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L’Agenzia delle entrate e la scissione societaria: ovvero come dovrebbe ridursi il patrimonio netto della scissa (e alimentarsi il netto contabile della beneficiaria)
Di Marco Di Siena -
1. È indubbio che le più recenti interpretazioni dell’Agenzia delle Entrate in tema di scissione abbiano smussato molte delle asperità (e dei timori) che per lungo tempo hanno contraddistinto l’analisi di questa operazione: in tal senso depongono sia gli approcci meno selettivi rispetto alle ipotesi di operazione non proporzionale o asimmetrica sia i meno rigidi orientamenti in tema di scissione di patrimoni di natura immobiliare.
Tuttavia, in quella che parrebbe una nouvelle vague tesa a valorizzare (anche in un’ottica impositiva) la flessibilità tipica della scissione, emergono (e anche in maniera abbastanza ruvida) talune rigidità interpretative: non è chiaro se si tratti di sussulti estemporanei di un rigore antiabuso un po’ old style o se si tratti di elaborazioni adeguatamente meditate; ciò che certo è che fra le righe di talune delle più recenti pronunzie dell’Agenzia delle Entrate emergono affermazioni sulle quali è opportuno brevemente riflettere.
È questo il caso, ad esempio, delle indicazioni sulle modalità con cui (in caso di scissione di elementi patrimoniali dal valore algebrico contabile complessivamente positivo) si dovrebbe operare la riduzione del patrimonio netto della società scissa (e, di conseguenza, alimentare il netto contabile della entità beneficiaria). Si tratta di una tematica che, seppure in maniera incidentale, è stata affrontata dall’Agenzia in (almeno) due occasioni.
2. Nella risposta n. 139 del 2018, ad esempio, si afferma “(…) preliminarmente che, ai fini fiscali, la composizione del patrimonio netto (che residua dopo la ricostituzione delle riserve in sospensione d’imposta) destinato alla società beneficiaria dovrà rispecchiare, percentualmente, la natura di capitale e/o di riserve di utili esistenti nelle scisse antecedentemente l’operazione di scissione; in altri termini, dal punto di vista fiscale, il patrimonio netto (residuo) attribuito alla società beneficiaria dovrà considerarsi formato nel rispetto della natura (capitale o utile) delle poste di patrimonio netto presenti nelle società scisse e nelle medesime proporzioni (senza considerare nella proporzione le riserve in sospensione d’imposta già ricostituite dalla società beneficiaria)”. E un principio sostanzialmente analogo e complementare è stato ribadito (anche in questo caso nel contesto di un iter argomentativo più complesso) nella risposta n. 2 del 2019 ove si precisa che “Per quanto riguarda la posizione della scissa, in generale, va rilevato che anche la scissa (pur ordinariamente libera di scegliere, sotto il profilo civilistico, le voci ideali di netto che possono essere utilizzate per alimentare il patrimonio della beneficiaria), coerentemente con quanto previsto per la beneficiaria, è tenuta a ridurre, ai fini fiscali, il proprio patrimonio netto in misura proporzionale alla ripartizione capitale/riserve di capitale e riserve di utili presenti ante scissione, al fine di garantire una simmetria e una continuità della qualificazione delle poste di patrimonio netto trasferite alla beneficiaria con la scissione che rappresentano espressioni del principio di neutralità fiscale. Pertanto, per effetto della rappresentata scissione, anche il patrimonio netto della BETA (id est della scissa – n.d.r. -) dovrà essere ridotto, sotto il profilo fiscale, in misura proporzionale tenendo conto del rapporto capitale/riserve di capitale e riserve di utili presenti ante scissione (dando atto di tale ripartizione nel “Prospetto del capitale e delle riserve” presente nella dichiarazione dei redditi del periodo d’imposta in cui l’operazione di scissione ha avuto efficacia)”.
In ultima analisi, secondo l’Agenzia delle Entrate, la selezione delle poste di netto contabile da cui la scissa può attingere per alimentare il patrimonio della beneficiaria sarebbe vincolata: la scissa sarebbe di fatto tenuta a ridurre proporzionalmente tutte le poste del proprio netto le quali, come tali, si rifletteranno nel patrimonio della beneficiaria (indipendentemente dalla qualificazione che le stesse assumeranno in capo a quest’ultima da un punto di vista contabile).
Volendo esemplificare, nell’ipotesi in cui: i) la scissa sia titolare di un patrimonio netto contabile di 100 rappresentato per 90 da capitale sociale e per 10 da riserve di utili disponibili (non in sospensione d’imposta); e ii) venga deliberata la scissione di elementi patrimoniali dal valore contabile complessivo di 10, la società scindenda non potrà imputare integralmente il decremento patrimoniale alla riserva di utili disponibile ma dovrà necessariamente ridurre il proprio capitale sociale di 9 e la riserva di utili di 1. Così come, in modo speculare, l’incremento di netto contabile della beneficiaria sarà rappresentato al 90% da poste da apporto e per il 10% da riserve di utili. Il tutto, asseritamente, in ossequio al principio della neutralità fiscale della scissione in quanto tipica operazione sui soggetti.
3. Va dato atto all’Agenzia delle Entrate della consapevolezza dei limiti delle proprie affermazioni tant’è che l’efficacia delle stesse viene limitata al solo campo della fiscalità lasciando, alle società partecipanti all’operazione, piena libertà di gestione del netto da un punto di vista civilistico.
V’è da dire, tuttavia, che questo self-restraint – se ha un’indubbia ragionevolezza (il diritto vivente delle società commerciali non pone alcun limite alla selezione delle poste di netto della scissa destinate ad alimentare il patrimonio della beneficiaria) – è foriero di indubbie complicazioni di ordine pratico e comunque suscita perplessità; e ciò non tanto per il principio di simmetria qualitativa fra il decremento di netto della scissa e l’incremento patrimoniale della beneficiaria (circostanza che appare del tutto sistematica) né per l’affermazione per cui l’incremento patrimoniale della beneficiaria è destinato a mantenere la natura fiscale del patrimonio della scissa quand’anche sia riqualificato in capo alla beneficiaria (ad esempio come capitale sociale pur essendo stato alimentato da riserve di utili) quanto, piuttosto, per l’obbligo (di sola matrice fiscale) di sezionamento integrale di tutto il patrimonio netto contabile della società scissa.
Come posto in luce dalla stessa prassi erariale richiamata, infatti, l’affermato obbligo di decremento proporzionale: i) non esplica alcun effetto da un punto di vista societario e contabile; e ii) per l’effetto può condurre a una eterogenea composizione del netto contabile (tanto della scissa quanto della beneficiaria) a seconda che si abbia riguardo all’assetto bilancistico e a quello fiscale. Il che, con tutta evidenza, rappresenta una conseguenza abbastanza artificiosa di cui non si ravvisava l’esigenza.
Preso atto, tuttavia, che questo è lo stato dell’arte dell’interpretazione erariale è doveroso chiedersi se la soluzione prefigurata abbia un’effettiva ragione d’essere ed è altresì corretto domandarsi se la ratio evocata dall’Agenzia delle Entrate (id est il rispetto del principio di neutralità fiscale tipico della categoria fiscale delle operazioni sui soggetti a cui la scissione è senz’altro riconducibile) sia effettivamente in grado di giustificare la conclusione formulata.
4. Prima di cercare di fornire un sintetico riscontro a tali quesiti va detto che la soluzione sancita dalla prassi erariale non presenta i tratti dell’assoluta novità, anzi – sotto taluni profili – essa ha una origine antica.
In occasione dell’introduzione della scissione ad opera del D.Lgs. 22/91, il Prof. Ferro Luzzi (La nozione di scissione in Giur.comm., 1991, I, pag. 1065 e ss.) – in un primissimo commento alla novella – espresse l’opinione che la composizione del netto della beneficiaria dovesse riprodurre quella della scissa e che il decremento patrimoniale di quest’ultima dovesse interessare tutte le singole poste di netto, ponendosi così come vero precursore ante litteram dell’interpretazione erariale in commento.
Va tuttavia rammentato come siffatta posizione interpretativa rimase sostanzialmente isolata e sin da subito si affermò nel diritto commerciale vivente il principio per cui non sussisteva alcun vincolo di alimentazione coatta del netto della beneficiaria ben potendosi prelevare le poste patrimoniali impiegate per tale finalità da qualsiasi componente del netto della scissa. Tale conclusione rispondeva anche a una logica di semplificazione dato che, altrimenti, qualsiasi scissione (anche di minima entità economica) avrebbe dovuto comportare un sezionamento trasversale di tutto il patrimonio netto contabile della società scindenda; il che apparve sin da subito un’inutile complicazione antitetica rispetto al principio di autonomia privata (risolvendosi di fatto in una coartazione della volontà dei soci della scissa costretti a ridurre verticalmente tutto il patrimonio della scissa).
5. Al di là dei natali dell’interpretazione di recente formulata dall’Agenzia delle Entrate, tuttavia, permangono i quesiti fondamentali a cui occorre cercare di dare una risposta. In primis: quale la ratio profonda sottesa alla posizione espressa quasi incidentalmente ma in modo fermo?
V’è motivo di ritenere che la risposta in termini di puro sezionamento proporzionale del netto della scissa risponda ad un timore profondo dell’Agenzia dell’Entrate (talmente profondo da indurla a cagionare una notevole complicazione determinando una pressoché certa composizione alternativa del netto contabile e fiscale delle società partecipanti ad una scissione visto che nella prassi è rarissimo che si dia corso ad un decremento proporzionale di tutte le poste del netto contabile della scissa): vale a dire il timore che l’attribuzione di una piena discrezionalità in tema di decremento del patrimonio della scissa e la conseguente alimentazione libera del netto della beneficiaria possano prestarsi a manovre di natura elusiva in senso lato. In altri termini è ragionevole ritenere che l’affermazione del criterio della pura proporzionalità (id est del sezionamento integrale del patrimonio netto della scissa) sia stato indotto dal timore che i contribuenti, miscelando poste di capitale e poste di utili, possano conseguire un qualche imponderabile vantaggio tributario.
Ma si tratta di un timore infondato e per una pluralità di ragioni. In primis perché, a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. 344/2003, la differenza fra la percezione di poste di utili e la percezione di poste di capitale è abbastanza limitata (almeno per il soggetto titolare di reddito d’impresa). La percezione di poste di capitale in eccedenza rispetto al costo fiscale della partecipazione, infatti, è generalmente assoggettata a un regime di imposizione limitato (in quanto provento in regime di participation exemption) così come lo è la percezione di un dividendo rappresentato da utili ai sensi dell’art. 89 del TUIR. Le possibilità di arbitraggio impositivo (che sembrano destinate a concretizzarsi nel momento della distribuzione delle poste in favore dei soci), quindi, sembrano abbastanza limitate.
Peraltro, la specifica interpretazione formulata dall’Agenzia delle Entrate appare anche in controtendenza rispetto allo spirito che ha animato taluni revirements ermeneutici ugualmente in materia di scissione.
Solo pochi anni fa, infatti – dopo avere per lungo tempo sostenuto la tesi antitetica – l’Agenzia delle Entrate ha sdoganato (si veda la risoluzione n. 52/E del 2015) la soluzione del sezionamento da parte del socio del costo originario della partecipazione nella scissa in base al criterio del valore economico e non più contabile delle partecipazioni derivanti dall’operazione (al riguardo cfr. M. DI SIENA Segmentazione del costo della partecipazione della società scissa: il primato della “substance over form” si rafforza, in Rass. trib., 2017, pag. 221). Un’interpretazione che sembrava andare verso un’impostazione meno ancorata al dato contabile rispetto al passato e che, quindi, sembrava preludere a una concezione della scissione ispirata al criterio della flessibilità e della tendenziale coincidenza fra la dinamica civilistica e sostanziale dell’operazione, da un lato, e quella più propriamente fiscale, dall’altro lato. Rispetto a tale nuovo corso (peraltro confermato anche dalle reiterate aperture della più recente prassi erariale in materia di scissione di patrimoni immobiliari) le affermazioni in punto di necessaria proporzionalità del decremento del netto della scissa appaiono oggettivamente in controtendenza e, soprattutto, non sembrano rispondere a un’effettiva ratio se non all’atavico metus che una discrezionalità eccessiva possa occultare forme di arbitraggio patologico (un fil rouge ben noto alla disciplina tributaria della scissione se solo si pone mente alla circostanza che, all’atto della introduzione dello specifico istituto nel TUIR, la configurazione non proporzionale dell’operazione era presunta iuris et de iure come elusiva).
6. Ma oggi – nell’attuale milieu interpretativo che presiede alla disciplina fiscale della scissione – ha un senso introdurre una limitazione come quella in esame? E’ logico dubitarne.
In prima istanza perché – e tale profilo non deve passare sotto silenzio – tale ipotetica proporzionalità coatta risulta affermata dall’Agenzia delle Entrate in maniera totalmente metanormativa. In termini più chiari, nell’attuale configurazione dell’art. 173 del TUIR non è ravvisabile alcun elemento di ordine lessicale (neanche in una prospettiva indiziaria) che deponga nel senso prefigurato dall’Agenzia delle Entrate. Anzi, ad eccezione della dinamica propria delle riserve in sospensione d’imposta, le modalità di decremento del netto contabile della scissa e di alimentazione del patrimonio della beneficiaria sono del tutto estranee all’ordito normativo fiscale. Ciò significa che l’interpretazione erariale cui ci si riferisce in questa sede finisce per sovrapporsi in maniera autoritativa all’autonomia privata delle parti finendo per imporre una configurazione fiscale del patrimonio netto (alternativa a quella civilistico–contabile) senza che, tuttavia, la normativa tributaria faccia mai cenno alla specifica tematica; il che non appare condivisibile perché, di fatto, traccia una regola di esclusiva matrice fiscale laddove la disposizione tributaria di riferimento nulla dice in proposito e, soprattutto, laddove il diritto comune depone in senso antitetico.
V’è anche, poi, un tema di proporzionalità di detta interpretazione. Come detto infatti – oltre che metanormativo – il criterio della segmentazione proporzionale coattiva sembra rispondere in maniera eccessiva al timore di possibili arbitraggi elusivi; arbitraggi i cui reali confini appaiono difficili da individuare. E’ come se, in presenza di un indefinito timore di abusi, per reazione la rigidità venga valorizzata come elemento di serenità (nella stessa logica per cui, nella prassi interpretativa erariale, il sezionamento del costo della partecipazione in capo al socio della scissa è rimasto lungamente ancorato al solo dato contabile, oggettivamente sprovvisto di qualsiasi margine di discrezionalità valutativa, pur nella consapevolezza che tale criterio ben poteva condurre a risultati distanti dagli economics effettivi sottesi all’operazione). L’interpretazione proposta dall’Agenzia, proprio perché mira a contrastare rischi in astratto connessi a un eccesso di discrezionalità – discrezionalità invece ammessa dal diritto comune, che dovrebbe rappresentare l’unico riferimento rilevante considerato che, come detto, non è ravvisabile alcuna indicazione antitetica di ordine impositivo – finisce per tradursi in una misura eccessiva rispetto all’obiettivo che si intenderebbe perseguire.
7. Ciò conduce a interrogarsi su quella che l’Agenzia delle Entrate individua quale ratio giustificativa sottesa alla propria interpretazione: la neutralità fiscale tipica della scissione. Se bene s’intende, l’anelasticità propria del sezionamento proporzionale di tutte le componenti del patrimonio netto della scissa costituirebbe un corollario necessario della neutralità fiscale; ma questa sorta di corrispondenza immediata fra neutralità e anelasticità (tale è l’effetto del sezionamento coattivo dell’intero patrimonio netto contabile della scissa) non sembra avere un solido fondamento (pur se inespresso).
Il criterio di neutralità che presiede alla disciplina della scissione nel suo complesso quale operazione sui soggetti esplica, infatti, la propria vis applicativa lungo più direttrici, nessuna delle quali sembra interessare la tematica in esame.
È sì vero che la neutralità costituisce una sorta di fil rouge sotteso all’art. 173 del TUIR e rileva sia nella prospettiva della scissa (escludendo che per effetto dell’operazione emergano in capo alla stessa plusvalori o minusvalori imponibili – cfr. art. 173, comma 1, del TUIR -), sia in quella della beneficiaria (destinata ad acquisire gli elementi patrimoniali oggetto di scissione secondo l’ultimo valore fiscale ad essi riconosciuto presso la scissa – cfr. art. 173, comma 2, del TUIR), che infine nell’ottica del socio della società scindenda (per il quale l’effetto permutativo in senso lato delle partecipazioni detenute in ragione della scissione non genera materia imponibile fatti salvi i casi di conguaglio pecuniario – cfr. art. 173, comma 3, del TUIR). Ed è altresì innegabile che, in qualche modo, anche la disciplina delle riserve in sospensione d’imposta (cfr. art. 173, comma 9, del TUIR) e quella delle cosiddette posizioni soggettive della scissa (cfr. art. 173, comma 4, del TUIR) – postulando una diretta correlazione con il patrimonio netto tesa ad evitare salti d’imposta o comunque ad assicurare una continuità organizzativa e fiscale – possono essere considerati come un riflesso del principio della neutralità (inteso come principio che, in termini generali, esclude che l’operazione determini immediate conseguenze impositive).
Tuttavia, pur essendo il principio di neutralità un concetto immanente all’istituto della scissione, la correlazione con il fenomeno della segmentazione del patrimonio netto contabile della scissa non appare immediata; non si comprende infatti per quale ragione il sezionamento di tutte le componenti del patrimonio netto della scissa in caso di scissione sarebbe più neutrale da un punto di vista fiscale. Se il nucleo essenziale della neutralità fiscale è ravvisabile nell’inidoneità a generare imponibile fiscale o nella capacità di impedire cosiddetti salti d’imposta, è di tutta evidenza come rispetto a tali situazioni le modalità di decremento patrimoniale della società scissa appaiono sostanzialmente ininfluenti.
Né a conclusioni differenti sembra lecito addivenire ove si interpreti la neutralità fiscale della scissione quale diretta conseguenza della natura (meramente) riorganizzativa della stessa secondo il diritto societario (con la conseguenza che, essendo un atto dell’organizzazione e di mera modifica del contratto di società originario, la scissione sarebbe naturalmente inidonea a cagionare effetti impositivi).
Proprio la circostanza che nella disciplina di diritto comune sia ammessa la possibilità di ridurre il patrimonio netto della scissa decrementando solo talune delle poste del netto contabile della stessa e non anche altre dà la prova (negativa) che non è di certo questa accezione di neutralità di lontana ascendenza giuscommerciale a poter giustificare la soluzione prefigurata dall’Agenzia delle Entrate. Cosa resta, dunque, della citazione del principio di neutralità quale ratio giustificativa dell’interpretazione erariale cui è dedicato questo breve commento? Davvero poco. Sembra più una formula per dar corpo a una soluzione (abbastanza) apodittica che non l’esito di un’approfondita analisi dei contenuti del principio di neutralità. V’è allora da attendersi che, così come avvenuto su altri specifici aspetti della scissione, anche sul sezionamento coattivo integrale del patrimonio netto della scissa l’Agenzia delle Entrate possa tornare presto e in maniera più strutturata evitando di declinare interpretazioni rigide che rischiano di apparire sistematicamente ingiustificate.
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