiscalità una parte del reddito. In tali ipotesi si produrrebbero effetti patologici laddove il margine riconosciuto alla società controllata estera non fosse conforme al valore normale. Le strategie in questione potrebbero, tuttavia, essere ostacolate mediante l’applicazione della disciplina in tema di prezzi di trasferimento. Sul punto, sarebbe dunque opportuno un chiarimento da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Nel caso in cui si aderisse alla interpretazione sopra delineata, si porrebbe un problema qualora, in sede di approvvigionamento, la società estera operasse sia sul mercato, sia all’interno del gruppo. In detta ipotesi occorrerebbe individuare un criterio per stabilire se le cessioni infragruppo effettuate corrispondono o meno ad acquisti infragruppo. Laddove non sia possibile utilizzare un criterio analitico, dovrà sembrerebbe opportuno fare riferimento agli ordinari criteri di rotazione del magazzino.
In linea di principio, dovrebbero essere escluse dall’ambito applicativo della disciplina CFC le fattispecie in cui l’impresa eserciti sui beni acquistati attività di trasformazione. In primo luogo, l’attività di trasformazione rappresenta, tipicamente, un’attività a valore aggiunto significativo e, pertanto, è difficilmente riconducibile alla fattispecie astratta della “compravendita di beni con valore economico scarso o nullo” recata dall’art. 16, comma 4, lett. b (cfr. sul punto infra). Inoltre, tale conclusione appare giustificata dalla considerazione che la Direttiva ATAD, le cui disposizioni il decreto ATAD recepisce nell’ordinamento italiano, limita la portata applicativa della disciplina CFC alle “società di [mera] fatturazione”. Pare dunque necessario escludere dall’ambito di applicazione della disciplina le attività diverse dalla semplice compravendita.
Prestazione di servizi
L’art. 167 TUIR fa testualmente riferimento ai “proventi derivanti da prestazioni di servizi, con valore economico scarso o nullo,effettuate a favore di soggetti” appartenenti al medesimo gruppo.
È pacifico che la disciplina CFC trovi applicazione con riferimento ai servizi, prestati a soggetti del gruppo, che rappresentano il “ribaltamento” di servizi prestati da altri soggetti appartenenti al medesimo gruppo.
Maggiormente problematica appare l’applicabilità della norma in questione ad ipotesi di “ribaltamento” di servizi acquistati all’esterno del gruppo. Il riferimento da parte della Direttiva ATAD, come per la compravendita di beni, ai soli servizi “acquistati da e venduti a” imprese associate [sottolineatura aggiunta] sembra deporre in senso negativo. Ad ogni modo, non si può escludere che la congiunzione “e” sia stata utilizzata in senso disgiuntivo, ovvero che il Decreto ATAD abbia inteso ampliare il ventaglio di ipotesi nelle quali trova applicazione la disciplina CFC[5] (ferma restando la facoltà di disapplicazione nell’ipotesi in cui sia dimostrabile lo svolgimento di una attività economica effettiva). Sarebbe opportuno un chiarimento sul punto.
Inoltre, si pone il problema di stabilire se la norma possa trovare applicazione nelle ipotesi di servizi di valore economico scarso o nullo prestati dalla società controllata estera, a soggetti appartenenti al medesimo gruppo, impiegando le proprie risorse interne (ad es. attività di supporto contabile). La ricomprensione di tale ipotesi non sembrerebbe trovare conferma nelle indicazioni della relazione illustrativa, la quale fa riferimento alle “prestazioni di servizi rese e ricevute” (analogamente a quanto previsto per la compravendita di beni; sottolineatura aggiunta). Anche la Direttiva ATAD sembrerebbe deporre in senso contrario, facendo riferimento, come già evidenziato, alle “società di fatturazione”. Come detto, non si può tuttavia escludere che il Decreto ATAD abbia inteso ricomprendere un ventaglio di ipotesi più ampio di quello previsto dalla Direttiva ATAD. Anche sotto tale profilo sarebbe dunque opportuno un chiarimento.
È infine d’uopo effettuare alcune considerazioni sulle attività di c.d. “procurement”,[6] svolte dalle società che operano quali “centrali-acquisto” nei confronti di terzi. Tali attività, nella prassi, sono regolate da contratti di acquisto da terzi, con obbligo di rivendita all’interno del gruppo. Si pone il problema di stabilire se tali attività debbano essere qualificate come compravendite di beni o come prestazioni di servizi. La questione assume rilevanza in quanto, tali attività, laddove qualificate come compravendita di beni, potrebbero non essere soggette alla disciplina CFC. Infatti, aderendo alla ricostruzione ermeneutica sopra enucleata, la disciplina CFC non sarebbe applicabile agli acquisti di beni effettuati da soggetti esterni al gruppo. Laddove invece tali attività fossero qualificate come prestazioni di servizi – trattandosi di servizi prestati ad un soggetto del gruppo – ricadrebbero nell’ambito applicativo della disciplina in esame (ciò ovviamente a condizione che siano qualificabili come attività a basso valore aggiunto). Nella maggioranza dei casi, dove il ritrasferimento è effettuato in maniera per così dire “automatica”, sulla base di uno specifico impegno contrattuale e senza l’assunzione di un rischio significativo, la fattispecie dovrebbe essere qualificata come prestazione di servizi. In tali ipotesi, troverà dunque applicazione, in linea di principio, la disciplina CFC.
Considerazioni di natura analoga sembrano poter trovare applicazione anche con riferimento alle attività di distribuzione a terzi svolte per conto di altre società del gruppo (nell’ipotesi in cui l’attività di distribuzione possa essere qualificata come prestazione di valore economico scarso o nullo). Di conseguenza, anche tali attività, laddove si tratti di attività svolte in assenza di un rischio significativo, dovrebbero essere qualificate come prestazioni di servizi (con conseguente applicabilità della disciplina CFC).
Nozione di attività “con valore economico aggiunto scarso o nullo”
Come anticipato, la disciplina CFC trova applicazione con riferimento alle attività di compravendita di beni e di prestazione di servizi solamente laddove queste abbiano un valore economico scarso o nullo. Al fine di individuare tali attività a valore economico aggiunto scarso o nullo occorre avere riguardo, ai sensi dell’art. 167 TUIR e della Relazione illustrativa, alle indicazioni contenute nel Decreto 14 maggio 2018. Tale provvedimento, come noto, fornisce alcuni criteri semplificati per individuare il c.d. “valore normale”, ai fini della disciplina in tema di transfer pricing, dei servizi a “basso valore aggiunto”. Tale rinvio, seppur operato dal testo legislativo con riferimento alle sole prestazioni di servizi, risulta applicabili, ai sensi della Relazione illustrativa, anche alle cessioni di beni.
Secondo il Decreto 14 maggio 2018, si considerano “a basso valore aggiunto” le attività che: a) hanno natura di supporto; b) non sono parte delle attività principali del gruppo multinazionale; c) non richiedono l’uso di beni immateriali unici e di valore, e non contribuiscono alla creazione degli stessi; d) non comportano l’assunzione o il controllo di un rischio significativo da parte del prestatore del servizio, né generano in capo al medesimo l’insorgere di un tale rischio. Tale definizione corrisponde sostanzialmente a quella contenuta nelle Linee Guida OCSE sui prezzi di trasferimento (2017), al par. 7.45 .
È opportuno evidenziare che le Linee Guida OCSE, con riferimento alla nozione di attività “a basso valore aggiunto”, forniscono anche sia una “positive list” (par. 7.47), che una “negative list” (par. 7.49). In base alla prima (positive list), sono considerate servizi a basso valore aggiunto, in estrema sintesi, le attività intercompany di natura contabile, legale, fiscale, burocratiche e amministrative, le attività informatiche, nonché le attività relative alle risorse umane, alla sicurezza e al recupero dei crediti. In base alla seconda (negative list), sono esclusi dalla nozione di servizio a basso valore aggiunto, oltre naturalmente alle attività core dell’impresa, anche le seguenti ulteriori attività: ricerca e sviluppo, servizi relativi alla produzione e alla lavorazione, acquisto di materie prime utilizzate nel processo produttivo, attività di vendita, marketing e distribuzione, transazioni finanziarie, sfruttamento di risorse naturali, assicurazione e riassicurazione, servizi di gestione della direzione aziendale (diversi dalla supervisione manageriale dei servizi a basso valore aggiunto).
In merito, si pone il problema di stabilire se, al fine di individuare le prestazioni di servizio con valore economico aggiunto scarso o nullo ai sensi dell’art. 167, comma 4, lett. b del Tuir, occorra avere riguardo, oltre alla definizione generale contenuta nel Decreto 14 maggio 2018, anche alle cd. “positive/negative list” incluse nelle Linee Guida OCSE.
In senso favorevole depone il fatto che il suddetto Decreto è emanato prendendo spunto dalle migliori pratiche internazionali, rappresentate in misura prevalente dalle Linee Guida OCSE (le quali appunto comprendono la positive e la negative list). Ciò permetterebbe, peraltro, di ridurre in capo al contribuente le difficoltà e le incertezze connesse ad analisi funzionali che potrebbero risultare aleatorie e complesse. In senso negativo rileva, tuttavia, il fatto che il rinvio operato dall’art. 167 TUIR riguarda esclusivamente la definizione generale di cui al Decreto 18 maggio 2018 (il quale non contempla alcuna positive o negative list). Una soluzione ragionevole parrebbe essere quella di consentire il riferimento alle positive e negative list quali linee guida non vincolanti.
Accettando tale impostazione, occorrerebbe peraltro risolvere alcune questioni.
In primo luogo, sarebbe necessario chiarire se le attività di semplice “ribaltamento”, all’interno del gruppo, di servizi riconducibili alla negative list possano essere in ogni caso considerate come attività a basso valore aggiunto. Sembra ragionevole concludere in senso positivo, in ragione del fatto che tale attività di “ribaltamento” sembra ricadere pacificamente nella definizione generale.
In secondo luogo, l’ambito applicativo di alcune delle ipotesi comprese nella negative list, quali le attività di vendita e distribuzione, o alcune attività finanziarie[7]. In talune ipotesi, tali attività potrebbero qualificarsi, oggettivamente, come attività a basso valore aggiunto (ad es. attività di distribuzione a rischio limitato). Si pone dunque il problema di stabilire se la disciplina CFC possa trovare applicazione con riferimento alle stesse.
Disapplicazione in caso di esercizio di un’attività economica effettiva
La disciplina CFC non trova applicazione laddove sia dimostrato che il soggetto controllato non residente svolga un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali. La Relazione illustrativa, così come la Direttiva, fa riferimento ad un’attività economica “sostanziale”.
Sotto il profilo testuale, l’esimente in commento si differenzia da quella prevista in relazione alla disciplina CFC, applicabile soggetti c.d. white, precedentemente contenuta nel comma 8-ter dell’art. 167 del Tuir. Tale esimente, infatti, trovava applicazione nel caso in cui la struttura estera non integrasse “una costruzione artificiosa volta a conseguire un indebito vantaggio fiscale”.
Occorre tuttavia considerare che la precedente esimente era stata formulata sulla base delle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia dell’Unione europea nella sentenza Cadbury-Schweppes del 12 settembre 2006 (causa C-196/04). Tale sentenza aveva rilevato la compatibilità delle discipline CFC con il diritto il diritto europeo (libertà di stabilimento) [8] solo nell’ipotesi in cui le stesse trovassero applicazione limitatamente alle “costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato”. Per contro, ad avviso della Corte, la disciplina CFC non potrebbe trovare applicazione laddove “da elementi oggettivi e verificabili da parte di terzi risulti che, pur in presenza di motivazioni di natura fiscale, la controllata è realmente impiantata nello Stato di stabilimento e ivi esercita attività economiche effettive” (causa C-196/04, punto 75 sottolineatura aggiunta[9]). In sintesi, anche al fine di dimostrare la non artificiosità della struttura estera in base alla precedente disciplina, occorreva fare riferimento all’effettività dell’attività economica svolta[10]. I concetti di “non artificiosità” e di “attività economica effettiva” dovrebbero dunque essere considerati sostanzialmente equivalenti. Ciò anche al fine di evitare che l’applicazione della disciplina CFC da parte dell’amministrazione o dei giudici italiani finisca per confliggere con il diritto primario dell’Unione. Da ciò discende che, al fine di disapplicare la disciplina CFC, sia ancora possibile avere riguardo alle indicazioni contenute nelle Circolari 6 ottobre 2010, n. 51/E e 26 maggio 2011, n. 23/E, sebbene relative alla disciplina previgente. Tali circolari, come noto, attribuiscono particolare rilevanza agli elementi idonei a dimostrare l’idoneità della struttura estera allo svolgimento dell’attività, all’effettività dell’attività svolta nonché all’autonomia gestionale della controllata estera.
Un particolare problema concerne l’ipotesi in cui i proventi “passive”, di cui all’art. 16, comma 4, lett. b, rappresentino una quota minoritaria (seppur superiore ad un terzo, soglia che fa scattare l’applicazione della disciplina in parola) dei ricavi complessivi, mentre i proventi residui (e maggioritari) derivino dall’esercizio di un’effettiva attività commerciale. In tale ipotesi si pone il problema di stabilire (i) se sia sufficiente la dimostrazione dello svolgimento di un’attività economica effettiva prevalente in termini di proventi generati, o (ii) se l’esimente debba essere dimostrata con specifico riferimento all’attività che ha generato i proventi “passive”. In assenza di chiarimenti al riguardo sembrerebbe preferibile aderire alla prima tesi, tenuto conto del tenore letterale della disposizione e del fatto che l’effetto della stessa è quello di imputare il reddito complessivo dell’ente estero controllato e non soltanto i redditi c.d. “passive”[11].
[1] Con riferimento a tale nuova disciplina introdotta dal Decreto ATAD, si vedano le osservazioni contenute nella “Audizione dell’Agenzia delle entrate – Vicedirettore dott. Paolo Valerio Barbantini” davanti alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato del 10 ottobre 2018, nonché nella “Audizione del capo ufficio tutela entrate comando generale guardia di finanza – col. t.st Luigi Vinciguerra” sempre del 10 ottobre 2018. Alcuni chiarimenti in merito alle modalità di determinazione del cd. “tax rate virtuale effettivo” dell’impresa estera sono stati inoltre forniti dall’Agenzia delle Entrate, nel corso degli incontri con la stampa specializzata (cd. “Telefisco 2019”), tenutosi in data 31 gennaio 2019. Si veda inoltre Assonime, Circolare 1 agosto 2018, n. 19 e, con riferimento specifico al recepimento in Italia della Direttiva ATAD, “Audizione informale del Condirettore generale dell’Assonime Ivan Vacca” davanti alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato del 4 ottobre 2018, pag. 12. Si veda inoltre il documento del CNDCEC Audizione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili del 16 ottobre 2018, pag. 13.
Si vedano, inoltre, sempre in dottrina, G. Albano, “Il recepimento della disciplina ATAD modifica la disciplina CFC”, in La gestione straordinaria delle imprese, 2018; ibidem, “Cfc, per il tax rate effettivo non si considera l’Irap”, in Quotidiano del fisco, 5 febbraio 2019; P. Arginelli – A. Massimiano, “L’intero reddito della CFC imputato ai residenti in proporzione agli utili”, in Il Sole – 24 Ore del 30 agosto 2018; D. Avolio- P. Ruggero, “Il recepimento della Direttiva ATAD e le nuove disposizioni in materia di CFC”, in il fisco, 2019, 3, p. 253; M. Bellini- S. De Giovanni, “Società, distributori di gruppo fuori dalle norme Cfc”, in Quotidiano del fisco, 4 febbraio 2019; A. Di Stefano- A. Porcarelli – G. Falduto “Cfc: un restyling in formato ATAD”, in Amministrazione & Finanza, 2019, 6; A. Furlan – L. Sormani, “Interrelazioni tra disciplina cfc e dividendi da società estere alla luce delle modifiche introdotte dal decreto ATAD: casi pratici”, in Fiscalità e Commercio Internazionale, 2019, 4; E. Lo Presti Ventura, “Proventi da compravendite di beni e da prestazioni di servizi critici ai fini CFC”, in Eutekne.info del 6 febbraio 2019; S. Massarotto- A. Privitera, “L’applicazione della disciplina CFC nei confronti degli OICR non residenti”, dirittobancario.it, Approfondimenti, 2018; L. Miele – G. Piccinini, “Nuovo regime CFC: eliminata la distinzione tra modelli black list e white list”, in Corr. Trib., 2018, 42, p. 3199; L. Miele, “La nozione di controllo del soggetto non residente ai fini della disciplina CFC”, in Corr. Trib., 2019, 5; F. Nicolosi, “Brevi osservazioni sulla nuova disciplina CFC recata dallo schema di Decreto ATAD”, in Riv. dir.trib., Supplemento on line del 17 settembre 2018; M. Piazza, “Regime unico per le Cfc europee ed extra Ue”, in Il Sole – 24 Ore del 2 gennaio 2019; 5, G. Rolle, “Adattamento alla disciplina ATAD delle norme interne su CFC, dividendi esteri e plusvalenze su partecipazioni”, in il fisco, 2018, 38, p. 3637; ibidem “ATAD e CFC. La necessità di una riforma fra armonizzazione minima e libertà del mercato interno”, ibidem, 2018, 32-33, p. 3150; M. Piazza, A. Della Carità, E. Baggio, “CFC e tassazione integrale dei dividendi esteri: breve guida al self-assessment” in Fiscalità e Commercio Internazionale, 2019, 5; R. Rizzardi, “La disciplina cfc: un punto fermo dopo la direttiva ATAD?”, in Corr. Trib., 2019, 3; A. Savorana – M. Piazza, “Criticità sull’inversione dell’onere della prova nel regime CFC”, in Eutekne.info dell’8 ottobre 2018; A. Serena- S. Pavanetto “Modifiche alla disciplina cfc e alla tassazione dei dividendi e plusvalenze black list”, in Bilancio e reddito d’impresa, 2019, 3; C. Silvani, “Per le controllate estere passive income test da definire”, in Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2019; M. Tenore, “Il regime CFC nella proposta di direttiva anti-beps alla luce delle recenti modifiche legislative”, in questa rivista, 2 marzo 2016.
Sulla disciplina CFC precedente al Decreto ATAD, cfr., limitandosi ai contributi pubblicati in questa rivista, P.Arginelli- C. Silvani, “L’individuazione dei regimi fiscali privilegiati ai fini dell’applicazione della disciplina CFC”, 5 ottobre 2016; G. Maisto, “La Corte di Cassazione si pronuncia sulla compatibilità della disciplina italiana sulle cfc con il diritto dell’unione europea e le convenzioni per evitare le doppie imposizioni”, 23 febbraio 2016.
[2] Cfr., in senso analogo, “Audizione informale del Condirettore generale dell’Assonime Ivan Vacca” davanti alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato, del 4 ottobre 2018, p. 12. In senso critico, cfr. AIDC, Integrazione denuncia Commissione incompatibilità norme UE del 26 settembre 2018 e Audizione del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili davanti alla Commissione Finanze e Tesoro del Sentato del 16 ottobre 2018, pag. 13.
[3] In tal senso, a commento della bozza di Decreto ATAD, sia consentito di rinviare a Nicolosi, “Brevi osservazioni sulla nuova disciplina CFC recata dallo schema di Decreto ATAD”, in questa rivista, 17 settembre 2018.
[4] In tal senso, cfr. E. Lo Presti Ventura, “Proventi da compravendite di beni e da prestazioni di servizi critici ai fini CFC”, in Eutekne.info del 6 febbraio 2019.
[5] Difatti, mediante tali operazioni potrebbero essere allocati redditi all’estero, “triangolando” gli acquisti di servizi effettuati all’esterno del gruppo, mediante una società residente in uno Stato a bassa fiscalità. Tuttavia, l’addebito al soggetto italiano di un mark up eccessivo potrebbe essere contrastato mediante l’applicazione della disciplina in tema di prezzi di trasferimento.
[6] Si veda, sul punto, M. Bellini e S. De Giovanni, “Società, distributori di gruppo fuori dalle norme CFC”, in Quotidiano del fisco, 4 febbraio 2019.
[7] La questione, in ogni caso, è controversa anche con specifico riferimento al transfer pricing. Si veda sul punto, G. Maisto, “Transfer pricing aspects of low value-adding services”, in (a cura di) Lang, Storck, Petruzzi, Transfer pricing in a post-BEPS World, Alphen aan den Rijn 2016, pp. 145- 158, ove vengono sollevate alcune perplessità in merito all’esclusione tout court dei servizi finanziari dal novero dei servizi a basso valore aggiunto.
[8] Cfr. art. 49 del TFUE (ex articolo 43 del TCE).
[9] Il medesimo principio è ribadito anche nella successiva sentenza 13 marzo 2007, Causa C-524/04, Test Claimants in the Thin Cap Group Litigation.
[11] Sembra fare riferimento all’attività economica svolta dal soggetto estero nel suo complesso anche la Direttiva ATAD, la quale, al dodicesimo considerando, precisa che: “[a]l fine di rispettare le libertà fondamentali, le categorie di reddito dovrebbero essere combinate con un’esclusione basata sulla sostanza economica intesa a limitare, all’interno dell’Unione, l’impatto delle norme ai casi in cui la società controllata estera non svolge un’attività economica sostanziale”.
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