Nella sentenza della Corte di Giustizia UE qui in rassegna i giudici europei hanno affermato che “uno Stato membro non può subordinare la riduzione della base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto all’infruttuosità di una procedura concorsuale qualora una tale procedura possa durare più di dieci anni”.
Già il successivo 24 novembre 2017 sono state espresse valutazioni positive su questa pronuncia (cfr. F. Ricca, Italia ko sul recupero dell’IVA, in Italiaoggi; A Abagnale – B. Santacroce, Recupero Iva con iter più veloce, in Il Sole 24 Ore; M. Peirolo, La procedura di variazione IVA è illegittima sul piano UE, in Ipsoa, Quotidiano fisco). Dai primi commenti, in effetti, emerge una diffusa convinzione: non sarebbe più procrastinabile un intervento del legislatore sull’art. 26, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972 perché la sentenza in esame riconoscerebbe definitivamente la non conformità della disciplina nazionale IVA in tema di note di variazione in diminuzione statuita da tale comma rispetto alle previsioni contenute nell’art. 90 della direttiva IVA n. 112/2006 che, com’è noto, dispone che “in caso di annullamento, recesso, risoluzione, non pagamento totale o parziale o riduzione di prezzo dopo il momento in cui si effettua l’operazione, la base imponibile è debitamente ridotta alle condizioni stabilite dagli Stati membri” (par. 1) e “in caso di non pagamento totale o parziale, gli Stati membri possono derogare al paragrafo 1” (par. 2).
In questa sede, però, merita formulare qualche osservazione critica provando a riassumere brevemente i termini del problema.
Il nostro legislatore – avvalendosi della possibilità di deroga offerta dal par. 2 dell’art. 90 – ha ritenuto opportuno “blindare” la possibilità di emettere una nota di variazione in diminuzione ai fini IVA nell’ipotesi di mero inadempimento contrattuale: ai sensi del comma 2 dell’art. 26, infatti, non ogni mancato pagamento del corrispettivo legittima l’emissione di una nota di variazione in diminuzione ma rileva esclusivamente il “mancato pagamento” che deriva da un’insolvenza del debitore ormai conclamata e irreversibile, perché derivante dalla chiusura di procedure esecutive, individuali o concorsuali, rimaste infruttuose (per approfondimenti sul tema si vedano B. Denora, Procedure concorsuali infruttuose e note di variazione in diminuzione ai fini IVA: la tutela del creditore a fronte dell’inadempimento del debitore, in Riv. Dir. Trib., 2013, I, 641; P. Santin, Variazioni Iva e crisi dell’impresa: per un’interpretazione comunitariamente orientata della nuova disciplina, in Rass. Trib., 2015, 99).
Per la verità, la disposizione in esame era stata oggetto di un profondo ripensamento nel 2015: la legge di stabilità 2016 (art. 1, commi 126 e 127, legge 28 dicembre 2015, n. 208) aveva, infatti, modificato l’art. 26, prevedendo, tra l’altro, la possibilità per il creditore di emettere note di variazione in diminuzione a fronte dell’inadempimento del debitore “a partire dall’apertura” della procedura concorsuale in tutti i casi in cui il cessionario o il committente fosse stato assoggettato ad una procedura concorsuale successivamente al 31 dicembre 2016. In tal modo, peraltro, il trattamento IVA dell’inadempimento contrattuale “manifestatosi” con l’apertura della procedura concorsuale sarebbe stato parificato a quello previsto nell’ambito delle imposte sui redditi. Tuttavia, questa nuova previsione non è mai entrata in vigore perché il legislatore nel 2016 – con un repentino revirement – ha prontamente abrogato i suddetti commi (cfr. art. 1, comma 567, lett. d), legge 11 dicembre 2016, n. 232; abrogazione decorrente dal 1° gennaio 2017).
In merito alla conformità o meno del citato art. 26, comma 2, del decreto IVA rispetto al quadro normativo europeo e, precisamente, rispetto a quanto previsto dall’art. 90 della direttiva, la Corte di Giustizia nella sentenza in commento ha affermato, in via generale, che:
diversamente dalle ipotesi di annullamento, recesso o risoluzione, il mancato pagamento del corrispettivo non comporta il venir meno dell’operazione imponibile in quanto il cessionario o il committente resta comunque “debitore del prezzo convenuto” e il cedente o il prestatore “dispone sempre – in linea di principio – del suo credito, che può far valere in sede giurisdizionale” (punto 16);
il legislatore europeo ha concesso ai singoli Stati membri UE una “facoltà di deroga” in relazione all’ipotesi di mancato pagamento del corrispettivo in considerazione del fatto che, di per sé, il non pagamento “può essere difficile da accertare o essere solamente provvisorio” (punto 17). Precisamente, la direttiva lascia “a ciascuno Stato membro la scelta di determinare se la situazione di non pagamento del prezzo di acquisto, la quale, di per sé, contrariamente alla risoluzione o all’annullamento del contratto, non pone nuovamente le parti nella situazione iniziale, attribuisca diritto alla riduzione della base imponibile nell’importo dovuto alle condizioni che esso stabilisce, o se siffatta riduzione non sia ammessa in tale situazione”;
qualora lo Stato membro si sia avvalso della suddetta facoltà di deroga i soggetti passivi non possono far valere sulla base del citato art. 90 “un diritto alla riduzione della loro base imponibile dell’IVA in caso di non pagamento del prezzo” (punto 19);
tuttavia, anche se gli Stati membri devono avere la possibilità di “far fronte all’incertezza intrinseca al carattere definitivo del non pagamento di una fattura”, tale possibilità “non può estendersi al di là di tale incertezza”, di modo che gli Stati membri non sono legittimati a escludere del tutto la riduzione della base imponibile dell’IVA.
Sulla base di tali premesse generali e fermo restando che la dimostrazione del “carattere definitivo” del non pagamento di una fattura è circostanza che, di per sé, presenta sempre un’inevitabile “incertezza intrinseca”, la Corte di Giustizia ha precisato che spetta alle autorità nazionali la possibilità di stabilire “nel rispetto del principio di proporzionalità e sotto il controllo del giudice, quali siano le prove di una probabile durata prolungata del non pagamento che il soggetto passivo deve fornire in funzione delle specificità del diritto nazionale applicabile”. Tuttavia, nell’ambito di una legislazione nazionale come quella italiana, “la certezza della definitiva irrecuperabilità del credito può essere acquisita, in pratica, solo dopo una decina di anni” mentre, in via di principio, il diritto alla riduzione della base imponibile potrebbe essere accordato “allorché il soggetto passivo segnala l’esistenza di una probabilità ragionevole che il debito non sia saldato, anche a rischio che la base imponibile sia rivalutata al rialzo nell’ipotesi in cui il pagamento avvenga comunque”.
Com’è facile intuire, le conclusioni della Corte di Giustizia sono piuttosto circoscritte: i giudici infatti si limitano a valutare negativamente il fatto che l’emissione delle note di variazione in diminuzione sia subordinata alla chiusura della procedura concorsuale (anche) nell’ipotesi in cui tale procedura duri più di dieci anni. In altri termini, nell’ottica della Corte il problema non è rappresentato dal fatto che la norma italiana condizioni l’emissione della nota di variazione alla “chiusura” di una procedura esecutiva, bensì che in Italia le procedure concorsuali possano durare anche più di dieci anni. Ed infatti, in conclusione, nella sentenza si afferma sic et simpliciter che il termine di dieci anni è troppo lungo ed è “in ogni caso, tale da far sopportare agli imprenditori soggetti a detta legislazione, nei casi di non pagamento di una fattura, uno svantaggio in termini di liquidità rispetto ai loro concorrenti di altri Stati membri manifestamente in grado di compromettere l’obiettivo di armonizzazione fiscale perseguito dalla sesta direttiva”.
Una conferma del fatto che alla pronuncia in rassegna debba essere assegnata questa limitata valenza proviene, a mio avviso, anche da un rapido raffronto con le conclusioni presentate l’8 giugno 2017 dall’avvocato generale Kokott, che sono di ben altro tenore. Infatti, in esse si afferma perentoriamente che l’individuazione del dies a quo nella “chiusura” della procedura concorsuale concernente il destinatario della prestazione comporta una limitazione sproporzionata del diritto di emettere note di variazione in diminuzione. Più in particolare, nel corposo documento si evidenzia (punto 66) che “nella normativa in materia di IVA non viene fatta distinzione fra crediti il cui mancato pagamento è definitivamente certo e crediti in relazione ai quali tale certezza non sussiste” ed anzi “né il testo né la ratio e la finalità dell’articolo 90, paragrafo 2, della direttiva IVA consentono un’interpretazione in forza della quale una rettifica potrebbe essere esclusa fino a quando non risulti, con una probabilità che sfiora la certezza – ossia solo dopo l’apertura o la conclusione della procedura concorsuale –, che un pagamento non avrà più luogo”. Di conseguenza, in ossequio ai principi di neutralità e proporzionalità che governano il tributo in esame, un “prefinanziamento” dell’IVA – intesto come “raccolta e versamento di imposte altrui senza ricevere l’importo dal debitore dell’imposta” – per “periodi di tempo pluriennali non può venire in considerazione” (punto 69).
A questo punto ci si può domandare se, alla luce dei principi espressi nella sentenza in rassegna, il legislatore sia ora obbligato ad intervenire sull’art. 26 in modo drastico, magari “ripristinando” nuovamente le modifiche normative naufragate nel 2016, oppure se possa limitarsi ad operare solo un leggero “maquillage” alla citata disposizione al fine di precisare che una volta trascorso un determinato termine “pluriennale” – da individuare in uno, cinque, sette anni? – la nota di variazione in diminuzione si può comunque emettere.
In attesa degli auspicabili interventi normativi, però, occorre prendere atto della nuova chance offerta al creditore rimasto insoddisfatto: egli sembrerebbe ora verosimilmente legittimato ad emettere comunque una nota di variazione in diminuzione a fronte di una procedura esecutiva avviata nei confronti del debitore che, pur essendo ancora aperta, abbia ormai superato il decennio.
Sul punto, attesa la delicatezza della questione, sarebbero quanto mai opportuni chiarimenti ufficiali da parte dell’Amministrazione finanziaria.
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