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Incerto inquadramento dell’emergenza rifiuti del 2008, diritto alla riduzione della TARSU e onere di provare il mancato svolgimento del servizio di raccolta
Con la recente ordinanza 27 settembre 2017, n. 22531, la Cassazione si è pronunciata sulle conseguenze tributarie dell’“emergenza rifiuti” del 2008 nel Comune di Napoli, chiarendo che presupposto del diritto alla riduzione della Tarsu prevista dall’art. 59, co. 4, D.Lgs. n. 507/1993, non era una qualche responsabilità dell’ente locale ma il «fatto obiettivo» che il servizio di raccolta, istituito e attivato, (a) non fosse stato svolto nella zona dell’utente, (b) o lo fosse stato «in grave violazione delle prescrizionidel regolamento del servizio di nettezza urbana» (distanze, capacita dei contenitori, frequenza della raccolta) volte ad assicurare che fosse agevole usufruirne. E ancorché la società ricorrente avesse «invoca(to) la notorietà» di quella emergenza sanitaria e ambientale, in considerazione della sua «complessità e non uniforme manifestazione» territoriale, la Corte ha demandato al giudice di merito di accertarla nella «specifica situazione» controversa e ha posto a carico dell’azienda alberghiera resistente alla pretesa municipale l’onere di provare «ogni elemento fattuale utile a verificare la ricorrenza in concreto di un disservizio del tipo previsto dall’art. 59, co. 4^ cit.»: nonostante la regolarità del servizio di raccolta fosse un fatto «costitutivo» della pretesa comunale (per la quota riferibile al servizio stesso) e la contribuente l’avesse specificamente contestata, forse persino senza avversa “reazione”.
Sembrerebbe, infatti, che l’interruzione del servizio estesa all’intera area municipale non fosse mai stata in discussione o che la contesa fosse, essenzialmente, in punto di rilevanza e sussistenza di una qualche responsabilità del Comune; responsabilità che la Cassazione – al contrario di alcune Commissioni di merito (CTP Caserta, sez. XIV, 44/2008) – ha giudicato estranea ai presupposti della “riduzione tributaria” in contestazione, alla luce del chiaro dictum della relativa previsione normativa e del successivo comma 6 laddove, soltanto nel definire le conseguenze di una «interruzione temporanea del servizio di raccolta», il legislatore aveva dato rilievo alla «imprevedibilità» e «non imputabilità» «del disservizio» «alla sfera tecnico-organizzativa dell’amministrazione comunale», escludendo «l’esonero o la riduzione dal tributo». Neanche il «regolamento» del Comune di Napoli poteva costituire ostacolo alla riduzione del tributo dovuto ma, al contrario, andava «disapplicato» nella parte in cui, considerando “esimenti” «situazioni emergenziali legate alla saturazione degli impianti terminali di conferimento dei rifiuti solidi urbani» che «renderebbe(ro) il disservizio non imputabile all’amministrazione comunale», finiva per restringere «le ipotesi di riduzione tariffaria di cui all’art. 59, co. 4 cit.» e per introdurre, «ex novo, una causa di giustificazione della mancata prestazione del servizio» «estranea tanto alla lettera quanto alla ratio della legge istitutiva del tributo» (cfr., già, CTP Napoli, sez. XXVIII, 90/2011).
D’altra parte, nell’intento di realizzare un «più diretto collegamento tra fruibilità del servizio» e «applicabilità della tassa», così come richiesto dalla relativa legge delega (art. 4, co. 4, lett. b, l. n. 421/1992), effettivamente la TARSU fu «posta in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzionedei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall’altro, alla potenziale fruibilitàdel servizioda parte dei soggetti passivi» (così, Corte cost., sent. n. 238/2009), prevedendo «riduzioni della tassa per le zone in cui la raccolta non (fosse stata) effettuata e per i casi di non svolgimento del servizio» (art. 59, co. 2, 4, 5 e 6, D.Lgs. n. 507/1993), non soltanto «compatibili» con quella impostazione (cfr., Corte cost. cit.), ma destinate a costituirne coerente sviluppo (cfr., altresì, Min. fin., risoluz. nn. 4/3716 del 1981 e 8/1364 del 1989 e Circ. n. 95/1994). Come precisa la stessa Cassazione, «la riduzione tariffaria» al 40% «non opera(va), infatti, quale risarcimento del danno da mancata raccolta dei rifiuti» e «men che meno, quale ‘sanzione’ per l’amministrazione comunale inadempiente», «bensì al diverso fine di ripristinare – in costanza di una situazione patologica di grave disfunzione per difformità dalla disciplina regolamentare – un tendenziale equilibrio impositivo (entro la percentuale massima discrezionalmente individuata dal legislatore) tra l’ammontare della tassa che comunque poteva esser pretesa e i costi generali del servizio nell’area municipale, ancorché significativamente alterato» – cioè, quella «correlazione» «sulla quale si basa(va) la Tarsu» – «senza con ciò contraddirne il carattere prettamente tributario e non privatistico-sinallagmatico» (così, sent. 22531/2017; cfr., altresì, SS.UU. sent. n. 14903/2010 e Cass. 4283/2010; cfr., altresì, sez. VI-T, n. 14541/2015).
Stabilendo che il «tributo (fosse) dovuto in misura ridotta» il legislatore stesso aveva indicato quale dovesse essere l’immediata conseguenza impositiva in tutti i casi in cui il servizio di raccolta non fosse stato istituito, lo fosse stato a periodicitàlimitata-stagionale, non fosse stato svolto, o lo fosse stato in modo gravementeirregolare ben oltre la “temporanea” interruzione o disfunzione (cfr., l’art. 59 cit., co. 2, 3, 4, 5 e 6), predeterminando la quota di tributo non dovuta per difetto di uno dei suoi presupposti, come quella che, viceversa, restava dovuta a titolo di “riparto” dei costi generali da finanziare – in tutto o in parte – proprio con quel tributo ad hoc. Anche secondo la definizione normativa del «presupposto» (art. 62, co. 1, I periodo, D.Lgs. n. 507/1993) e la pedissequa formula del Regolamento di Napoli, del resto, la TARSU era «dovuta» «per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti», «nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato», «o comunque reso in maniera continuativa» e «nei modi previsti dagli artt. 58 e 59 del D.Lgs. 507/93», «fermo restando» proprio «quanto stabilito dal comma 4 del predetto art. 59» (art. 62, co. 1, I periodo, D.Lgs. n. 507/1993), a conferma che la sostanziale regolarità del servizio di raccolta era il presupposto di una quota del tributo e non già di un “diritto” che il contribuente dovesse azionare e provare perché gli fosse riconosciuta una corrispondente “riduzione” del quantum da versare: era, cioè, un “fatto costitutivo” della pretesa e certamente nella disponibilità conoscitiva e probatoria del Comune di Napoli che avrebbe dovuto governare e assicurare il servizio di raccolta.
Com’è noto, per un non breve periodo, compreso l’anno in contestazione, il sistema di raccolta partenopeo giunse alla sostanziale paralisi, anche nelle centralissime zone in cui era ubicata la nota struttura alberghiera in questione, e a tale grave impasse seguì un’autentica “emergenza sanitaria e ambientale”, che ebbe eco, persino, internazionale. Era, dunque, ben difficile negare questo stato di cose; e, infatti, sembrerebbe che il Comune avesse scelto tutt’altro terreno di reazione alle “contestazioni” mosse dalla contribuente, limitandosi a replicare di non avere alcuna responsabilità e che ciò bastasse a escludere una “riduzione” del tributo ex art. 59, co. 4. Soltanto la CTR condivise questa tesi dell’ente locale e negò «il diritto della contribuente alla riduzione tariffaria» perché «numerose pronunce di commissioni tributarie» avevano già escluso «ogni responsabilità del Comune di Napoli» «in ordine al disservizio del servizio pubblico di raccolta», forse, dato per scontato.
Alla luce di ciò, si potrebbe, persino, ipotizzare che il «disservizio» di zona nel periodo impositivo in contestazione fosse un fatto “non contestato”, pacifico fra le parti, o decisivamente qualificato tale almeno dai Giudici di appello, e che di conseguenza non potesse essere «essenziale, per l’accoglimento dell’opposizione», un «accertamento specifico (mirato sul periodo, sulla zona di ubicazione dell’hotel, sulla tipologia dei rifiuti conferiti e, in generale, su ogni altro elemento utile a verificare la ricorrenza in concreto della richiesta riduzione) della effettiva erogazione del servizio di raccolta rifiuti in grave difformità dalle previsioni».
Ma anche a prescindere da questo ipotetico scenario processuale, che potrebbe essere smentito da ciò che l’ordinanza semplicemente non specifica, se non altro al netto di elementi come quelli puntualmente indicati dalla Corte («periodo di imposizione», «zona di ubicazione dell’hotel», «tipologia dei rifiuti») – peraltro, essenziali già dell’atto impositivo e, di norma, agli atti di ogni giudizio di questo tipo – è almeno opinabile che potesse essere la contribuente a dover provare «ogni elemento fattuale utile a verificare la ricorrenza, in concreto, di un disservizio del tipo previsto dall’art. 59, co. 4^ cit.», come se questo fosse un fatto “impeditivo”, “modificativo” o “estintivo” della pretesa azionata dall’ente impositore. Al contrario, era l’effettivo e (sostanzialmente) regolare svolgimento del servizio di raccolta dei rifiuti nella zona dell’utenza – “fatto costitutivo” della pretesa tributaria in misura ordinaria o integrale – che doveva essere provato, anche perché la contribuente (sostanzialmente resistente) lo aveva specificamente contestato. Era, quindi, il Comune (attore in senso sostanziale) a dover dimostrare la regolarità del servizio (cfr., CTR Lazio, sez. VII, 32/2006), trattandosi del presupposto di una consistente quota percentuale di tributo (60%) normativamente predeterminata e distinta – per titolo – da quella (40%) comunque dovuta in base al perimetro di “contribuenza”; tanto più che nella fattispecie, fondamentalmente, si discuteva di una durevole ed estesa interruzione del servizio di raccolta per ragioni non riferibili a talune utenze specifiche.
Anche in questa materia dovrebbero operare i generali criteri di riparto dell’onus probandi (cfr., sez. trib., sent. 14 gennaio 2011, n. 775) e, come in ogni giudizio di opposizione a una pretesa impositiva, l’Amministrazione dovrebbe essere tenuta a provare i «fatti costituenti fonte dell’obbligazione tributaria» (cfr., sez. trib., sent. 24 febbraio 2015, n. 3660) – il presupposto del tributo (così, sez. trib., sent. 9 marzo 2004, n. 4766) – che per quanto sopra non si esauriscono certamente nella sola «occupazione di aree nel territorio comunale» (cfr., ancora, sent. n. 4766/2004) ma comprendono anche il regolare svolgimento del servizio.
Non si dibatteva di un’esenzione, né di un ristoro di costi sostitutivi, e non vi era alcuna asimmetria informativa colmabile dal solo utente, ma occorreva accertare il peculiare presupposto e “titolo” di una quota parte del tributo dovuto sulla base di dati certamente nella disponibilità del Comune impositore, e non vi era motivo alcuno per presumere regolare lo svolgimento del “servizio” (presupposto di una quota del tributo) e, di qui, porre a carico dell’utente l’onere di dare la prova contraria, sulla falsariga della giurisprudenza in materia di contributi consortili che esonera «l’ente impositore dalla prova» dei «vantaggi fondiari derivanti dalle opere di bonifica» e pone l’onere di provare «la inesistenza dei fatti costitutivi del diritto di credito» a carico del consorziato che contesti il funzionamento delle opere realizzate e quei «concreti vantaggi» (cfr., da ultimo, sez. trib., sent. 12576/2016); quindi, non si poteva «risolve(re) sul piano dell’onere probatorio una questione che andava in realtà correttamente posta in termini di onere di allegazione» o contestazione [cfr., mutatis mutandis, in materia di contributi consortili, Cass., SS. UU., 30 ottobre 2008, n. 26009].
La specifica fattispecie di “riduzione del tributo” in cui la Corte conclusivamente colloca il caso controverso non sembra offrire appiglio per una presunzione di regolarità o fruibilità del servizio sino a prova contraria, né per invertire l’onus probandi, perché il comma 4 dell’articolo 59 prevedeva che il «tributo (fosse) dovuto in misura ridotta» per il solo fatto del grave e durevole disservizio o qualora il servizio non fosse stato svolto, senza onerare il contribuente di attivarsi e/o di provare alcunché. Ma il successivo comma 6 forse ha giocato un ruolo nelle decisioni della Corte – un ruolo equivoco, quanto decisivo – perché tale alinea terminale dell’art. 59, pur escludendo ogni riduzione in caso di incolpevole interruzione di servizio “temporanea” (I periodo), «qualora» il «mancato svolgimento» si fosse protratto sino a produrre una certificata emergenza sanitaria/ambientale consentiva all’utente di derogare alla relativa privativa e di «provvedere a proprie spese condiritto allo sgravio o restituzione, in base a domanda documentata, di una quota della tassa corrispondente al periodo di interruzione, fermo restando il disposto del comma4» (II periodo). Se questa sibillina formula non fosse stata destinata a prevedere un “ristoro” quantomeno conseguente a un’attività “sostitutiva” dell’utente ma una disposizione “di chiusura”, destinata a sancire il diritto alla riduzione del tributo in caso di interruzioni di servizio foriere di situazioni emergenziali e l’onere di documentarne i presupposti, la Corte avrebbe dovuto precisarlo e farne inequivocabile applicazione anche nel caso specifico, perché soltanto così avrebbe potuto subordinare lo sgravio parziale della TARSU a una documentata domanda (in questo caso) processuale della contribuente.
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